Teatro Fondamenta Nuove, Venezia. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo Tempesta di Anagoor
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Teatro Fondamenta Nuove, Venezia. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo Tempesta di Anagoor
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Recensione a Tempesta – Anagoor
Tempesta di Anagoor, segnalazione speciale al Premio Scenario 2009, è uno spettacolo complesso, che intende fare i conti con tante mitologie occidentali – dall’Ebraismo alla Grecia classica al Rinascimento, dalla Genesi all’Apocalisse fino alla prospettiva e alla proporzione aurea – senza però sottrarsi ai cortocircuiti del contemporaneo, in linea con quella che si è riconosciuta essere l’etica e l’estetica della compagnia di Castelfranco Veneto. Il contesto, annuncia la presentazione dello spettacolo, è quello «della nostalgia di un’età della terra e della polvere e il tentativo di conciliarla con la modernità», nell’obiettivo di rendere conto della frattura che si è realizzata fra queste due epoche, con i loro differenti modi di vivere e di rappresentare. Elemento decisamente interessante – e presente visibilmente a livello tematico e non tecnico, in senso iconografico in tutto il percorso di Anagoor, segnala il foglio di sala – senza affondi metodologici particolari.
Una scena divisa a metà annuncia già le non-corrispondenze di simmetria fra antichità, moderno e contemporaneo. Da un lato, due monitor lcd sospesi in verticale, utilizzati per evidenziare passaggi scenici altrimenti evanescenti o condurre l’attenzione su dettagli (soprattutto mimici, corporei, gestuali), ma anche per raccontare – il termine, certo, non è appropriato in questo caso – di divagazioni non riprodotte in scena (la preparazione del performer, ad esempio). L’altra metà del palcoscenico è occupata da una grande scatola opaca, da cui, in base alla modulazione luminosa, si possono vedere o meno le azioni del performer che la abita, nell’ambito di una complessa varietà della visione che conduce lo spettatore attraverso diverse possibilità percettive. La zona monitor è lo spazio di un giovane uomo, quella della scatola di una giovane donna: i performer sono fratelli, la cui somiglianza e differenza sono dichiarate essere – sempre, irresistibilmente, nel programma di sala – il cuore stesso del lavoro, che si sviluppa, con evidenza, lungo dicotomie a volte pregnanti, altre didascaliche: quella, già accennata, della visione (e ben riuscita, nell’esplorazione della vastità della gamma percettiva), ma anche maschile/femminile, interno/esterno e così via.
Si vedono dal vivo o registrate – ma la differenza non è così sostanziale, in questa impostazione scenica – immagini che evocano personaggi e situazioni da dipinti di Giorgione (non a caso alla vigilia del cinquecentenario dalla morte, nel 2010), dalla Tempesta alla Venere dormiente, antenata di tante Maya moderne; i corpi dei performer variamente abbigliati in un discreto mix di classicità immaginata e modelli di contemporaneità; contesti naturali miniaturizzati, anche temporaleschi, con presagi acquei mortiferi all’insegna di Bill Viola. Immagini al centro di operazioni di sintesi, di modellizzazione, di rimodellamento fino a sfiorare, in certi casi, un livello preoccupante di innocenza.
E qui un altro nodo, avvertito con forza alla base di questo spettacolo, capace, in certi momenti di nuocere ad alcuni passaggi performativi, ma anche emotivi, sensoriali, interpretativi: una sorta di dimensione analogica (di contro al digitale, in questo senso) che sembra governare l’opera. Una prospettiva sequenziale chiusa in se stessa, come nell’elenco di immagini sopra descritto, in una carrellata raffinata di riferimenti estetici (perché no etici, forse biografici) e dunque forse prossima alla nostalgia di certo postmodernismo, fra la citazione, invocazioni auratiche, sinestesia performativa: la piega di tanta pittura rinascimentale, gestualità e pose giorgionesche in tableaux (nemmeno troppo vivants), sguardi opacizzati della prima Raffaello Sanzio, atmosfere inquietanti di Bill Viola. Naturalmente, probabilmente: molto altro ancora. Basta, ancora una volta, sbirciare le righe copiose del foglio di sala per immaginare o almeno annusare l’ampiezza e la profondità dei riferimenti sottesi a questo lavoro. Ma la struttura è, appunto, analogica: un susseguirsi di tagli netti che godono di innesti fragili l’uno sull’altro – quando si trovano. Anche per questa ragione la testimonianza può ridursi a elencazione, a passione tassonomica e classificatoria – nemmeno a descrizione – rispetto a una wunderkammer personalissima e confusa, varia e caotica, ripetitiva pur con la sensazione di poter scovare meraviglie dietro il prossimo angolo (o cambio luci).
Non è solo una questione di relazione fra opera e spettatore: lo stesso discorso, del piano analogico che intercetta (e a volte rischia di inghiottire) la potente stratificazione di pensiero e immagini proposta da Anagoor, si può fare sul piano dei rimandi interni allo spettacolo. La formazione del performer, ad esempio, è mostrata con scarpette da danza e libri, la presenza della natura con alberi e acque, in un dispositivo che può semplificare la vivacità e la profondità interpretative ed estetiche della compagnia. Il problema, se ci si può permettere l’azzardo di un’ipotesi, sta proprio nel principio del dispositivo, di deleuziana memoria, che qualche tempo fa era tornato di moda: esso contiene uno stimolo, irresistibile, a realizzare una certa azione, e l’uomo non può sottrarvisi. Il rischio è nell’automatismo, nell’omogeneità, nella prevedibilità e in un percorso di ripetizione un po’ anni Sessanta: la stratificazione, si potrebbe dire grandiosa, in senso verticale ed orizzontale, che sta all’origine del lavoro in termini di pensiero, di estetica, di performance, è spesso inafferrabile e, purtroppo, emerge solo a tratti nella resa scenica. Anche nel caso della relazione fra i performer, fra cui non c’è nemmeno una parola: l’affondo nella relazione, (la messa in crisi delle sue strutture, dei suoi stilemi, delle sue convenzioni), l’incomunicabilità senza riscatto, l’impossibilità sia di dialogo che di intreccio sostanziale sono tutte idee che si trovano più nella complicità col foglio di sala che nella presenza sul palcoscenico.
Visto al Teatro Aurora, Marghera
Roberta Ferraresi