Debutta a Primavera dei Teatri Frateme, scritto e diretto da Benedetto Sicca, una pièce in dialetto napoletano che affronta alcune delle tematiche ormai all’ordine del giorno – omosessualità e violenza familiare – ambientandole in uno dei quartieri più difficili di Napoli. La trama è semplice quanto originale: una madre, un padre e i loro tre figli – Primo il maggiore e i due gemelli Secondo e Seconda – tutti e tre omosessuali. In scena le vicende di vita quotidiana, discorsi, cene e parole. Li vediamo incontrarsi, innamorarsi quotidianamente, con tutte le problematiche del vivere in una città dove «è meglio che nessuno sappia». Fin dalle prime battute si comprende come sotto la spigliata facciata della famiglia si nascondano inquietanti realtà e rancori.
Napoli si srotola sullo sfondo di questa vicenda familiare, una città in piena crisi dei rifiuti, un’emergenza che va e viene ma che non passa mai veramente. Come la malinconia da cui sono affetti tutti i personaggi; un malessere interiore diffuso, un disagio del quale non si comprende bene il motivo, almeno non subito, non all’instante, solo in seguito quando ormai è troppo tardi, quando il malessere è già malattia.
Un insieme di attori prezioso, capaci d’ascolto e affiatamento rari, carichi di energia in scena, che ha saputo sostenere ben due ore di spettacolo con un ritmo serrato senza far mai cadere l’attenzione dello spettatore. Sul palco letteralmente soli, nessun suppellettile a sostenere (o distrarre) l’azione, nessun supporto musicale. La parola e il silenzio, il gesto accentuato nel suo agire e la musicalità di una lingua che si lascia ascoltare (nonostante qualche problema di acustica del teatro).
Una scena per lo più vuota, un interno popolato da scheletri di sedie, sgabelli, tavolo e divano, un design semplice e lineare non caratterizzato: potrebbe essere un salotto qualunque. È fine la comprensione ma il riferimento è chiaro: questa non è una famiglia qualunque ma potrebbe essere una qualunque famiglia. Il confine tra l’una e l’altra, tra sanità e malattia mentale, è minimo: è nelle splendide parole del protagonista che lo definisce «un binario sottile sottile» sul quale basta «un venticello leggero per farci deragliare». La scenografia pensata e realizzata da Flavia di Nardo e Tommaso Garavini prende in parola il testo e assume un senso drammaturgico, installando tutti i mobili su piccoli binari. L’effetto è quello di una scacchiera dove le pedine si muovono solo in quattro direzioni: la città, la casa, le regole della società sembrano tessere materialmente una rete tra i personaggi che si destreggiano per sopravvivere “fuori dai binari”. Ma basta poco, una parola in più, a far degenerare la situazione. In un crescendo di sottintesi, i fratelli si dibattono per dimenticare il passato con amori presenti, l’amore paterno perversamente virato in violenza sessuale, nascosto tutta la vita nell’inquietudine che non trova pace. La malattia di Secondo si riversa così su tutta la famiglia: il padre assente si scopre essere la causa alla base del malessere che da anni affliggeva il ragazzo, che in un impeto di rabbia lo uccide.
Sicca dimostra una qualità incredibile nel dipingere i personaggi, nel lavorare la materia attoriale con un affondo tale da imprimere la carne di spessore: caratteri stilizzati a tratti nel gesto e nel movimento, ma carichi di emozioni dipinte a olio, quasi fossero un quadro espressionista. Un’opera precisa e pulita, una prosa che rende giustizia alla grande tradizione napoletana intrecciandola con la nuova drammaturgia in un bellissimo connubio.
Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari
Camilla Toso