C’è crisi, e necessità di rifondarsi. Di fare tabula rasa ricostruendo dal niente. Conservare purezza e pratiche sane; acidificare impurità. Il teatro, dunque, quale strumento di proselitismo. Per coscienze svuotate. Per spolverare un senso critico sotto sabbia. Una riflessione indotta, semplicemente incoraggiata, suggerita o accennata almeno. Se non è atto politico, non è detto non debba avere dignità o ragione d’essere l’esecuzione teatrale. Ma, il contesto attuale, storico, sociale, obbliga a delle prese di posizioni serrate, ferme, necessariamente osmotiche. E se le rivoluzioni nascono individualmente, una moltitudine di singoli, concentrati contemporaneamente sulla stessa rappresentazione (fenomeno), formano e amplificano una comprensione comune, potenzialmente esecutiva.
Nelle rassegne e nei festival, la materia vivida di fruizione asseconda lo scambio, la parola, il dibattito. Non solo tra spettatori ansiosi di commenti a fine scena o turisti in vacanza… Dialettica collettiva, invece, che semina o potrebbe seminare, per futuri raccolti. E cambi direzionali.
A Castrovillari, il festival di Primavera, è un evento speciale. Prima di tutto perché si percepisce la tensione (di volontà) nell’attuare un discorso sul teatro ché non sia esclusivamente panem et circernses. Poi, perché possibile in una terra impossibile. Perché una strana alchimia scandisce i giorni. Un’inconsueta unione empatica. Magari così in maschera da risultare verosimile (il teatro che si estende oltre se stesso); probabilmente ruffiana; sicuramente non disinteressata. Ma c’è. Un bene comune.
Succede a Castrovillari, che dopo 3 giorni di festival sembra siano passate settimane. Succede che una cittadina di provincia si emancipi e diventi un borgo europeo. Che un gruppo di studenti universitari alimentino la passione nel volere cibarsi di fatti teatrali ascoltando in un bistrot le parole di un critico, Giulio Baffi, la cui vita è scorsa tra palco e realtà. Succede che nelle segrete del Castello Aragonese, prigioni fino a vent’anni dopo l’Unità d’Italia, un musicista, Gianfranco De Franco (esecutore e compositore delle musiche di Dissonorata e La Borto), materializzi le percezioni degli uditori e li porti a compiere viaggi sensoriali. E l’umido dei sotterranei sembra diffondere tanfo di carni putride e angosciosi respiri.
Giovedì, terzo giorno di festival, giorno di prime. Mario Perrotta con Un bès. Antonio Ligabue in prima serata al teatro Sybaris e Roberto Latini in seconda nella Sala 14 con Noosfera Museum.
Il dualismo dell’artista-uomo nel lavoro inedito di Perrotta, di chi sa di “meritare un bacio, da artista, e elemosinarlo da pazzo”. Un’indagine in terra di confine (umana e cerebrale), in cosa è dentro e fuori; riflessione approfondita sulla libertà d’agire per proprio dettame e i condizionamenti di etichette altrui.
Perrotta arriva sul palco dalla platea, mendicando affetto, comprensione, gesti d’umanità. Il suo sguardo assente, stralunato, svela il timore (probabilmente) della prova davanti un pubblico “attento”. Davanti a un teatro gremito e una trentina di spettatori concentrati più sull’attesa della sbavatura, della stonatura, anziché mettere occhi e sensi sulla scena liberandosi da sovrastrutture di ruolo e mestiere…
Trapela l’emotività che non è solo del personaggio. Quella è calcata in maniera naturalistica, e tramite il linguaggio teatrale, metaforico, intuitivo, percepibile, s’incarna e si fa veicolo tra il pubblico al buio. Una dialettica ricercata, sperimentata a commistioni di poetiche inconsuete, codificate ma originali. Tre pannelli a grate, dei finestroni ingabbiati, come unico elemento scenografico che diventano, nel retro, lavagne cartacee in cui Perrotta tratteggia a carboncino. E rappresenta paesaggi (ambientazioni), personaggi, visioni d’una mente diversamente abile. Ricerca e sperimentazione. Padronanza attoriale e fisicità versatile a prodursi in elemento scenico. Assenza di sintesi e verticalismo pronunciato. Consuetudine dei lavori scritti e interpretati, la regia è postuma alle esigenze di attori e costruzione di scene. Che nel troncone finale dello spettacolo, assumono forme più familiari di narrazione e dialoghi con doppi indivisibili. Un leggero riverbero di caratterizzazione eguale a se stesso macchia leggermente la prova: l’incertezza della prima, il timore precedentemente accennato. Un moderno innestato a trame consolidate, emerso con la spettacolarizzazione del prodotto visivo. Il palco diventa camera oscura, in alcune scene, dove sono proiettate, a luce fantasmagorica, paesaggi, disegni, volti. Fantasmagorie, come attorno a uno scemo del villaggio. Artista. Bandito e ammirato. In eterno conflitto tra il fuori e il dentro. Ma senza maschere d’ordinanza. Se ne evince non un’attenzione epica su un accaduto, una biografia, nemmeno un tentativo catartico nell’osservare qualcosa per cui provare pietà e espiare. Piuttosto uno specchiarsi riaffiorando in superficie, da noi, da dentro, quella parte di follia stipata accuratamente sottovuoto.
Latini è un poeta del gesto. Scevro dal lirismo. Padrone in scena, del suo corpo e della sua voce. Padrone non egoista né autoreferenziale. Ma pasto per pubblico e oggetto di voyeurismo impalpabile. Di trasmissioni non immediate. Su cui tornare, con la riflessione, da diverse angolazioni di vista, di analisi. Il teatro che apre la mente. Di un linguaggio non intellegibile, diretto o esplicativo. Metaforico, ermetico, simbolico, immaginifico. Dopo Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic, il terzo movimento del progetto, Noosfera Museum, si propone suggerimento della semantica testuale, come esposizione di mutazioni fisiche e essenziali effetto del «disagio dell’attesa di un futuro che si è dimesso dalla nostre aspirazioni». Voci da rifugi, da corazze (o prigioni) di solitudini. In uno spazio (d’azione scenica) ipertecnologico e naturale (luci, effetti sonori, fumo artificiale, alberi e terra, sangue, vino), Latini incarna la gelatina umana ammassata come in una fossa comune di anonimati, di dispersione. Ambendo al calco della bellezza tenuta in serbo «dalla platea che l’ha custodita». Cinquanta minuti di mutismi materializzati visivamente; l’intromissione della parola sgranata dagli amplificatori (in fuori campo) poi modulata dalle corde vocali dell’attore. Senza troppo cenno d’impostazione, cruda, dal profondo, precisa e scandita, confidenziale. Museum, esposizione di corpi e interiorità in gabbia e in processione sistematica. Contrapposizione a sintassi dogmatizzata. Urgenza sensibile tradotta in linguaggi altri, liberi. Liberi dal confezionamento per cerimonie, liberi dagli unici sguardi possibili, da prospettive banali. Liberi come dovremmo essere dalla standardizzazione di ambizioni, volontà, atteggiamenti. Per partiture prese a sacrificio attoriale dell’espressione accurata. Per tensione teatrale tenuta chirurgicamente a ritmo costante e un talento, cibo per uditori non ipocriti.
Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari
Emilio Nigro