Recensione a Morir sì giovane e in andropausa – di Scena Verticale
La dialettica a teatro può diventare godimento. Inquadrare il descritto da renderlo traccia cutanea. Quando e se è efficace: non autoreferenziale, universale e dilettosa. Che sciorini da un microfono, da un coro, o sia voce di corpi, o artifici visuali contemplativi. Che venga veicolata dalla musica o dettagliata grazie al canto.
Il teatro canzone è un genere mosca bianca per storia e godibilità. Basterebbe pensare alla poca attenzione destinata da pubblico e artisti dopo Gaber. Probabilmente per il timore del dissacrare un raggiungimento qualitativo giunto all’apice di perfezione, da risultare icona sacra-nicchia da non far altro che venerare. Spolverandone la teca di tanto in tanto. O perché intimoriti, i teatranti, nel misurarsi con un genere non comodissimo, per cui risultare bene è davvero coraggioso.
Onore dunque al semplice tentativo, ai ragazzi di Scena Verticale alle prese con il nuovo spettacolo itinerante Morir sì giovane e in andropausa – sì, la frase, per metà, è quella esclamata da Violetta ne La Traviata. Quando poi il coraggio è premiato dalla godibilità dell’allestito, è en plein.
Debuttante al festival di Castiglioncello, il tracciato riscuote successi di pubblico (e che pubblico), e critica (e che critica). E dissensi. Ma diceva qualcuno altolocato intellettualmente che il dissenso alimenta la democrazia; e se qui da noi in cui il concetto sta diventando sempre più relativo, che ben vengano allora le voci contro.
Sull’Italietta Dario De Luca e la Omissis Mini Orchestra – Paolo Chiaia (piano synth e armonica), Gianfranco De Franco (clarinetto, sax, flauti, loop), Emanuele Gallo (basso), Giuseppe Oliveto (trombone, flicorno, fisarmonica, conchiglie) Francesco Montebello (batteria e percussioni) – fa ridere, commuovere, riflettere, nelle due ore di messinscena alternando il monologare scritto e interpretato da De Luca al musicato arrangiato e composto da Giuseppe Vincenzi.
Gustoso. Sarà per la pertinenza dei testi alla dimensione socio-culturale attuale, critica, affrontata in scena senza mai ricorrere al retorico o scemare nel petulante. Riflettendo invece attraverso il ricamare un linguaggio scenico espressivo di efficacia cristallina, veicolato dall’andatura confortevole delle note. Sarà per il recitato/cassa di risonanza, tracciando con ironia, di un sentire comune esplicitato in un taglio croccante, di alta godibilità, divertente. Avrebbe annuito Jean Jenet fosse stato spettatore: un modo per specchiarsi sul palco, per chi osserva dalla platea, in sembianze quali non si riuscirebbe a essere.
Un’indagine alla maniera di Gaber, prendendo in prestito la satira alla Paolo Rossi dei tempi migliori, confezionata con i segni riconoscibili del tratteggio teatrale di De Luca. Spontaneità e talento, ingegno drammaturgico e grammatica di scena scorrevole, leggerezza e riflessione. Ascoltando resoconti tragicomici che sono sotto gli occhi di tutti ma nessuno apre bocca per parlare. Per paura di quei padroni che Dario De Luca, sul palco, sbeffeggia, con tanto di nomi e cognomi. Applausi.
Visto al Castello Aragonese di Castrovillari per Peperoncino jazz festival
Emilio Nigro