Recensione a Robinson – di MK
Robinson obbliga a uno sforzo. Quello della visione, prima di tutto: tanti passaggi dello spettacolo si svolgono in un dialogo di luce e controluce, penombre e diverse densità di grigi, in un sapiente trattamento – si potrebbe dire materico – della luminosità e delle condizioni di visibilità. Poi, quello della focalizzazione: la scena è spesso popolata di centri molteplici, lontani fra loro, da cui si innescano percorsi coreografici di pari pregnanza, fra cui lo spettatore è obbligato a scegliere (può seguirne uno, lasciarsi trasportare da un altro, tentare di afferrare l’insieme). Ancora, lo sforzo della “narrazione”: lo spettacolo è sostenuto da un tessuto sonoro unico e continuo, che non si ferma mai (creato da Lorenzo Bianchi Hoesch); così come la struttura compositiva e il disegno coreografico: diviso abbastanza esplicitamente in scene specifiche, Robinson è un lavoro che sembra fondato sui nodi di connessione fra un passaggio e l’altro, una serie di innesti che legano le diverse scene in un unicum fluido. Infine, lo sforzo del senso: lo spettacolo sembra contenere – contenere, ma anche rischiare di essere continuamente sfondato da – qualcosa di incombente, di enigmatico, una domanda che scorre sotterraneamente e si riformula, l’ombra spessa e presente di un mistero.
Michele Di Stefano, nelle note al nuovo lavoro di MK creato a partire dalla riscrittura di Michel Tournier del Robinson Crusoe di Defoe, parla di un personaggio in cui «l’incontro con l’altro spinge a una totale reinvenzione di se stesso»; e, in questo contesto, lo scopo della danza è quello di «tenere sempre vivo proprio il momento cruciale dell’incontro, quello in cui è ancora possibile l’invenzione di un accordo nuovo tra i corpi». Quello di MK e di Di Stefano è un Robinson che si apre al cambiamento, disposto alla metamorfosi, all’influenza, alla variazione; anzi, alla propria rigenerazione attraverso l’incontro con l’altro e il diverso.
I segni di alterità, la presenza dell’altro, del diverso, di qualcosa di incommensurabile è un filo teso che attraversa tutto lo spettacolo, declinandosi di volta in volta secondo variazioni diverse, sempre inaspettate e spesso sorprendenti. A partire dal grande “materassino” d’argento (parte della scenografia ideata da Luca Trevisani), che si alza e prende il volo come un palloncino e rifrange la luce in maniera autonoma durante le prime scene. Poi con una figura smaccatamente altra: i danzatori di Robinson indossano tutti abiti dai colori chiari, neutri, così come la scena, imbevuta di un grigio abbastanza omogeneo; ma la presenza incarnata da Philippe Barbut è dipinta di giallo e nero, con degli short a righe rosse e bianche; tutti gli altri si muovono, questo strano “selvaggio” variopinto invece dimostra una fissità incredibile: entra, si ferma, resta a guardare; imperturbabile, si converte in una perturbazione della visione.
Quando entra, il primo “Robinson” (Biagio Caravano, con la lettera “R” cucita sulla maglietta) sembra tutto preso dalla frenesia della propria dinamica, fino a ritararla lungo orbite eccentriche e ad assumere, infine, la pacata posizione che fu del “selvaggio” nella prima scena: steso, al centro del palco, a guardarsi intorno. Ma è veramente questa strana figura a dominare con il suo spesso portato di alterità, la sua anomalia sgargiante? A volte tocca qualcuno con una lunga asta, interviene più o meno percettibilmente sul movimento e sui rapporti fra i danzatori e lo spazio, ricordando appena la logica che sosteneva Quattro danze coloniali viste da vicino (leggi l’articolo). In generale, si può dire che sia un motivo strutturale che torna spesso nel percorso di MK nel post-coloniale. Parlava forse dell’esercizio di potere dell’uomo sull’uomo, dell’altro sull’altro; di fascinazione e di inquieta influenza. Ma la situazione, qui, è ben diversa. La perturbazione non funge da nucleo di innesco di una variazione importante in modo permanente: diventa anch’essa una possibilità, una casualità che emerge dalla contingenza, un piccolo accidente che può avere o meno conseguenze.
Un altro elemento che ha a che fare con la dimensione dell’alterità e che sembra oggetto di approfondimento e superamento si trova nei rapporti fra i danzatori, fra i corpi in scena, fra i loro movimenti e le traiettorie attraverso cui si mettono in relazione con lo spazio. Spesso, nella danza di MK, tutto questo livello era scheggiato da un senso di incomunicabilità, di differenza, di autonomia del corpo e del gesto. Robinson è contrappuntato da passaggi di assolo di grande potenza (anche quando ci sono più danzatori in scena), ognuno possiede una propria grammatica distintiva che ripete, dilatando o accelerando, i passi a due sono velati da una logica dialettica; ma i momenti di più grande impatto sono senza dubbio i numerosi pezzi corali, in cui tutti i danzatori in scena partecipano alla costruzione coreografica in un armonioso modo d’assieme.
Lo stesso si può dire per un altro nodo incandescente che ritorna negli ultimi lavori del gruppo: l’intenzione mirata alla decontestualizzazione del segno (leggi l’articolo sul Giro del mondo in 80 giorni). Il disegno coreografico insisteva su quello spazio vuoto in cui comunemente si trova il filo che lega l’oggetto, l’immagine, al significato cui rimanda; interveniva per ustioni e cesure, sciogliendo i rapporti tradizionali; ma, a questi, non tentava di sostituire nuove connessioni, sensi, ragioni. I movimenti, le traiettorie, le figure erano estratte, tranciate rispetto al loro contesto di provenienza, comunque intuibile ma non così determinante; stavano, operavano, esploravano e abitavano, col loro corpo e col movimento, uno spazio comune ma non condiviso. Non è così in Robinson. Anche in questo caso, l’atteggiamento permane a intridere tutta la composizione, ma resta come in sottofondo, per emergere di tanto in tanto, fra le altre opportunità di sviluppo del disegno coreografico. Lo spettacolo sembra piuttosto orientarsi verso un’astrazione in cui tutti gli stimoli di contestualizzazione sono rimanipolati in una composizione unitaria. I segni straniati e stranianti paiono come liquefatti e stemperati; la concentrazione sembra invece più calcata sull’incontro fra i corpi, fra le loro posizioni e traiettorie nello spazio, sulle modalità di trattamento del tempo e dell’ambiente.
Si potrebbe dire, insomma, che forse ci troviamo di fronte a un passaggio ulteriore del lungo percorso che MK sta svolgendo da qualche anno nel campo dell’immaginario post-coloniale, della mentalità esotica ed esotista, dell’energia che scaturisce dall’incontro con l’alterità e la differenza, nelle variazioni e nelle influenze che innesca. Sembra di cogliere un punto di non ritorno, di intravvedere un nuovo orizzonte, più che di godere di una summa (o una “mappa”) dell’itinerario svolto fino a questo punto.
Si avverte una tensione al superamento dal punto di vista tematico, rispetto a un’indagine che negli anni ha dischiuso prospettive originali e di un certo spessore, che hanno attraversato tanto i canoni della letteratura d’avventura (Verne, Defoe) che quelli dell’immaginario globalizzato (il turismo, l’esotismo), così come gli avamposti del pensiero post-coloniale, post-antropologico, post-capitalistico.
Ma si può forse presentire anche una mutazione dal punto di vista coreografico. Si potrebbe dire che in Robinson si avverta, in sottofondo, quasi un tentativo di ricondurre la non-danza alla danza, che però – dopo il lungo percorso di ricerca di MK – non è certo quella dei canoni ormai consolidati. Certo l’esito è in un certo senso più omogeneo, ricco di una pluralità di livelli in cui di volta in volta vengono cercati e rifondati gli equilibri, di cui vengono saggiate diverse temperature (solo/assieme, grigio/colore, luce/ombra, centro/traiettoria, ecc.).
Gli elementi distintivi attraverso cui il percorso di MK nel post-coloniale si era fatto conoscere negli ultimi anni sono presenti, ma coordinati da una serie di innesti che determinano un disegno coreografico fluido che sembra rimpastarli per condurli altrove. Si potrebbe dire che l’effetto sia quello di una grande, inesausta tensione all’astrazione. C’è l’armonia d’assieme, la neutra serenità dei grigi, la ripetizione di una partitura; ma la variazione – l’altro – è sempre in agguato dietro l’angolo, predisposta a rimescolare le carte. E succede spesso; ma il discorso funziona anche quando questo non accade: in Robinson il rischio della destabilizzazione lavora anche sul piano della potenzialità e della latenza, a livello concreto, quasi fosse una forza in gioco fra le altre sul palco, pienamente presente e materica. Danza e non-danza, tradizione e innovazione, regola e eccezione, norma e sperimentazione… Forse è anche di questo incontro con l'”altro” che riesce a raccontare oggi il lavoro di MK.
Visto al Teatro Argentina (Roma) e a Fabbrica Europa – Teatro Cantiere Florida (Firenze)
Roberta Ferraresi