Recensione a Le signorine di Wilko − regia e adattamento di Alvis Hermanis
Una schizofrenia divagante pervade la scena di Le signorine di Wilko nella rilettura e adattamento di Alvis Hermanis, al suo primo confronto con attori italiani. Il racconto, scritto da Jaroslaw Iwaszkiewicz nel 1933 e trasposto sullo schermo da Andrzej Wajda nel 1979, viene descritto nel foglio di sala come «un viaggio nei territori di una memoria privata, la storia di un uomo a colloquio con il proprio passato». Ed è un’atmosfera quasi surreale e dai tratti onirici quella in cui ci si immerge, complici e partecipi del percorso di svisceramento del protagonista Wiktor. Un percorso che non porterà che al punto di partenza, in una successione di nuovi eventi e passati ricordi che si intrecciano in un viluppo inestricabile.
Il sottile gioco della drammaturgia sembra infatti vertere proprio sull’incapacità di Wiktor di analizzare il proprio passato ed elaborare così le pulsioni che intimamente cela. A ben vedere, in un modo di dire noto nella lingua italiana, è proprio un “tirare fuori gli scheletri dall’armadio” ciò in cui si imbatte il protagonista. Ed è infatti sul finire del monologo con cui si apre lo spettacolo − recitato in terza persona dallo stesso Wiktor − che dall’armadio presente in scena compaiono una ad una le sei protagoniste femminili, le signorine di Wilko con le quali sino a quindici anni prima aveva trascorso diverse estati della sua gioventù, e che ci vengono presentate per nome come ad un concorso di bellezza. Ritornare a Wilko per Wiktor significa quindi immergersi nel passato, per comprendere la situazione attuale nella quale si trova a vivere e da cui il medico consiglia di prendere una pausa. Ma il risultato è molto lontano da quello immaginato. Si assiste infatti all’esplosione di una schizofrenia che non è solo del protagonista e che si mescola nell’aria alla sensualità degli atteggiamenti delle sei sorelle, in un’atmosfera che profuma di erotismo. Ed in questo connubio di pazzia e provocazione il regista dimostra la sua abilità nel non oltrepassare il limite della suggestione: gli atti d’amore che costellano la pièce sfumano in immagini e coreografie altamente poetiche, senza mai perdere la portata carnale delle azioni stesse. Ne emerge una riflessione sul corpo, sul modo in cui esso possa incontrarsi e relazionarsi con stimoli e provocazioni esterne, declinata sia nei diversi generi che nelle diverse età. E la scelta di una struttura paratattica, che procede per accostamenti e − soprattutto − per interruzioni alle volte brusche, ben riflette il movimento e l’energia di tali dinamiche, in perfetta consonanza con una dimensione che oscilla costantemente tra infanzia, adolescenza e età adulta. Passato e presente appaiono l’uno il riflesso dell’altro, in uno specchio in grado di svelare il sapore amaro di quei tempi, inizialmente ricordati con nostalgia e ingenuità. Ed ecco che si scopre della morte di Fela, una delle signorine di Wilko, che nonostante tutto occupa un posto in scena al pari delle altre. Lontana dall’essere un semplice fantasma, la piccola che quindici anni prima stava crescendo e diventando donna si presta quale inevitabile termine di paragone ed assume un ruolo essenziale all’interno della struttura drammaturgica dell’opera: è infatti la sua presenza, il ricordo della sua storia, a sigillare una ciclicità che si manifesta con tutta la sua potenza solo con la partenza di Wiktor, e quindi con la fine dello spettacolo. Se infatti nel susseguirsi degli eventi ad un certo punto si perdono le coordinate temporali − entrando di fatto nel vortice che attanaglia il protagonista che si fa trascinare dalle sei donne e dalle loro provocazioni − è grazie alla non presenza di Fela che viene svelata l’inettitudine di Wiktor, che porterà inevitabilmente alla morte di un’altra delle sorelle, Tunia, impiccatasi in seguito alla dipartita dell’uomo.
L’ampia scenografia e le scene − curate da Paolo Pollo Rodighiero e Andris Freibergs − ben restituiscono il dinamismo celato della pièce. All’ampio spazio del casolare fanno da contrappunto scatole di vetro mobili, nelle quale puntualmente i protagonisti si ritrovano imprigionati, singolarmente o in più persone. Torna anche alla mente Il grande vetro di Duchamp e la sua riflessione del tempo che passa e delle sue tracce, di cui un segno evidente è la polvere. Forse in una riflessione analoga, il regista ricorre allo spargimento di cenere in scena, che oltre a creare un filtro − e quindi una distanza − attraverso cui guardare gli eventi, si fa cifra simbolica degli anni passati e del presente che sfugge.
Con Le signorine di Wilko Hermanis sembra creare un distacco dalla comune idea di una memoria intesa quale prezioso strumento per comprendere la propria vita, la quale appare più come un lasco di tempo nelle mani degli uomini che, tuttavia, non ne possono controllare il decorso. Viene da pensare che per questo motivo il regista ricorra alla terza persona per raccontare i ricordi passati, distruggendo qualsiasi legame personale tra i personaggi e i fatti narrati. Attraverso Wiktor, che anni prima aveva preso parte alla Seconda Guerra Mondiale − nell’adattamento di Hermanis, mentre nel romanzo di Iwaszkiewicz partecipò alla Grande Guerra − possiamo intravedere l’immagine di un’umanità inerme e incapace di prendere pienamente coscienza delle sue azioni, suggerendoci che nemmeno il ripiegamento nel passato possa portare chiarezza e fare luce sulle più crude atrocità. Lasciando però ben intendere che di tutto ciò l’Uomo non è semplice vittima. Con la sua messa in scena, Hermanis sembra quasi sussurrare che causa di tutto ciò sia forse un eccessivo “egoismo” e una esasperata attenzione su se stessi e il proprio vissuto, che ci porta a vedere gli altri in una coltre di polvere e cenere.
Visto al Teatro Verdi, Padova
Giulia Tirelli