Recensione a Macadamia nut brittle – di ricci/forte
foto di Angelo Maggio
Macadamia nut brittle. Risuona come una formula magica. Invece è il gusto di un gelato. Ma non una trovata. Non qualcosa di edulcorato per tintinnare facili fibrillazioni. Qualcosa di intimo piuttosto. Che incornicia una diapositiva di vissuto. Quello delle prove che hanno preceduto lo spettacolo in una infernale (questione di temperatura) saletta sulla Tuscolana a Roma. Dove la compagnia ricci/forte ha partorito lo spettacolo che l’ha data in pasto al grande pubblico. Un parto, già. Di quel groviglio interiore portato in grembo come un feto. E in scena come un caleidoscopio in technicolor. Violento e fragile. Senza sconti. Senza ammiccamenti e inchini. Nudità. Da far raddrizzare i capelli ai benpensanti e estasiare le papille gustative di chi ha occhi chiari su quel che non appare.
Sono quattro gli attori in scena: Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori, Anna Gualdo. Ognuno con il proprio spessore tecnico e il bagaglio sano di umori figurati a prova di esame accademico. Ma sono facce (gli attori), stravolte, nude, sanguinolente, scabrose, libere, di un’unica identità. Un gioco di dualità fuse in un sentire comune. Stefano e Gianni e il loro pennellare da una prospettiva di privilegio: quella dello sguardo onnivoro e onnisciente. Nulla di divino, ma umano troppo umano che caratterizza gli spiriti liberi.
Macadamia è un capolavoro pop. Il sesso in scena, la stucchevolezza dello slang brutale, le pose in crinolina, sono orpelli. Un meccanico simbolo dei vuoti bigotti, giudici di diversità. Un vitalizzare in quadri quella rabbia dimorante nel dolore dell’assenza. Quel dolore che ti fa coniglio preda degli squali detentori di un andirivieni cannibale. Storie metropolitane. In rosa shocking e comandamenti televisivi.
foto di Angelo Maggio
Le scene? Icone d’arte contemporanea e intermezzi monologanti messi in viva voce dal profondo. Dal custodito sotto statuari contenitori di perfezione estetica. Resoconti d’esistenze dove l’eccesso, sano schizzo di individualità scardinate da retaggi atavici, è magma rovente che erutta perché messo in gabbia. Perché utile ad una chiave di lettura = specchio per vittime e tossicodipendenti dal bombardamento mediatico. Uno schiaffeggiarsi da soli, guardandosi lucidamente da fuori. Antidoto alla passività. Ironia, pensosa leggerezza, alla subordinazione morale che non lascia scampo al non conforme a norma. Antidoto alla mancanza. Perché una storia, si racconta. Una storia di andata senza ritorno. Struggente e umana. Il frutto che perde l’albero. E non ha più radici, nutrimento.
Dei balocchi, con soluzioni registiche ipnotiche, strutturate senza troppo pensare a qualcosa di allestito. Degne dell’eccellenza del genere. Scenografiche confusioni di oggettistica di consumo e mascheramenti vomitati dal piccolo schermo concorrono ad assottigliare il filo spinato, preso a colpi di cesoia dal collante scenico creando osmosi o allontanamenti siderali tra palco e platea. Dove gli umori suscitati sono molteplici, come del resto le sembianze della messinscena legate da un quid invisibile e non immediatamente decifrabile. Quel mistero ermeneutico del contemplativo. Il contemporaneo in puzzle. E nello stesso tempo dissacrandone canoni e certezze. Testimonianza di una padronanza di codici, cifre stilistiche, linguaggi da far divertire gli accaniti delle citazioni e dello strutturalismo teorico. Di certo una nuova traccia.
Macadamia nut brittle è una dose d’etere. Sottocutanea. Le creazioni del duo all’apice del teatro italiano, per acclamazione e discordia, sono monumenti all’arte visiva. Viva. Magritte e Frida Khalo che si uniscono selvaggiamente. Modigliani e Toulouse-Lautrec intreccianti le mani su un unico pennello sguazzante su tela. Picasso e Francis Bacon da una finestra comune. Nessun paragone con i geni teatrali, no. Roba da critici/prime donne di balletto. Stefano Ricci e Gianni Forte fanno scuola. Non manierismo.
Recensione a Macadamia Nut Brittle – di ricci/forte
Macadamia Nut Brittle - foto di Mauro Santucci
Gli attori già in azione accolgono il pubblico in sala, come se il ciclo performativo non si riducesse allo spettacolo che sta per cominciare, ma lo precedesse e lo continuasse, al di là del tempo (e forse dello spazio teatrale). Si ripetono movimenti in sequenza, in silenzio, tutti uguali per i tre interpreti (Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori), mentre sembra di essere calati in qualche remoto avamposto di un taylorismo dal retrogusto mejercholdiano. E invece, quando attacca l’audio, si scopre che ad introdurre lo spettacolo sono le appuntite coreografie da hostess, quelle viste e straviste con un briciolo segreto di terrore alla partenza di tanti aeroplani. Già qui il canone (teatrale, culturale, sociale) trema, e con esso la mente dello spettatore, felicemente spiazzata da un incipit che si scopre essere il puntello destinato a crepare confini concettuali, certezze estetiche e convenzioni comode, teatrali e non.
In Macadamia Nut Brittle, spettacolo di Ricci/Forte del 2009, va in scena – senza mezzi termini – il contemporaneo. Con tutte le sue “sgargianze” e le sue contraddizioni, gli slanci rivoluzionari e i pigri affondi in divano, gli immaginari onnivori e quelli integralisti, insomma con tutta l’isteria bifronte (vitalistica e depressiva) del postmoderno. Lo sguardo dei due autori e registi romani ne restituisce un blob densissimo ed esplosivo, che si concretizza in uno spettacolo ad andamento rizomatico che chiama in causa qualsiasi – davvero! – elemento-chiave dell’epoca attuale. Il focus sull’adolescenza, con tutti i suoi preziosi e dilanianti riti di passaggio all’età adulta, oggi un po’ perduti e un po’ estremizzati, è soltanto una delle spinte di senso che percorrono la drammaturgia di Stefano Ricci e Gianni Forte, un territorio nucleare in cui lo straniamento di brechtiana memoria è mutato a specchio, attraverso il linguaggio degli sms e l’esposizione impietosa dei corpi, mentre ogni nodo deflagra in un affondo in filigrana ulteriore, in cui a volte si rischia – e forse è legittimo – di perdersi, fra approfondimenti e corrispondenze del tutto personali. In questo lavoro si incontrano, in un sapiente andirivieni di rimandi, Wonder Woman (è il costume di Anna Gualdo, unica interprete femminile) e il Nesquik, i concorsi di bellezza, il recente crollo di Pompei, i Simpson e il finale di Titanic. E poi tutta la carrellata televisiva, con cammei, anche minuscoli, per ogni serial di culto (dagli intrighi ormai archetipici di Beautiful all’autonomia interattiva di Lost e Grey’s Anatomy) ed emblemi tratti dalla spettacolarizzazione dell’informazione, telequiz, reality e cartoni animati all’ultimo grido, fra personaggi appena citati e altri a cui è riservato quasi un ritratto in questa galleria degli orrori estremamente familiare. E la lingua, poi, la lingua: un idioma misto che divora tutto, che si contamina delle sintesi acrobatiche internettiane e rilancia verso un lirismo di grande tradizione, si cala poi in quell’inglese prêt-à-porter che allarga (e allo stesso tempo assottiglia) le comunicazioni di questi anni, per finire poi con l’ustionare sintassi e semantica con parlateborgatare, certo romanesche d’origine, ma italiane d’adozione, appartenendo a tutte le deformazioni linguistiche della provincia italiana, sospesa com’è fra slanci internazionali semplificati e un dialetto che non (ri)conosce più. E poi, e poi… E poi «ci sono io – dice la lucentissima Gualdo – che non trovo forma e mi sciolgo nelle serie tv». Perché, a far da contrappunto a quella che sembra un’ossessionante violentissima playlist del meglio del peggio del trash contemporaneo, in mezzo al blob incalzante di inconsistenze ormai mitologiche, si trovano enormi affondi personali, monologhi a doppio taglio che prendono di sorpresa in mezzo alla sfilata delle allucinazioni. L’accelerazione dell'(an)estetica contemporanea che si muove per accumuli vertiginosi, in scena, è costellata, con sempre maggior frequenza da assoli di una forza feroce: una foga di travolgenza quasi tribale intessuta di lunghi momenti immobili, lancinanti. Se inizialmente quel che resta del personaggio è frantumato nelle diverse voci e nei vari corpi che gli danno vita, man mano, al centro della mattanza pop insorgono persone vere e al centro dell’attenzione è condotta la singola, irriducibile, solitudine individuale – ancora più di atroce evidenza in seguito a una delusione, a un abbandono. C’è la perdita dell’altro (e dunque di sé) che incombe su tutti e il pubblico non è escluso.
Macadamia Nut Brittle - foto di Mauro Santucci
Ma sulla scena come nella vita il volume è troppo alto – ed è lì che l’individuo si perde; i gesti sono rimarcati in caricature dell’umano, i movimenti frenetici, accelerati, ripetuti e ripetitivi – e là la singolarità, come la società, è minacciata; tante immagini di grande forza e molteplici decolli di poesia, moltissima violenza e iper-realismo grottesco; tanti i colori e troppi i rimandi, fra accumuli di immedesimazione e imprevisti che allontanano: tuttotutto troppo, insomma. E tanto in teatro quanto nella realtà la concentrazione diventa una fatica irrealizzabile, la completezza un miraggio, la partecipazione si dissolve in un Io che rapisce e poi si ritrae. Ripercorrere la voracità dell’impilarsi delle tante scene – alcune, davvero, di rara potenza – che si succedono a ritmi sempre più feroci, sarebbe una scommessa pericolosa e forse inutile: c’è il momento in cui, tutti in pose sempre più aggressive, gli attori raggiungono sgomitando, sempre più violenti, l’arco di proscenio; c’è il passaggio del girotondo, la mutilazione straziante di un bianconiglio a grandezza umana e una scena in cui si racconta la tragedia dell’abbandono dopo l’entusiasmo di un incontro d’amore occasionale; sì, in un’epoca in cui si minaccia la fine della storia, in questo spettacolo ci sono tante, tantissime, storie finite (male). Innanzitutto la propria – e il destino non può essere altro che un lago di sangue, metaforico o reale che sia. Salvo poi essere inseguito – e questo è un nodo che rischia di depotenziare le spire del lavoro – da una conclusione ulteriore, e un’altra e un’altra, che tanto sul palco quanto nella vita, sembra non risolversi, rimandando il finale, con tutta questa varietà di chiusure possibili, a tempi migliori.
In Macadamia Nut Brittle – spettacolo nel bene e nel male schiacciante sul crinale fra coinvolgimento e autoreferenzialità, a volte troppo lungo o dilungato ma che (di)mostra in ogni caso schegge di verità strazianti, la cui forza va accreditata all’empatia instancabile dei quattro attori – riecheggiano i rischi ben noti di quella condizione post-moderna che cerca rigenerazione nel movimento ciclico perché non può trovarla nell’invenzione; che, non riuscendo ad andare avanti né indietro, fa della declinazione di sé la possibilità più esclusiva di sopravvivenza; che, infine, registra il contemporaneo senza potersi o volersi schierare. Ma il fatto di portarlo in teatro – tanto più in un Teatro come il Goldoni – e di fare un passo indietro, senza apparentemente giudicare o reagire a quel mondo, come ad includervisi, è già per sé una presa di posizione non indifferente.
Visto a EXTREME.TEATRO – sala In.Off del Teatro Goldoni, Venezia
Roberta Ferraresi
Ripercorrere la voracità dell’impilarsi delle tante scene, che si succedono a ritmi sempre più feroci, sarebbe una scommessa pericolosa e forse inutile: c’è il momento in cui, tutti in pose sempre più aggressive, raggiungono sgomitanto, sempre più violenti, l’arco di proscenio; c’è il passaggio del girotondo, la mutilazione di un bianconiglio ad altezza umana e una scena in cui si racconta la tragedia dell’abbandono dopo l’entusiasmo di un incontro d’amore occasionale; sì, in quest’epoca in cui si minaccia la fine della storia, in questo spettacolo ci sono tante, tantissime, storie finite male. ………….elenco……………sotto gli occhi tutti i giorni………fanno questo……….
La singola, irriducibile, solitudine individuale – ancora più di evidenza lancinante in seguito a una delusione, a un abbandono. C’è la perdita dell’altro (e dunque di sé) che incombe su tutti e il pubblico non è escluso.