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Zombitudine: dall’India a Romaeuropa

Andatura ciondolante e sguardo perso nel vuoto, la scorsa estate si sono trascinati per le strade di Bassano del Grappa. Prima di allora avevano imboccato i tunnel della metro milanese e attraversato le corsie di supermarket genovesi. In questi giorni, messaggi appesi al collo e morte incollata alle gambe, sono nella capitale, da Piazza Navona a Campo de’ Fiori. Sono gli zombie di Corpo Morto, workshop ospitato dal Teatro di Roma nella Sala Enriquez del Teatro Argentina, progetto (qui un approfondimento) che prende le mosse al Teatro India nel 2012 per ritornare, dopo varie incursioni sul territorio nazionale, a Roma, dove tutto è cominciato.
Un seminario per attori non-risolti che si lega, in questo, come in precedenti casi, allo spettacolo Zombitudine, firmato da Daniele Timpano e Elvira Frosini, in scena al Teatro dell’Orologio dal 2 al 23 novembre, all’interno di Romaeuropa Festival. In questa conversazione di fine agosto a Bassano, durante B.Motion, i due attori romani ci hanno parlato dello spettacolo e del clima di stagnazione che lo ha generato.

Daniele Timpano: Tutto è partito da Perdutamente, che è stato l’occasione di mettere il peso su una bilancia piuttosto che su un’altra. Tra le modalità di stare all’India in quel momento c’era la possibilità di dar vita a dei laboratori, e il filone di morte/resurrezione su cui volevamo proseguire poteva essere indagato anche collettivamente (e quindi nella dimensione che il Teatro di Roma aveva voluto per l’India in quel momento). Il nucleo delle azioni urbane c’era già lì, come alcuni testi. Del lavoro fatto a Perdutamente ci sono degli echi nello spettacolo, a partire dalla sensazione di attesa in apertura. Però mentre là c’era una presenza plurima, nello spettacolo, invece, siamo in due.

Come definireste Zombitudine, quindi? Un progetto?
D. T.: Lo spettacolo senza le azioni urbane ha forse una maggiore linearità, e in ogni caso funziona da sé. Ma ci piace, quando possiamo, legarlo a quest’altra parte, il laboratorio. Perché non si parla solo di comparse, sono qualcosa di più.
Elvira Frosini: E poi funziona bene. A Genova, in primis, si è creata una forte aderenza delle persone al progetto, anche nel tempo. C’è una potenzialità di sviluppo.
D. T.: L’esito del laboratorio è ambientato nel teatro dove si sta, con gli spettatori intervenuti quella sera. Dall’inizio si sa che è un fallimento, ma si tenta di improvvisare una comunità. Il teatro è come la cantina di un film di zombie: quella dove tutti si rifugiano, ma che invece è una trappola.
E. F.: Il plot dello spettacolo è volutamente il cliché di un film di zombie qualsiasi: siamo convinti di essere in salvo, e invece ci siamo messi in trappola da soli. Siamo partiti da una condizione nostra, biografica.

Foto di Donato Aquaro

Foto di Donato Aquaro

Che ha a che vedere con un certo panorama teatrale, e più in generale, con una situazione generazionale?
D. T.: Sì, mi viene da dirlo perché lo vedo anche in altri spettacoli, come in Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, ad esempio (leggi l’intervista o l‘approfondimento).
E. F.: E anche in quello di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, ndr), con modalità differenti certo, ma c’è l’idea di confrontarsi con una difficoltà epocale, ed esistenziale. Oltre a essere un lavoro, il nostro, è anche una modalità di vita. Il teatro per noi è un rifugio e una trappola. Ci sono piccole ritualità quotidiane, un quotidiano che aspetta e spera. Abbiamo paura delle invasioni, dei corpi estranei che entrano nel tuo mondo, ma c’è quasi un anelito disperato alla distruzione di un mondo, che è già in frantumi. E allora che sia.
D. T.: Il senso dominante è quello di stagnazione, di confusione, di impotenza. Già in Aldo Morto (leggi l’approfondimento), con riferimento ai politici di oggi, parlavo di un senso di impotenza. E l’idea del teatro come cantina, come tomba, come chiusura, come autoreclusione, c’era già. Un’impotenza sentita prima in quanto cittadini, e poi in quanto artisti. È un dato se non generazionale, anagrafico, perché siamo in una sorta di limbo. Non più giovani, ma neanche vecchi, “affermati” ma quasi niente. Non abbiamo figli, probabilmente non li avremo, abbiamo un’economia sempre avventurosa. È un humus dal quale non si esce, e se c’è da un lato la potenzialità di empatia con lo spettatore, dall’altro c’è anche un rischio snobistico, davanti a una cosa talmente familiare, che ti fa dire “già lo so, lo vivo tutti i giorni, cosa c’è di nuovo?”. Zombitudine è in bilico fra queste due cose.
E. F.: Dopo aver riaperto questa ferita gigantesca, un trauma delle coscienze che ci ha messo sotto una cappa di immobilità, Aldo Morto chiude con un vuoto, con un’impotenza totale. Apre un baratro, dicendo che c’è impossibilità di reazione alla reazione. Digerseltz vive di questo vuoto, che cerca di riempire con una bulimia di parole. C’è un senso di grande solitudine, e una sorta di cannibalismo sociale. Zombitudine per noi è quasi ripartire da zero, dal vuoto, dal chiacchiericcio che ci infetta, da un’archiviazione. È uno spettacolo quasi aristotelico, ha un inizio, una fine, c’è unità di tempo e di luogo, ha quasi una circolarità.
D.T.: E non è un caso che sia ambientato in un teatro. Ma è un’idea quasi stereotipata di teatro, con un sipario un po’ retrò, con vestiti anni Cinquanta; anche le battute e il ritmo sembrano anni Cinquanta, non dico che sembra Beckett o Ionesco ma quasi.

Quindi, è un’idea di teatro con un’accezione negativa?
E. F.: Sì, è l’idea di teatro che potrebbe avere un italiano medio. Nel nostro Paese è come se il Novecento non fosse mai passato, come se non si potesse leggere altro. Non c’è stata una crescita, uno scoprire altro.
D. T.: I testi teatrali più recenti che vedo in casa di chi non fa teatro sono quelli di Brecht. È come se nessuno di noi fosse passato alla storia del teatro. Nell’idea comune del teatro – nonostante il palcoscenico, nonostante Rai 5, nonostante Radio 3 – è come se tutto quello che stimi e ami da quando fai teatro, non esistesse.

Non c’è nessuna possibilità di salvezza? Non scorgete una via di fuga?
E. F.: Sì, resistere. Non c’è una forma di nichilismo azzerante. Credo che il teatro italiano oggi abbia forza, capacità, ma è come se non riuscisse ad arrivare alla coscienza nazionale, al dibattito allargato. Le grandi riflessioni, sui giornali, sui media, oggi, quelle che ci riguardano tutti, partono da un evento spettacolare, da un film, mai da un pezzo teatrale.
D. T.: Quando sono stato invitato a Parigi per il convegno L’Histoire derrière le rideau. Ecritures scéniques du Risorgimento, con lo spettacolo Risorgimento Pop, c’era grande attenzione per il film di Martone e grande snobismo per gli autori contemporanei viventi. Sembrava che dovessimo motivare costantemente il nostro lavoro. La letteratura teatrale tardo-settecentesca e ottocentesca non aveva nessun limite di questo tipo, era ampiamente legittimata. Basti pensare che solo quando sono stato chiuso 54 giorni dentro il Teatro dell’Orologio sono stato citato all’Accademia Aldo Moro durante un convegno di studi. Lo spettacolo che ha girato due anni e mezzo, che è stato visto, pubblicato, recensito, da solo non bastava. C’è voluto l’evento per farlo uscire fuori.

Avete citato i lavori di entrambi. Come si riflette il percorso del singolo sul lavoro comune?
E. F.: Digerseltz e Aldo Morto nascono nel periodo in cui nasce la nostra collaborazione. Nel nostro primo lavoro insieme, Sì l’ammore No, del 2009, forse si distinguono ancora le differenze.
D. T.: La struttura dello spettacolo era più “frosiniana” che “timpaniana”, perché partiva dalla scrittura scenica, dall’uso dello spazio, dal creare relazioni tra stati, collegamenti tra cose. Spettacoli come Dux in scatolaAldo Morto hanno una struttura differente perché in mezzo c’è questa collaborazione. Dux in scatola ha un’idea di struttura chiara e un’idea scenica semplice, scarna, che tutto sommato non cambia mai: è un’idea lineare che va dall’inizio, allo svolgimento, alla fine. In Aldo Morto i collegamenti logici coi materiali si realizzano per attività tematica e per ragionamenti, ma sono anche discorsi di scrittura scenica, di immagini, di spazialità, per una modifica progressiva della modalità del pensiero dovuta al lavoro comune. Zombitudine può essere il preludio a direzioni future, ancora da scrivere.

Avete nominato il nordest dei Fratelli Dalla Via, la provincia, il lavoro, la ditta. Nella vostra situazione di stallo quanto influisce il territorio romano?
E. F.:
 Tanto, consciamente e inconsciamente. La situazione di stallo è fortemente legata a Roma. Tutti i giorni ci confrontiamo con l’idea di stagnazione.
D. T.: Un senso di oscuramento è nell’aria della città, e noi siamo spugne di questa stagnazione.

Pensate mai di spostarvi?
D. T.: Io continuamente!
E. F.: È vero che a Roma abbiamo uno spazio, dove facciamo laboratori, dove teniamo tutte le nostre cose. Ma è vero anche ci sono regioni che proteggono i loro artisti. In Lazio siamo orfani.

Il debutto a Genova, poi Rieti e Bassano. Nel 2015 Milano, Napoli e Palermo. Avete girato e girerete parecchio con questo lavoro. E adesso Romaeuropa.
D.T. Dopo Corpo Morto, il laboratorio, e Walking Zombi, le incursioni urbane, andiamo in scena all’Orologio. Con una lunga tenitura, tre settimane. Romaeuropa vuole recuperare, in parte e con alcuni spettacoli, ciò che non può più fare al Palladium, ovvero un festival che fosse anche una stagione.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu