recensione sandokan

Immaginare non stanca: la cucina di Sandokan

Recensione a Sandokan o la fine di un’avventura — I sacchi di sabbia

Sandokan o la fine di un'avventura

Suona decisamente poco originale affermare, oggi, che viviamo in un mondo sovraffollato di immagini. Eppure, proprio perché la televisione plasma l’immaginario collettivo da ormai più di 50 anni, continua ad essere necessario indagare sulle capacità del nostro cervello di produrre autonomamente immagini e visioni, in altre parole di ricorrere liberamente alla fantasia, concetto che nel corso del XX secolo – e non solo – è stato oggetto di slittamenti di senso e connotazioni diverse. Ed è stato proprio interrogandomi sul significato della parola “fantasia” che mi sono imbattuta nelle parole di Fernando Maddalena, psicologo psicoterapeuta che in un articolo dal titolo L’immaginazione al potere (o del potere dell’immaginazione) scrive: «è soprattutto riguardo all’importanza attribuita all’immaginazione che Marcuse sarà celebrato in quegli anni roventi dai giovani beatnik di tutto il mondo; se in sostanza ‘la ragione’ si identifica con il ‘sistema’ e non è più in grado di creare nuove possibilità dell’essere, occorre allora trascenderla e affidarsi alla immaginazione (“l’immaginazione al potere” era appunto lo slogan più in auge tra i giovani dell’epoca), quale unico strumento capace di penetrare nell’essenza del reale e di realizzare la liberazione dai condizionamenti mentali e fisici imposti all’individuo dal sistema stesso».

Questa premessa sulla fantasia e/o immaginazione mi pareva necessaria per mettere a fuoco quello che è il centro propulsore e di forza dello spettacolo Sandokan o la fine di un’avventura messo in scena dalla compagnia toscana I sacchi di sabbia, che le ha valso il Premio Speciale Ubu 2008. Coerentemente con un percorso che si muove tra tradizione e innovazione e che gioca sulla labilità dei livelli che compongono l’immaginario culturale — ma anche scenico — la compagnia ri-porta in scena la vicenda della Tigre della Malesia, nota ai più per la celebre opera di Emilio Salgari. Evitando con grande abilità il rischio di dare vita ad un racconto semplicistico della vicenda di Sandokan e dei suoi compagni, la scrittura scenica di Giovanni Guerrieri crea una sottile empasse di gioco, drammaturgia, pittura e fantasia in cui i cinque attori riuniti attorno ad un tavolo da cucina trovano di volta in volta gli ingredienti per dare vita ad immagini vivide e nitide: pentole, bacinelle, acqua, sale, pomodori, patate, sedano, carote, insalata e altri elementi si trasformano sospinti dalle parole dei cinque “chef” in scena in veri e propri oggetti, personaggi e scenari che la nostra mente è in grado di visualizzare con precisione, trasmutando le forme di una realtà fisica che perde i propri connotati sotto i colpi di una drammaturgia agile e pungente. Ed è questa “parola-ago” a scatenare le immagini latenti nella mente dello spettatore, grazie anche ad una pre-conoscenza della storia narrata — o perlomeno dei suoi nodi principali — conducendolo in una trama che si sviluppa in un crescendo vorticoso e incalzante.

In un “qui” che non è soltanto palco, ma anche teatro, letteratura, avventura e — perché no — vita, nascono così viaggi in mare, luoghi esotici, passioni dirompenti e azioni eroiche, che vengono trasmesse per osmosi ad un pubblico che assiste con totale trasporto alle vicende di un Sandokan in grembiule da chef. La grandezza della messa in scena sta infatti in un potere affabulatorio e ammaliante che non nasce da una pratica recitativa catartica, quanto da uno scardinamento continuo dei punti di riferimento, in uno slittamento di ruoli messo in atto da attori che, al pari delle verdure che piano piano invadono la scena, altro non sono che tramite di parole e personaggi di cui non sono pienamente partecipi. O perlomeno, non costantemente. Un’operazione che permette non di porre accenti emotivi all’interno della vicenda, ma di creare vere e proprie situazioni emozionali che si discostano dalla maggior parte dello schema recitativo.

Lungi dall’essere una piatta messa in scena basata su una trovata originale in grado di stimolare la curiosità del pubblico, Sandokan o la fine di un’avventura sembra portare alla luce i cortocircuiti di un substrato emotivo che, dalla nascita dei mass media e soprattutto della TV e delle sue fiction, può essere definito a tutti gli effetti “sociale”. E lo fa usando come leva quella fantasia di cui sopra, ovvero quella forza in grado di rompere la monotonia di un immaginario collettivo ormai omogeneizzato, e attraverso un procedimento molto più vicino ai meccanismi della scrittura che a quelli della “rappresentazione” teatrale. Eppure, nonostante la complessità tecnica e i meccanismi alla base del lavoro, I sacchi di sabbia sembrano semplicemente chiederci: è meglio fare un minestrone con verdura comprata al mercato secondo i propri gusti o comprarne uno surgelato?

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli