Recensione a Pali – Compagnia Scimone Sframeli
Tre pali fissati su una collinetta verde. Le posizioni laterali, con inevitabile rimando ai due ladroni evangelici, sono occupate da La Bruciata e da Senzamani, personaggi legati l’uno all’altro dal fatto che hanno deciso di difendersi dal mondo esterno isolandosi, salendo su dei pali, abbandonando il basso per guardarlo dall’alto perché – come anticipano i due – solo in questo luogo deputato «si può stare a testa alta» e solo «dai pali si vede tutto, perfino il pensiero degli altri». A dare voce a queste due figure è la coppia messinese formata da Spiro Scimone e Francesco Sframeli che con la loro ultima creazione, Pali, abissano la denuncia sociale nell’inerzia dell’individuo, in un’esplosione di parole che rafforza l’immobilità del corpo.
Arroccati su questi pali, i personaggi si inseriscono in una dimensione scenografica completa (nell’essenzialità dei tre elementi), nessuna variazione si verificherà nel corso dello spettacolo, nessun coup de théâtre; lo spazio che hanno a disposizione è solo di due piedi – in senso letterale e non di misurazione – e pochi sono i movimenti a loro concessi se non quelli determinati dall’uso della parola. Questa viene testata in ogni sua declinazione; toni aspri si mescolano a un’ironia che mira al grottesco per raccontare l’isolamento come forma di ribellione alla società. Ma la rinuncia alla partecipazione portata in scena dalla compagnia messinese, pur scaturendo da una profonda presa di coscienza, non appare sufficiente a liberare l’uomo dai malesseri del mondo. L’individuo assume le specificità della marionetta e l’operazione che ne deriva è limitata alla tensione di un po’ di quel filo che lega l’uomo al tempo e alla storia e dalla quale nessuna possibile uscita risulta efficace. La relazione con la realtà si connette alla forma stessa delle strutture su cui si reggono i personaggi; la scelta di adottare i pali delle palafitte oltrepassa concettualmente il riferimento visivo della Crocifissione, per identificarsi con elementi ben fissati a terra che traggono libertà dalla sospensione oltre il livello dell’acqua. Il fiume che noi non vediamo (ma che occupiamo spazialmente sia dentro che fuori il teatro) e che i personaggi avvistano da lassù, è un «mare di merda» che incombe e soffoca, nel quale «tante persone nuotano». La drammaturgia originale di Spiro Scimone, autore dell’opera e interprete di Senzamani, si nutre di luoghi comuni che popolano la nostra società per porre in luce gli accadimenti dell’oggi, consegnando alla lingua un’universalità che lascia lo spettatore libero di affondare le proprie critiche dove meglio ritiene, come nel didascalico – e personale – riferimento alle alluvioni che hanno coinvolto il nostro Paese e alle relative reazioni, e non-reazioni, che ne sono seguite. Inerzia è la parola che echeggia continuamente, al pari di quella stessa inazione che denota anche il comportamento di coloro che si rifugiano lontano dallo squallore della realtà.
Attacchi a questo trancio di terra non tardano a venire e a completare il meccanismo innescato da La Bruciata e da Senzamani si aggiunge la coppia – quasi estrapolata dalla Commedia dell’Arte – formata da il Nero e l’Altro. Il loro ingresso viene anticipato dal suono lontano di una banda musicale ma artefici del tutto sono solo i due. Il primo si presenta percuotendo una grancassa mentre l’Altro prova a suonare una tromba, ci prova… ma non ci riesce. Di una bontà d’animo disarmante ma forzatamente costruita, il Nero e l’Altro si completano e sostengono a vicenda apportando riflessioni sui mali del nostro tempo con un forte accento sull’egoismo e sull’intolleranza. I dialoghi dei quattro si fondano sulla circolarità e ripetizione della parola, in una leggerezza che si traduce presto in esasperazione. Centrale, in questa dimensione, è la speranza dell’Altro di voler far ridere le persone con le sue barzellette, ma nel momento in cui l’obiettivo si traduce in fallimento, nasce spontanea la sua domanda: «mi dite allora cosa posso fare?». La soluzione giunge immediatamente. C’è ancora posto sui pali, vi è proprio una postazione libera tra la Bruciata e Senzamani, ma devono affrettarsi a salire i due ancora in basso, e poi «sui pali si può anche suonare».
Come variazione sul tema della rappresentazione, si presenta con cadenza regolare l’invocazione che La Bruciata indirizza a un qualche Padre idealmente situato molto più in alto della sua postazione aerea; viene testata la sua esistenza ma nessuna risposta giunge a soddisfacimento delle sue richieste, non si prospettano ipotesi di salvezza né di redenzione, così «bisogna solo aspettare – beckettianamente – che pioverà» e «con questo cattivo tempo sappiamo che a piovere non sarà acqua».
Visto al Teatro Aurora, Marghera
Elena Conti