Recensione a Teatro Anatomico – di Linda Dalisi / Federico Bellini; regia Agnese Cornelio / Linda Dalisi / Paula Diogo / Pierpaolo Sepe / MK / Tommaso Tuzzoli; con Valentina Vacca / Daniele Fior / Caterina Carpio / Massimiliano Loizzi / Giovanni Franzoni / Candida Nieri
Parlare di “fondamentalismo”, al giorno d’oggi, è a dir poco rischioso. Intitolarvi una stagione teatrale – come ha fatto Antonio Latella al suo primo anno di direzione del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli – sembra quasi un azzardo. Ma forse, al di là di qualsiasi provocazione, si potrebbe dire che è proprio di fondamentalismo che si occupano oggi i teatranti, stretti come sono nel curarsi di un’essenzialità sempre più ridotta all’osso, fra spazi (fisici e non solo) che si restringono e finanziamenti in calo, reti prossime all’evaporazione e istituzioni che ogni giorno devono fare uno, dieci, cento passi indietro.
Scrostato di tutti i suoi aggiornamenti mediatici più o meno recenti, il termine non conserva solo le tristemente celebri accezioni negative: “fondamentalismo”, infatti, rimanda anche al sostanziale, ovvero alle basi su cui si poggiano le teorie, nonché ai modi di metterle in atto, di viverle e di diffonderle; nel caso teatrale, diversi maestri del Novecento hanno parlato di attore, testo, spettatore come fondamenti della ricerca (al limite aggiungendovi un tappeto – lo spazio in cui questo incontro avviene) e proprio questi sono gli elementi al centro del lavoro che si sta sviluppando al Nuovo. Latella, uno dei maggiori artisti della scena internazionale, dopo diversi anni di lavoro all’estero, è tornato alla sua regione d’origine con un’idea del tutto anomala per il panorama teatrale nostrano, d’avanguardia o di tradizione che sia: ovvero il progetto di fare del Nuovo una Casa del Teatro come ne esistono in Francia o in Germania, con drammaturghi e registi in residenza impegnati (insieme o in progetti individuali) con una compagnia stabile di attori. Poche, rarissime date in ospitalità lasciano spazio a produzioni che replicano più volte l’anno nel Teatro stesso, che diventa appunto casa, ma anche laboratorio (non solo performativo o di scrittura, ma anche scenografico, sartoriale ecc.), per quattordici giovani artisti, più tutte le professionalità a latere che li accompagnano nel percorso. In un momento storico e socio-culturale in cui la maggior parte degli enti sono impegnati a sperimentare le più acrobatiche strategie di sopravvivenza, ogni giorno in un gioco sempre più al ribasso (e spesso al ricatto), il Nuovo di Latella rilancia oltre quel macchinoso dispositivo della tournée che, pur avendo fatto conoscere il teatro italiano oltreconfine, ha forse la responsabilità (non da solo, certo) di aver sfiancato produttori, artisti e – perché no – anche gli spettatori.
Teatro Anatomico è il secondo sviluppo del progetto artistico-organizzativo biennale che vede impegnati i giovani artisti del Nuovo: dopo il debutto al Napoli Teatro Festival 2010 con Auguri e figli maschi! diretto dallo stesso Latella , ora ognuno dei sei attori è alle prese con un monologo scritto da uno dei due drammaturghi e diretto da uno dei sei registi in residenza. Il titolo del progetto segna non solo lo spazio in cui i sei monologhi sono mostrati – un corridoio centrale stretto su entrambi i lati da due gradinate per il pubblico – ma anche e soprattutto un modo di guardare l’attore, che (dice la presentazione) è «vivisezionato» dalla prospettiva dello spettatore e che (sarebbe da aggiungere) è allo stesso tempo guida di tale visione. Essere guardati e guardare e guardarsi –in questa molteplicità di riflessioni e rimandi si può rinvenire un nucleo fondativo a partire da cui si sviluppano i diversissimi sei monologhi presentati all’interno del progetto.
La centralità del lavoro attoriale promossa dal progetto del Nuovo non si trova solo nella scelta di impegnare ogni interprete nella solitudine del monologo o nel costringerlo in uno spazio così minimo, ma emerge soprattutto in quella duplicità dello sguardo a cui si accennava poco sopra. Innanzitutto, lo spazio, come si è detto, è davvero ridotto e la prima gradinata si colloca praticamente a ridosso della scena, larga poco più di qualche metro: attore e spettatore si guardano in faccia spesso, continuamente. Poi, il rettangolo dedicato all’azione è circondato sui due lati dagli spazi riservati al pubblico: lo spettatore non osserva solo l’attore ma altri possibili se stessi, di fronte. Si può dire che, da un lato all’altro della teatralità, attore e spettatore siano soprattutto chiamati ad osservare l’atto stesso del guardare, come nella tradizione del teatro anatomico. Ogni battuta, in tale contesto, assume immediatamente una valenza meta-teatrale, all’interno di sforamenti drammaturgici che hanno per oggetto la natura stessa del teatro (dell’agire, dell’osservare, dell’essere guardati, del rielaborare).
Collocandosi pericolosamente – e in gran parte dei casi efficacemente – sulla soglia sempre mobile fra realtà e finzione, vietando allo stesso tempo una serena immedesimazione così come percorsi legati allo straniamento, il lavoro fa esplodere la doppia negatività schechneriana: se la persona che si trova in scena non è davvero il personaggio rappresentato e nemmeno interamente un’attrice, i contenuti e le forme che propone restano sospesi in un’ambiguità in certi momenti di grande potenza. Lo dichiara una performer stessa nel primo monologo: «forse tutto questo non è vero / forse tutto questo è vero». In quegli spazi vuoti fra i vari frammenti di identità (dell’attore, del personaggio) si può situare l’interrogazione del pubblico sulla realtà (o meno) dei propositi scenici. E ancora in quegli interstizi uno spettacolo, che per sua natura resterebbe relegato all’ambito della finzione (e dunque di un cambiamento solo momentaneo per attore e spettatore), rischia di approssimarsi alla realtà, così come ad una chiamata in causa effettiva della coscienza e a una trasformazione non soltanto temporanea delle persone che ne condividono la messinscena.
Non è possibile stabilire se tale condizione – spesso implicita, altre volte solo accennata e infine anche dichiarata con forza – sia determinata dalle sole strategie testuali o da precise scelte interpretative, o dalla vicinanza obbligata che lo spazio scenico impone.
Tutti riuniti in uno spazio simile ma mai lo stesso, sono corpi (i loro? i nostri? – la prima persona è quasi d’obbligo) senza tempo e senza storia, forse proprio per questo pronti ad accogliere in sé tutte le storie del mondo: nella vicenda di Simone Weil (La fame, scritto da Linda Dalisi, diretto da Agnese Cornelio e interpretato da Valentina Vacca) collassano Antigone e Cassandra, una fiaba e le tragedie europee di inizio Novecento; così come il Prometeo di Federico Bellini, che vede Pierpaolo Sepe alla regia e in scena Massimiliano Loizzi, trascina nel buco nero della fine della storia Babbo Natale e la tragedia classica, dada e pop. Nella vertigine esclusiva di un personaggio rimbalzano i prologhi dei fascismi europei e le questioni centrali della società civile, le macerie dei grandi movimenti culturali del Novecento e le loro rivisitazioni contemporanee, le possibili genealogie della propaganda e le conseguenze del (presunto) progresso.
In questa esplorazione policentrica di tante battaglie perse – sarà per il focus su un unico protagonista, sarà per l’univocità dell’interpretazione – la Storia filtra attraverso le piccole vicende dell’individuo e i suoi grandi eventi raggiungono la scena soltanto di riflesso, deviati in filigrana dalla prospettiva specifica di ognuno dei personaggi presentati. Forse proprio per questo zoom micro-storico l’affastellarsi dei fallimenti riesce a raggiungere la contemporaneità, in un continuo cortocircuito fra memoria e veggenza, finzione e realtà.
Scrive la protagonista di Rosa Lux (Caterina Carpio, diretta da Paula Diogo): «Oggi abbiamo alla testa del governo socialista degli uomini che non solo sono dei giuda del movimento socialista ma anche dei pezzi da galera che non dovrebbero essere ammessi in una compagnia di galantuomini». È un frammento dal discorso che la Luxemburg pronunciò in occasione della fondazione del Partito Comunista tedesco, nel 1919. Ne è passato di tempo, e le parole scagliate su un tavolo lunghissimo sono poi confuse dal passare di mani e di segni, ma mai come adesso considerazioni del genere, accompagnate dalla rabbia con cui l’attrice le imprime in scena, sono sembrate così calzanti nella loro lucida attualità.
Se è necessario lasciar trasudare una linea (etica, estetica) che attraversa e innesca i sei monologhi del Teatro Anatomico, occorre allo stesso tempo permettere alla loro varietà travolgente di emergere, seppur per frammenti. C’è l’assolo di teatro-danza che usa il pavimento come una parete (Giuda, di MK, con Giovanni Franzoni), chi è impegnato in un intricato elogio al proprio naso da pagliaccio (Misfit like a clown, scritto e diretto da Linda Dalisi, con Daniele Fior) e chi, intrappolato in una strettissima gabbia opaca, cuce camicie per i suoi fratelli (La fame); c’è una donna che recita a pelo d’acqua, materializzando la propria voce nelle onde che si propagano dal suo volto (Il Velo, scritto da Federico Bellini, diretto da Tommaso Tuzzoli, interpretato da Candida Nieri) e un’altra che la concretizza nei segni che incide su una lunghissima tavola (Rosa Lux), mentre un Babbo Natale (o quel che ne resta) discute con il suo cane immaginario (Prometeo). C’è il post-pop che oggi la fa da padrone in tante gallerie d’arte e le avanguardie della ricerca sulla phoné, il minimalismo più integralista e momenti di raro lirismo; poesia e politica, e poi prosa, mimo, danza, canzoni. All’interno di questi monologhi, tutti irriducibilmente forti di una propria specificità, si potrebbe muoversi per differenze, custodendo ogni pezzo racchiuso nella propria autonomia e dedicando una riflessione articolata ad ognuno; si preferisce invece tracciare un itinerario fra le corrispondenze, lasciando emergere le suddette varietà a margine e assumendosi il rischio di una cronaca forse un po’ debordante ma che tenta di rendere giustizia a quell’atto di resistenza che è una maratona teatrale – questa la formula ultima con cui è presentato il progetto. Lontani anni luce dal paradigma decostruttivo che (non da solo) ha fatto a pezzi la cultura contemporanea, si tenta di intercettare l’organicità di un progetto il cui “fondamentalismo” si ritrova anche nel format eletto per portare in scena il lavoro e nella volontà di sostenere non uno ma quattordici giovani artisti, in diciotto diversi spettacoli, rispettando l’individualità ma anche scavalcandola nella scelta di non spezzare la progettualità in percorsi singoli.
In questo breve attraversamento di Teatro Anatomico – e, con esso, di parte del lavoro che caratterizza il nuovo corso di questo teatro napoletano – si sono incontrati tutti quegli elementi che dovrebbero (potrebbero) fare di un teatro un centro di elaborazione di vita culturale e civile, uno sviluppo di quel teatro come pubblico servizio (e non servizio pubblico, come spesso è diventato nella struttura e nella programmazione di tanti Stabili nostrani): nuova drammaturgia e ricerca attoriale, sostegno a giovani artisti, relazione con il pubblico, attualità e tradizione. Aperta a mezzogiorno di domenica per la Maratona, con un mezzo pienone destinato a completarsi nel corso del pomeriggio, la sala del Teatro Nuovo parla da sola.
Visto al Nuovo Teatro Nuovo, Napoli
Roberta Ferraresi