Recensione a La modestia – Psicopompo Teatro
Tutto inizia da una tavola custodita al Museo Del Prado di Madrid: lo spettatore non può restare passivo, deve muoversi, camminare intorno per poter seguire la storia, cogliere le forme, capire i personaggi rappresentati. Sono i sette peccati capitali di Hieronymus Bosch, artista misterioso, innovativo e spesso sconvolgente che, nonostante sia ormai trascorso mezzo millennio, non smette di esercitare il suo fascino. Ed è proprio il caotico vitalismo delle sue opere ad ispirare l’ennesima fatica drammaturgica di Rafael Spregelburd, autore argentino che dedica al pittore olandese una eptalogia: sette opere inerenti ad altrettanti peccati dell’era moderna.
Come Bosch ha, con le sue opere, criticato e trasposto in immagine i vizi ed i difetti della sua epoca, svelandone con forza immaginifica il degrado morale e spirituale, così Spregelburd agisce sulla contemporaneità, traducendone la crisi in parola scenica. Un’opera di traduzione che parte proprio dai significati delle parole, alla ricerca di un nuovo vocabolario che possa spiegare l’era che stiamo vivendo: a partire dai sette peccati capitali, che vengono reinventati – e rinominati – dal drammaturgo.
La modestia, così, da «una delle più amabili doti dell’uomo superiore» come la definiva Alessandro Manzoni, viene smascherata di tutta l’ipocrisia di cui è portatrice, assumendo un’accezione completamente negativa: è la scelta di non agire pur avendone le capacità, è lo spreco di un talento e di un’occasione, è una forma, decisamente vile, di egoismo. Ma il testo, tradotto e messo in scena per l’Italia da Manuela Cherubini, è agli antipodi da una lectio moralis: due storie si intrecciano in scena spiazzando continuamente il pubblico, che si trova ad affrontare una struttura drammaturgica quasi surreale, senza dubbio originale, irriverente e autoironica.
Gli spettatori si trovano a seguire due spettacoli paralleli, l’uno dai toni palesemente cechoviani, l’altro che può ricordare, invece, il teatro di Pinter. Due storie ambientate in luoghi ed epoche diverse – l’una agli inizi del secolo scorso in un paese dell’est, l’altra ai giorni nostri a Buenos Aires – che, per caso, coabitano il medesimo appartamento riprodotto in scena e vengono rivissute dagli stessi attori (Hervé Guerrisi, Alessandro Quattro, Gaia Saitta e Simona Senzacqua), con gli stessi abiti. Si passa da una storia all’altra con disinvoltura, senza dare spiegazioni razionali: il risultato è un cortocircuito narrativo che obbliga il pubblico ad una costante attenzione e lo invita a un esercizio di continua messa in discussione delle proprie certezze. Prendendolo anche un po’ in giro, disseminando nel testo indizi ed elementi che fanno presagire intrighi spionistici per esempio, che non avranno alcun sviluppo. Una sorta di MacGuffin hitchcockiano volto a scardinare dal pubblico i luoghi comuni della narrazione e dei generi.
Il testo si arricchisce, così, di infiniti particolari che non hanno alcuna motivazione drammaturgica se non la casualità: è un altro modo di comunicare significati quello sperimentato da Spregelburd, partendo proprio dallo sfruttamento del non-sense per mettere in evidenza che spesso l’assenza di una spiegazione logica, netta e precisa può aprire le porte a una comunicazione più emotiva ed efficace. La modestia è, in qualche modo giustamente inspiegabile, uno spettacolo non da spiegare, ma da capire: perché a essere messa in scena è l’incomunicabilità stessa che mina l’uomo moderno. Liberato dall’oppressione della logicità e della coerenza, il lavoro si fa forte di una leggerezza che trafigge mettendo a nudo gli aspetti più sottili della crisi della nostra epoca.
Psicopompo Teatro regge bene la sfida che il testo del drammaturgo argentino ha lanciato: gli attori, pur con qualche titubanza giustificabile dall’anteprima assoluta di un lavoro che, per le difficoltà che mette in gioco, richiede probabilmente un maggiore rodaggio, si muovono comunque con agilità tra i diversi personaggi che sono chiamati a interpretare, scegliendo di non cambiare mai troppo. Forse per accentuare ulteriormente lo spaesamento nel pubblico, o forse perché, in fondo, una delle maggiori sofferenze della nostra epoca è la perdita di unicità: cloni di noi stessi e risucchiati dalla spirale del “dover dare un significato a tutto”, abbiamo smesso di ricordare che il più delle volte, nella vita, le cose capitano per puro caso.
Visto al Teatro Giovanni Poli, Venezia
Silvia Gatto