Recensione a Trattato dei manichini — Compagnia TeatroPersona
Davanti a un quadro la prima tentazione sarebbe quella di fermarsi e descriverlo: nelle luci, le forme, l’accuratezza del tratto e i colori. Strappare un po’ di poesia all’immagine e dargli forma nelle parole, significherebbe raccontare la propria poesia e proiettare in essa il proprio immaginario. Questo è esattamente il meccanismo che vuole stimolare Alessandro Serra, regista del Trattato dei manichini, con uno spettacolo che non è solamente pura visione, ma anzi è un continuo vuoto teso al coinvolgimento emotivo e immaginativo del pubblico. Un’ora di spettacolo, un rincorrersi di immagini senza alcuna parola; solo musica, suono e silenzio. Un immaginario onirico, un baratro aperto, una visione dell’infanzia profondamente inquietante. Una rilettura per immagini e atmosfere del racconto il Trattato dei Manichini tratto da Le Botteghe color cannella di Bruno Schulz: la visione di un’infanzia immersa in un sogno-incubo trasformato dagli occhi di un bambino ormai adulto. Un silenzio assordante percorre la scena attraversata da alte figure vestite di abiti dei primi del Novecento; un realismo che dona quell’alone bianco e nero del ricordo. Un susseguirsi di quadri scenici, costruiti con rigore – lo stesso che permette al regista di mettere in scena un attore di schiena per un tempo lunghissimo senza far cadere il ritmo. Una non-storia tracciata ad olio, solo accennata da simboli di riferimento chiari: il gioco, la paura, la madre. Bastano pochi appigli per costruire mille e una infanzie in cui perdersi. Unico punto di riferimento, perno intorno al quale ruota l’immaginazione dello spettatore, è una bambina, la piccola Silvia Malandra, che vive e ri-vive ogni sera in scena una storia-infanzia diversa. Ad accompagnarla tre straordinarie performer: Valentina Salerno, Chiara Cascinai, Alessandra Cristiani. Sono loro a creare e sconvolgere un impianto scenico profondamente codificato, sia nella partitura drammaturgica che nella scelte cromatiche. Il rosso, il nero, il bianco: tre colori che per la loro forza espressiva non rappresentano, ma sono vita morte e passione.
La stessa attenzione, la stessa cura è impressa nel lavoro sull’attore. Incredibile la presenza scenica, la potenza sprigionata dalle attrici – tutte di formazioni molto varie, dal Butoh alla Biomeccanica. Non a caso tra i riferimenti fondamentali della compagnia spiccano Mejerchol’d, Grotowski e il lavoro sul mimo con Yves Le Breton, allievo di Decroux. A partire da questi ideali Alessandro Serra costruisce una sua visione dell’attore come “attore-talismano” che egli stesso definisce come «l’attore che è semplicemente ciò che esprime e non rap-presenta». Una concezione secondo cui la recitazione si trasforma in emanazione, affidata alla presenza scenica costruita sulla tecnica e sul montaggio dell’azione. «L’uomo muove e se ne va, come il regista, è in sua assenza che si crea il movimento»: facendo riferimento alla tecnica dello stop-motion Serra racconta il suo lavoro di regista, un processo per accumulo, che dura spesso molto tempo.
La compagnia TeatroPersona lavora a Civitavecchia, dove ha una sala grazie alla quale può spendere la maggior parte del tempo nella ricerca teatrale, senza dover stare al passo con i tempi produttivi folli delle residenze e dei festival, ma dando all’arte il giusto tempo per maturare. Una compagnia giovane e insolita che vediamo poco girare nelle sale italiane, ma che – in qualche modo – dà un respiro diverso a quello che oggi chiamiamo “teatro di ricerca”.
Visto a Teatro Astra, Schio
Camilla Toso