Recensione a Not here, not now – di Andrea Cosentino
Un padiglione di arte contemporanea. Un’installazione interattiva. Un percorso fisico e mentale.
Not here, not now nasce dall’incontro\scontro di Andrea Cosentino con il metodo Marina Abramovic. Con una performance realizzata nel 2012 al Pac di Milano, l’artista serba, dopo quarant’anni di sfide estreme, si è interrogata sulla percezione del pubblico, sulla visione e la partecipazione, e ha offerto l’acquisizione di un’esperienza. Con un biglietto da 15 euro, l’attore abruzzese ha partecipato, ritirato un attestato e ricevuto gli stimoli per il nuovo lavoro, visto in fase embrionale all’India, nel cantiere di Perdutamente, e presentato il 25 aprile in forma di saggio, durante la settima edizione dei Teatri di Vetro.
Cavalcando ironicamente il motto del festival, Io non ho paura, Cosentino si confronta senza timore con la regina della body art, non tanto per attaccare un’icona, quanto per indagare il rapporto tra arte e vita, avviare una riflessione sulla realtà e la finzione e interrogarsi sulla creazione di un’opera d’arte, o presunta tale. E lo fa con i mezzi e i modi che utilizza e che conosciamo, tra momenti metateatrali, digressioni e interruzioni, bambole e parrucche, oralità e travestimento. E con l’irruzione del video, non la cornice vuota di Angelica o di Telemomò, ma due schermi luminosi, riproduttori di immagini autoprodotte. Storie e personaggi si alternano, come già in precedenti lavori (ricordiamo L’Asino Albino), ma qui lo sviluppo appare più lineare: un intro tutto giocato al microfono, una dichiarazione di intenti, un’incursione nel panorama famigliare, il viaggio esilarante nella body art e l’incontro necessario tra verità e simulazione.
Occhi chiusi, cuffie sulle orecchie, mani in tasca, un ipotetico partecipante a The Abramovic Method deride una platea che definisce obsoleta, abituata al teatro elisabettiano e poco avvezza all’arte contemporanea. Tra incredulità e percezioni alterate, altri improvvisati performer restituiscono il brainstorming con se stessi, tra la ricerca di gesti ‘potentemente iconoclasti’ e giri psichici tra i lotti della Garbatella, spazi vivi di TdV.
Poi vengono il racconto dell’esperienza al Pac, l’attacco ai brand, ai nomi che sono combinazioni di lettere a proprietà privata, tra Duchamp e Fontana, e le divagazioni, tra i miracoli tecnologici dell’iphone e i prodigi di un celebre aspirapolvere. C’è lo “psicodramma della genesi dell’arte cosentiniana”, sguardo sul microcosmo domestico, sulle filastrocche raccontate dalla madre al figlio (e oggi dalla nonna alla nipote) che avrebbero generato un teatro di “cazzatelle per distrarti e non pensarci”, contro le sperimentazioni degli artisti che hanno avuto, invece, una rigida educazione.
E se, nella parte centrale, andrebbe operato un intervento di sottrazione, per eliminare alcune ridondanze e dilatazioni, l’epilogo di Not here, not now, che debutterà a giugno all’E45 Napoli Fringe Festival, è sagace e pungente.
Momento clou i video di Tommaso Abatescianni, esperimenti poco estremi di body art di un Cosentino con naso finto e lunga treccia, impaurito e incredulo artista dal nome non noto. È Accecovic quando s’infilza gli occhi con un cotton fioc, Albuiovic quando affronta l’oscurità, Agrumovic quando addenta un limone intero, Astemiovic quando resiste a un bicchiere di vino, Apiedovic quando attraversa a piedi la città con le buste del mercato.
Percorso che dallo schermo si propaga sul palco, dove Cosentino\Abramovic, scarpe rosse e copricapezzoli, si infligge ferite con un finto coltello schizzando in aria fiotti di ketchup, spassosa risposta all’assunto «Theatre is very simple: in theatre, a knife is fake and the blood is ketchup. In performing srt a knife is a knife and ketchup is blood».
Performance che si svolge qui e ora, figura morente di clown con tacchi da drag e sangue posticcio, opera d’arte cosentiniana dal titolo BUA.
Visto al Teatro Palladium di Roma
Rossella Porcheddu