Recensione a Roadkill – Splintergroup
Un piccolo Triangolo delle Bermude nel mezzo dell’entroterra australiano, una notte di isolamento on the road: da qui prende le mosse un avvincente nightmare thriller danzato, ben riuscito, che sfascia la linea di demarcazione tra delirio allucinatorio e realtà. Splintergroup, collettivo australiano con sede a Brisbane, è un gruppo relativamente recente composto principalmente da Sarah Jayne Howard, Grayson Milwood e Gavin Webber, i tre interpreti di Roadkill (nella tournée italiana, Howard è sostituita da Gabrielle Nankivell).
Un’automobile scassata tossisce e non vuol saperne di ripartire, la fauna notturna squittisce incurante, una coppia è addormentata sui sedili dell’auto, in attesa del mattino. Poco più in là, nel vuoto notturno, spunta una cabina telefonica illuminata da un fastidioso chiarore biancastro. È rotta, e i cellulari non funzionano. Unica presenza confortante, la radio dell’auto che scandisce momenti di sconforto e giochi di seduzione.
Nell’ansia dell’isolamento si scava in un cantuccio la paura latente dell’uomo nero. Che arriva, balzando fuori all’improvviso, accanto alla macchina. Ha l’aspetto di un boscaiolo nerboruto. Da qui si innesca un gioco di inseguimenti, sadici nascondini per trovare un rifugio sicuro, acquattarsi dentro l’auto e alzare le sicure delle portiere. A turno i danzatori escono e rientrano nell’auto, coperti dal fumo della marmitta, spuntando improvvisamente dentro e fuori come un gruppetto di Jack in the Box impazziti. Ognuno cerca di far partire l’auto, a rischio di investire chi è rimasto fuori in strada, ma la macchina si scuote solamente, spalancando i vecchi fanali gialli come occhi stanchi.
La fatiscente cabina telefonica diventa un punto di osservazione, un bunker in ferro e cemento in cui rifugiarsi, una gabbia, un partner per una lenta danza circospetta.
Raro e curioso il soggetto del thriller on the road trasposto in danza, che presenta una sorta di innocui Easy Riders, vittime forse solo delle proprie angosce, che però si materializzano in una presenza molesta con la stessa rapidità e perversità degli incubi. Il tutto, in bilico tra il realismo scenografico e interpretativo, e un forte grado di surrealtà nell’angoscia dei presentimenti, nelle situazioni di allarme e fuga, nel bellissimo assolo dell’ “uomo nero” nella claustrofobia della cabina telefonica. Le atmosfere sono incalzanti, accelerazioni e pause si alternano fluidamente, spinte con il pedale giusto. L’audio inglese, presente soprattutto nei commenti della radio, non è sottotitolato, ma ciò non toglie smalto alla struttura.
Avvincenti i momenti di danza che prendono avvio dal contact – sia con le superfici esterne che con il partner –, in cui il peso viene ri-strutturato in favore di una singolare fluidità coreografica. Efficace il modo con cui i danzatori gestiscono la propria massa corporea, che diventa incredibilmente disinvolta ed elastica creando, in questa dimensione di vuoto notturno, una sovradimensione quasi lunare senza necessariamente ricadere nel rallentamento del moto.
Unica piccola incrinatura: all’inizio la danza fatica lievemente ad agganciarsi al racconto, e sembra invece prendere avvio come accessorio a un’immagine già compiuta in sé, ma questo piccolo neo si dissolve presto nella sensibilità dell’ossatura narrativa. Roadkill diventa infatti uno di quei (rari) casi in cui il rapporto tra coreografia e narrazione è stimolante e funzionale, e, nonostante all’inizio si debbano un po’ scaldare i motori per dare alla danza il suo ruolo-guida, la coreografia non inciampa in retoriche gestuali e riesce a narrare in prima persona i fatti, anziché commentarli.
Visto al Teatro Toniolo, Mestre
Agnese Cesari