Recensione a BlueBird Bukowski – di Riccardo Spagnulo, regia Licia Lanera
Una luce verde. Un cadavere sotto un lenzuolo. Una donna, in piedi, che fuma una sigaretta. Si apre – e si chiude – così BlueBird Bukowski, andato in scena al Nuovo Teatro Abeliano di Bari il 13 e il 14 marzo. Lo spettacolo è frutto dell’incontro tra Vito Signorile, direttore artistico del teatro pugliese, Riccardo Spagnulo, che firma la drammaturgia, e Licia Lanera alla regia. Appena riconosciuto dal Ministero per i beni e le attività culturali come TRIC, ovvero Teatro di Rilevante Interesse Culturale, in tandem con il Teatro Kismet per il triennio 2015-2017, l’Abeliano scommette su due giovani artisti, anime della nota compagnia Fibre Parallele. Non una novità per il Gruppo Abeliano, che già da qualche anno affianca alla prosa percorsi legati al contemporaneo.
BlueBird Bukowski apre infatti To the theatre, rassegna dedicata alla nuova drammaturgia, che rientra nel progetto triennale A misura d’uomo, avviato al 44esimo anno di attività. Progetto che contiene anche Actor, il cartellone storico, Prima ribalta, sezione dedicata ai debutti, I’m not a lady, proposte al femminile, e A teatro con mamma e papà, spettacoli per ragazzi. Un’attenzione mai sopita, dunque, per la tradizione e uno sguardo ai giovani talenti (pugliesi e nazionali) e alle nuove scritture, che trovano ospitalità nello spazio di Via Padre Kolbe, attivo dal 2012.
Ambientata nella sala di un obitorio, la produzione del Gruppo Abeliano, un atto unico di circa cinquanta minuti, mette in scena il vecchio Bukowski (Vito Signorile), corpo sfatto dagli anni e dai vizi, e una giovane donna (Mary Dipace), dalla fisicità asciutta, e di una bellezza dura. Emergono, nel dialogo tra i due, anticipato, e, di tanto in tanto, intervallato da momenti monologanti affidati al protagonista, la personalità di Bukowski, alcuni tratti della vita, e il rapporto con l’altro sesso.
È congelata, all’inizio, l’atmosfera, lungo il corpo sul lettino, una targhetta col numero 683 a pendere dai piedi nudi. Un’anticamera dell’inferno, come viene descritta, una sala d’aspetto, dove il poeta si ridesta giusto il tempo di un ultimo incontro. Ed è un incontro che non ha alcuna unicità, se non quella di mettere l’uno di fronte all’altra un uomo famoso e una donna comune, un vecchio alla fine della vita e una giovane che ne ha avanti a sé ancora buona parte, ma anche chi sa godere e chi è incapace di farlo. Se lui, 73enne, si compiace e freme alla vista della pelle nuda, lei affida alla ricerca di sconosciuti, contattati per telefono, la propria frustrazione sessuale. Come emerge dal dialogo tra Buk e Linda (Spagnulo sceglie il nome della moglie di Bukowski), conflittuale all’inizio, man mano più sciolto, e poi sempre più confidenziale.
Una conversazione che pian piano si fa suadente, fino a sfociare in un amplesso, prima che lui, irriverente, volgare, possa continuare la sua strada verso l’inferno, e lei, fragile, frigida, possa riprendere la propria, con più calore di quello provato all’inizio.
È un’operazione drammaturgica interessante quella operata da Spagnulo, che alle prese con un grande personaggio, sceglie di concentrare in un arco temporale piuttosto breve i tratti salienti della vita di Bukowski – la poesia, l’alcol, il sesso. Non mettendo troppo l’accento sui dettagli biografici, l’autore, in alcuni momenti, pare consegnarci nient’altro che l’abbraccio di due persone qualunque, quella semplicità e schiettezza nel raccontarsi le cose che solo due sconosciuti sono in grado di avere.
È efficace la regia di Licia Lanera, che nella scena di Michele Iannone, resa ancora più algida dalle luci di Vincent Longuemare, ambienta un’azione essenziale ma non priva di vitalità. Si muovono poco nella stanza i due, dal lettino alle pareti, dal telefono alla porta, toccandosi solo negli attimi più intensi e concitati, fino all’apice del rapporto carnale, che scioglie la rigidità (e la diffidenza) dell’inizio. Se Signorile affronta la sfida con un’energia sorprendente, catturando l’attenzione dello spettatore, Mary Dipace, certamente meno allenata alle scene, pur incarnando esteticamente una figura femminile consona allo spettacolo, appare quasi ingessata in una severità che non riesce completamente a dissolversi. A diluire il tutto, in conclusione, quando la struttura circolare ci riporta all’apertura, ci pensa la voce roca di un non meglio identificato attore americano, che sulla musica di Max Richter, recita, per ognuno di noi, Blue Bird.
Visto al Nuovo Teatro Abeliano, Bari
Rossella Porcheddu