Recensione a La trilogia degli occhiali – regia di Emma Dante
Strumento necessario per far vedere all’uomo ciò che lo circonda in maniera chiara e uniformata con il resto della società, gli occhiali si indossano per non essere esclusi da un mondo che deve essere esatto e, soprattutto, lo stesso per tutti. Ma delle volte questi due piccoli “specchi” portati sul naso cambiano la realtà trasformandola in qualcosa di altro, in un posto fantastico ed esclusivo, fatto di magia o di memoria. E ne La trilogia degli occhiali il mondo dei singolari personaggi creati da Emma Dante rimane una questione privata, una versione intima di una condizione esistenziale che gira intorno alla marginalità. Dopo la sanguigna “trilogia della famiglia siciliana” (composta da mPalermu, Carnezzeria e Vita mia) che l’ha resa una delle registe più importanti in Italia, la drammaturga siciliana sceglie di tornare a una triade e di dedicare il suo nuovo lavoro – prodotto dalla sua stessa compagnia siciliana Sud Costa Occidentale, dal Teatro Stabile di Napoli e dal Crt di Milano, in collaborazione con il francese Théâtre du Rond-Point – alle due lenti indossate da tutti gli attori in scena. Tre capitoli/spettacoli autonomi, ma allo stesso tempo legati tra loro, costituiscono una trilogia che diventa un momento di evasione dalla realtà e una ricostruzione tenera e personale della propria esistenza. Il mezzo-mozzo o’Spicchiato, il palermitano Nicola e due anziani ballerini, – protagonisti rispettivamente di Acquasanta, Il castello della Zisa e Ballarini – vivono in un mondo che è privato, sorridono e si eccitano al ricordo di un amore che ha reso speciale le loro esistenze. Poco importa se agli occhi degli altri questa vita sembra marginale; il loro innamoramento, o meglio, il ricordo di esso, abita sì nell’angolo di un passato, ma riempie di senso la solitudine del loro presente. Guardando attraverso gli occhiali, i personaggi della Dante si rifugiano nella loro versione di verità che li fa sopravvivere all’abbandono, alla malattia e alla vecchiaia, rimanendo fermi nel loro sentimento – come recita la vecchia canzone napoletana cantata dal protagonista del primo capitolo – indifferentemente rispetto alle reazioni altrui.
Aspetta il ritorno della nave o’Spicchiato, il marinaio di Acquasanta che in dialetto napoletano rivive sulla prua immaginaria la sua vita passata in navigazione; abbandonato in terraferma e confinato in un tempo mentale, scandito da ticchettii di sveglie sospese sopra la sua testa, il protagonista urla il suo amore per quel mare infinito da cui è stato allontanato e con cui aveva «un rapporto privilegiato». Nei panni del mozzo un eccezionale Carmine Maringola che utilizza ogni muscolo del suo corpo per dar vita a un teatrino immaginario dove, legato a dei cavi-ancora che muove con estrema maestria, si trasforma inmarionette – il capitano della nave e la ciurma – che rievocano la sua storia. Le corde a vista e i movimenti meccanici del corpo di Maringola allontanano la sensazione che ci sia un uomo sul palco: sembra di vedere dei personaggi di legno che a turno prendono parte allo spettacolino entusiasmante di o’Spicchiato, circondandolo di un alone di purezza e semplicità disarmante.
E questo alone ritorna anche ne Il castello della Zisa, secondo capitolo della trilogia in cui Nicola – interpretato da Onofrio Zummo – vive confinato dentro una bolla fantastica, guardiano di due principesse minacciate da draghi in cima a una torre. Tra croci sospese, bamboline e giocattolini, Nicola è un protagonista dapprima assente, seduto su una sedia e accudito da due suore – le bravissime Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, che si muovono con una precisione leggera e puntuale – per sprigionare poi tutta la sua energica vitalità. Piccolo gioiello completo e ben articolato, Il castello della Zisa attraversa diversi stati d’animo in cui gli attori si superano tra loro nel trasmettere eccitazione, ironia, gioia o stupore per raggiungere una delicatezza che sfiora momenti di infinita tenerezza. Il tema della malattia qui affrontato dalla Dante è affidato a uno Zummo che, con un’espressività facciale e corporea appartenente a bambini con problemi psichici e con l’ausilio del dialetto siciliano, mostra il suo mondo meraviglioso in cui si immerge e ritrova la vita, anche se solo per pochi istanti; o meglio, è il pubblico ad entrare nella realtà di Nicola, rinchiusa e rimasta a uno stadio infantile.
L’uso del corpo, nella maniera impeccabile con cui gli attori diretti dalla Dante si esprimono, prevale sulla parola in tutta la trilogia per raggiungere quasi la completa assenza verbale nella terza parte: Ballarini. Gli attori Sabino Civilleri ed Elena Borgogni, con indosso delle maschere invecchiate, rivivono nel ricordo di lei la loro storia d’amore a ritroso, riavvolgendo il nastro di una memoria scandita da una colonna sonora che ben distingue le varie decadi novecentesche; si passa così dalla crisi di coppia al primo figlio, dalla gravidanza al matrimonio, per arrivare alla dichiarazione d’amore, l’unica non completamente affidata al corpo ma anche alla voce, per poi tornare cronologicamente al tempo presente, dove la donna, ritornata anziana, chiude il baule epifanico che ha scatenato questo tuffo nel passato. La poeticità della tematica trova però un ostacolo nel suo sviluppo, per il suo dilatato reiterarsi di movimenti che diventano eccessivi; mentre risultano pacati e compunti ne Il castello della Zisa, in Ballarini perdono di quell’eleganza e sottigliezza che distingue il lavoro della Dante.
La vecchietta, interpretata appunto dalla Borgogni, che appare come una sorta di fatina durante gli intervalli tra un capitolo e l’altro, spostando oggetti o ballando teneramente abbracciata a suo marito nel foyer del teatro, restituisce alla fine della trilogia quella magia che in alcuni tratti si perde: è lei a spegnere le piccole luci sospese sul palco, un palcoscenico che diventa un angolo di mondo ai margini della realtà.
Visto al Teatro San Ferdinando, Napoli
Carlotta Tringali