Recensione a Picablo – di Tam Teatromusica
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Personalità sfaccettata e multiforme, Pablo Picasso ha riversato sulle proprie tele un’interiorità in grado di riflettere il mondo che lo circondava. Ripercorrere i suoi lavori significa attraversare alcune delle tappe che hanno segnato la storia dell’arte, di cui il pittore spagnolo è divenuto una pietra miliare di inevitabile confronto. La sua sensibilità e la sua genuinità sono state toccate dalle penne dei più celebri critici, che ne hanno indagato l’opera, dissezionandola esattamente come le forme cubiste di cui Picasso è stato maestro. A questa sua grandezza ha guardato Michele Sambin nell’ideazione di Picablo, spettacolo dedicato a Pablo Picasso che si configura come ulteriore tappa di un percorso che ha portato Tam Teatromusica a guardare a grandi nomi della storia dell’arte (basti ricordare Anima blu dedicato a Marc Chagall – in programmazione al Teatro delle Maddalene dal 20 al 22 gennaio – o Sogno di Andrej ispirato all’opera del monaco pittore Andrej Rubliov, protagonista di una celebre pellicola del 1966 di Andrej Tarkovskij). Pertinentemente con la ricerca condotta da Picasso – di cui è celebre l’affermazione per cui «a quattro anni dipingevo come Raffaello, mi ci è voluta una vita intera per imparare a disegnare come un bambino» – Tam Teatromusica ha elaborato una struttura drammaturgica in grado di parlare anche a un pubblico infantile e di trasmettere l’originalità di uno sguardo di cui il pittore andaluso ha intriso le sue tele, le sue sculture e le sue incisioni.
Le scene – elaborate da Michele Sambin stesso – proiettano lo spettatore nell’atelier dell’artista, abitato da tele bianche. Una mente spoglia, destinata a riempirsi nel corso dello spettacolo grazie ai sistemi interattivi curati da Alessandro Martinello, che è performer sul palco con Flavia Bussolotto. Grazie ai video di Raffaella Rivi lo spazio prende vita e gli oggetti si animano di una vitalità dirompente, che va a confondere i limiti dei linguaggi in un gioco di straordinario stupore: quadri che ospitano video e videoproiezioni che accolgono immagini di tele ormai celebri divengono il centro di una scena che ben restituisce quel principio di scomposizione della forma che ha caratterizzato parte della ricerca del cubista spagnolo. Attraverso scelte registiche semplici, Tam Teatromusica si appropria dell’esperienza pittorico-artistica di Picasso e ci invita a gettare uno sguardo ai diversi periodi in cui è scomponibile la sua opera. Non a caso infatti i costumi di Claudia Fabris e l’interpretazione dei performer rimandano all’immaginario del circo, vicino a quello picassiano (di cui sono celebri gli arlecchini del periodo rosa) e funzionale alla definizione di un registro linguistico che possa far scaturire un senso di magia in grado di avvicinare alla rappresentazione un pubblico indistintamente di grandi e piccini: un montaggio di attrazioni (di ejzenstejniana memoria) incalzante – dettato dalle musiche composte ed eseguite da Michele Sambin e curate da Kole Laca, Luca Scapellato e Davide Sambin – si affianca a un intreccio di dimensioni che portano le ombre a stagliarsi sulle immagini di Picasso e i performer a interagire con oggetti immateriali videoproiettati. La realtà – nella sua carnalità e nel suo essere ancorata al presente – assume in Picablo un senso solo in relazione al mondo digitale di cui ormai siamo dipendenti, creando prospettive distorte e inglobanti di cui però Tam Teatromusica riesce a svelare un lato magico: il pittore di Picablo si serve infatti non di pennello e matita, bensì di una tavoletta grafica per disegnare e dipingere figurazioni di luce, che vanno a scoprire un archivio di immagini stratificato, come lo sono le opere di Picasso nella cultura e nell’arte contemporanea.
Grazie a una struttura drammaturgica lineare – forse eccessivamente paratattica e ripetitiva in alcuni momenti – e dispositivi tecnologici semplici, Tam Teatromusica solleva nuovamente questioni legate alla percezione del mondo e del corpo nei tempi dei mass media digitali, la cui forzatura può però liberare una gestualità che torna ad essere espressione dell’individuo, in un’esplosione di forme e colori, di cui le mani dell’artista ormai non si sporcano più.
Visto al Teatro delle Maddalene, Padova
Giulia Tirelli