Recensione di Madeleine – Muta Imago
Una soglia da attraversare, un ricordo da cancellare, un’ombra che non si può neanche sfiorare: la prima tappa di Madeleine, ultima fatica dei Muta Imago, sembra avere tutte le carte in regola per diventare il giusto successore di Lev, spettacolo che ha consegnato il giovane gruppo romano al successo. La prova aperta di questo nuovo progetto è andata in scena al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia riuscendo a stupire con una semplicità scenica carica di intensità, seppur per una manciata di minuti.
Immersi in un’oscurità totale, crescono ansia e paura in uno spazio dove tenebra e silenzio dominano: è come se il tempo si fosse fermato, pochi istanti di buio sembrano durare un’eternità. Lentamente, al centro, prende forma una sorta di grande finestra che apre verso un ‘altrove’, verso uno spazio non definito; ma tutto rimane avvolto in un manto di nebbia che impedisce allo sguardo di scorgere qualcosa di familiare. È come l’illuminazione spettrale di cui parla Conrad in Cuore di tenebra, quel chiarore lunare che rende visibili gli aloni oscuri intorno allo stesso satellite celeste: ugualmente sul palco, attraverso questa finestra, si ha un fioco barlume, di cui non si conosce la provenienza, continuando ad essere immersi nel buio. Nel sottofondo un vento sibila, quasi impercettibilmente e attraverso un bellissimo gioco di specchi, delle immagini frammentate di un corpo femminile vengono riflesse sopra il pannello-finestra: sembra di trovarsi in un’atmosfera onirica e sognante, precaria, sospesa nel buio misterioso, a cui è impossibile accedere.
Una piccola luce si accende e il suo fascio investe solo la donna che, camminando, trascina la lampada appesa sopra di sé: sembra di essere entrati nella sua intimità, lo sguardo è concentrato su di lei, sulle sue azioni. Ma dalla quiete data dai suoi piccoli gesti quotidiani – come il vestirsi –, si ha di nuovo un ribaltamento di emozioni: il pannello-finestra diventa una porta scorrevole e confine che separa la donna da un’ombra maschile di qualcuno che sfugge, di una persona di cui non riusciamo a vedere la fisicità perché al di là di questo limen. Corpo e ombra danno vita a un inseguimento concitato, non riescono a toccarsi: la soglia quasi celaniana da attraversare, non è qui un passaggio tra un dentro e un fuori, ma tra una condizione di essere ancora e non essere più, di qualcosa che è e di ciò che è stato, di ciò che permane, ma in maniera sfocata, come un ricordo. Oltrepassare quel pannello significa addentrarsi in una oscurità enigmatica, dove piccole luci che appaiono confusamente non riescono a illuminare il buio calato di nuovo violentemente in teatro; un buio in cui la donna si immerge senza sapere dove la porterà: forse nel labirinto dei ricordi che Madeleine vorrebbe cancellare, ma su cui non ha alcun potere e che, come la figura maschile, si presentano sotto forma di ombre che sfuggono al suo controllo.
Terzo anello di una trilogia della separazione, iniziata con (a+b)³ e proseguita con Lev, Madeleine assorbe in sé le figure incontrate durante questo percorso partito nel 2006: se b trova il suo corrispettivo identitario in Lev, a si rispecchia nella protagonista, dal nome proustiano, dell’ultimo anello del progetto. Ma i due amanti separati nel primo spettacolo a causa della guerra si contrappongono: Lev attraversa tempo e spazio per cercare di recuperare una memoria che non tornerà, Madeleine tenta di lasciare i suoi ricordi al buio, illuminando solo se stessa e il suo presente.
Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia