Recensione a Vita di Galileo – regia di Antonio Calenda, con Franco Branciaroli.
Il nuovo allestimento di Vita di Galileo, che porta la firma registica di Antonio Calenda, accoglie il pubblico con la scenografia scarna, minimale, eppure perfettamente riuscita, ideata da Pier Paolo Bisleri. L’interno dello studio di Galilei, su cui si apre il sipario, è reso tramite l’utilizzo di semplici mobili in legno massiccio e pochi oggetti di scena, molti dei quali raffiguranti celebri invenzioni del matematico pisano. Niente è gratuito, ogni elemento, strettamente necessario all’economia dello spettacolo, acquista rilievo e significato dal suo stagliarsi contro un fondale dipinto a cielo stellato, nel mezzo del quale si apre un mastodontico portale. Questa surreale parete, che sovrasta la scena, funge da costante eco visiva dei pensieri di Galilei, chiuso in una stanza e al contempo immerso in quell’infinito a cui mai smetterà di guardare.
I costumi, che ben ricalcano il gusto dell’epoca nei dettagli, nei colori e nelle distinzioni a seconda dell’appartenenza sociale dei personaggi, seguono un criterio di sobrietà che permette allo spettatore di concentrarsi sulla parola.
In questo testo di Bertolt Brecht così forte, così poliedrico, così attuale, ogni frase acquista infatti un’importanza fondamentale, aprendo la strada a diverse riflessioni.
La scienza galileiana, intenta a scontrarsi, per affermare se stessa, con una moltitudine di antagonisti, si fa qui paradigma di ogni rivoluzione. Così, se, sotto l’egida della Serenissima, la ricerca è costretta a lottare contro la logica del profitto – secondo cui sovvenzionabile è solo ciò che può arrecare immediato guadagno -, a Firenze e a Roma il nemico principe della scienza diverrà la religione, con cui Galilei tenterà inutilmente di dialogare, mosso dalla sua incrollabile fede nell’empirismo e nella ricerca della verità “figlia del tempo, non dell’autorità”. Molti degli argomenti usati da Galilei a sostegno della sua visione del mondo, se da un lato possono essere visti come una dura condanna alla società contemporanea, dall’altro offrono la possibilità di un diverso spunto di lettura. Nella sua eterna fiducia nella ragione, la cui vittoria “non può che essere la vittoria di coloro che ragionano”, sta infatti il seme della responsabilità personale. A cosa può servirel’evoluzione del mondo, se prima non evolve il singolo? La ricerca della verità dovrebbe essere appannaggio di tutti, non di quei pochi che impongono la propria. Così come è dovere individuale perseguirla, senza aspettarsi siano altri a trovarla per noi: “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.
Grazie al quasi “invisibile” impianto registico, studiato per dare del testo una resa quanto più puntuale e diretta possibile, tutto arriva agli spettatori con intensità e precisione. E la mirabile prova d’attore di Franco Branciaroli che, coadiuvato da attori del calibro di Giorgio Lanza nel ruolo di Sagredo, gioca con l’ironia, la caparbietà e le debolezze dell’uomo Galileo, fa sì che niente si perda dell’opera più sfaccettata e presaga che Brecht abbia scritto.
Negli anni in cui diede alle stampe la seconda versione di questo lavoro, Brecht mirava non meno a lanciare un monito agli scienziati del suo tempo, indaffarati in ricerche il cui esito aveva portato all’invenzione della bomba nucleare. Mai quanto oggi, in cui le ricerche in campo genetico e biotecnologico spaventano al pensiero del futuro, le parole che il drammaturgo tedesco fa pronunciare allo scienziato mentre si rivolge ai suoi successori, suonano sferzanti: “E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità”.
Di fronte allo sguardo attento del pubblico, gli anni scorrono veloci sulle vicende di Galileo; i cambi scena, di per sé minimi, avvengono a sipario aperto, reinterpretando il teatro delle ombre con nere silhouettes che si muovono contro un fondale retroilluminato; i pochi elementi scenografici creano nuove ambientazioni, mutando semplicemente posizione. Nulla si crea, né si distrugge, riportandoci all’idea di quella ciclicità che rintraccia nell’epoca galileiana i medesimi dilemmi che affliggevano tanto il tempo in cui Brecht scriveva, quanto il nostro.
Fra tutte, una domanda si leva allora al di sopra delle altre: se incontestabile è dell’uomo la capacità di progredire, altrettanto lo è quella di imparare dai propri errori?
Visto al Teatro Verdi, Padova
Sara Furlan