Nello scorso Romaeuropa Festival 2013, Jan Fabre ha riproposto con un cast rinnovato di giovani performer due spettacoli degli esordi al Teatro Eliseo di Roma: The power of theatrical madness e This is theatre like it was to be expected and foreseen, rispettivamente del 1984 e del 1982. Ne segue non una recensione, ma una riflessione sociale sul senso dell’arte nel contesto della realtà contemporanea, ospitata dai Quaderni del Teatro di Roma in un dittico con Simone Nebbia, il cui articolo è ora anche su Teatro e Critica.
Ossessiva ripetizione. Eterna mutazione. Dualismo oppositivo. Reiterazione del movimento, geminazione delle immagini, serialità delle azioni. Crudele, violenta, iperbolica, l’estetica di Jan Fabre si muove sui binari dell’iterazione e della contrapposizione, s’incentra sulla trasformazione e la rigenerazione, del mondo come dell’uomo, e s’incide sul corpo, assoluto protagonista, soggetto e oggetto di una ricerca totalizzante, che esplora limiti e confini, che indaga passaggi e condizioni. È decostruzione e ricostruzione, potente drammatizzazione e costante tensione, esplorazione della condizione fisica, che è specchio di quella esistenziale.
Ilad of the Bic-Art, The Bic-Art Room (1981) – Foto di Fred Balhuizen
Collimano, etica ed estetica, nel pensiero dell’artista belga, pittore, scultore, coreografo, performer, per il quale la bellezza è vulnerabilità antropica che non conosce tempo né luogo. È distruzione e ricostruzione che attiene alla natura e all’uomo in quanto animale, è fuga dalla soluzione, circolarità, esaltazione del conflitto. Non per niente Fabre chiama i suoi perfomers “guerrieri della bellezza”, e la lotta è tema di alcune azioni, Virgin Warrior, realizzata con Marina Abramovich nel 2004, Lancelot, lavoro in cui Fabre combatte se stesso, e Sanguis/Mantis, costrizione fisica in un’armatura da mantide religiosa, performance che racconta una passione entomologica, il rapporto tra uomo e arte, e la dicotomia tra eros e thanatos. Opere che fanno parte di Stigmata – Actions & performances 1976-2013, ampia esposizione che ripercorre il cammino visivo e performativo dagli anni Settanta a oggi. Un atto sacrificale, come descritto da Germano Celant, che cura la mostra. Un’operazione che si può definire archeologica negli spazi del Maxxi, su 92 tavoli di vetro, quasi un laboratorio scientifico che espone strumenti, materiali, oggetti, accompagnati da disegni, film, sculture. E un’operazione di re-enactment sul palco dell’Eliseo, per Romaeuropa 2013, con The power of theatrical madness e This is theatre like it was to be expected and foreseen, riallestimenti dagli originali del 1984 e del 1982, spettacoli – della durata di quattro ore l’uno e di otto ore l’altro – che mettono a dura prova la resistenza fisica e psicologica del nuovo cast. In scena e in video, nella logica di una consilience tra arte e teatro, il corpo, materia di carne, è schiaffeggiato, solleticato, disegnato, sculacciato, scartavetrato.
This is theatre like it was to be expected and foreseen – Foto di Wonge Bergmann
Un’indagine sulla corporeità che affonda le radici nella tradizione fiamminga, che deve ai pittori di Bruges e ai loro cristi crocefissi, flagellati, morenti, la sperimentazione dello strazio, la prova di una sofferenza senza catarsi, tra verità e simbologia. Una nudità esposta, martoriata, una classicità dissacrata, spunti favolistici, citazionismo che va dalla pietà michelangiolesca – cara all’artista di Anversa – al poverismo di Kounellis, che ritroviamo nei ganci da macellaio, nelle fiamme ossidriche, perfino nei pappagalli. Scompone la temporalità, Jan Fabre, destruttura le sequenze, moltiplica le azioni, trapassa la pelle per spremere emotività. Copre con pantaloni neri e camicie bianche fisionomie maschili e femminili, rendendole uguali. Archetipi dell’umano che arranca, ride, corre, bacia, balla, urla, ingoia, soffoca, striscia, vomita. Cerca la natura fuori e dentro di sé, chiamando in causa uno spettatore che non sia solo ricettore di immagini ma parte attiva del farsi, incanalatore di percezioni, di fastidi epidermici e di tormenti visivi. E se è difficile sostenere lo sguardo davanti ai gesti provocatori, come la scarnificazione di Me dreaming, a parlarci, oggi, sono le azioni comuni, quel rincorrere, quell’arrancare, quell’affannarsi senza arrivare da nessuna parte.
«Tahrir è la piazza delle persone» recita uno dei tweet proiettati sugli schermi. Frammento di una drammaturgia virtuale che partendo dal web ricostruisce un percorso individuale in uno scenario globale. Non è uno spettacolo politico, non intende schierarsi dalla parte dei manifestanti, né inneggiare alla rivoluzione. Multimediale, attuale, in dialogo tecnologico e tematico con l’oggi, Pictures from Gihan, ultimo lavoro dei Muta Imago presentato al Teatro Biblioteca Quarticciolo in conclusione di Romaeuropa Festival 2013 − che coproduce il progetto − punta l’obiettivo sull’uomo. Seguendo le tracce di una blogger egiziana che da piazza Tahrir posta e twitta immagini e parole, la compagnia romana restituisce − fisicamente, rumoristicamente, visivamente − uno sguardo personale sulla Primavera Araba, ponendosi e ponendo interrogativi sul nostro tempo. «Come guardare il reale e rielaborarlo artisticamente?» si chiedono Claudia Sorace e Riccardo Fazi, in questo come in precedenti lavori. Domanda chiave anche del laboratorio L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, curato insieme a Veronica Cruciani, direttrice artistica del Teatro Biblioteca Quarticciolo (dove si svolge) e Michele Di Stefano di Mk, e in partenza, con un primo movimento, dal 20 al 22 dicembre. In occasione della replica di In Tahrir, visto lo scorso novembre all’Argentina nell’ambito del progetto Wake Up!, e riproposto il 15 dicembre al Nuovo Cinema Palazzo di Roma per il Festival 24fotogrammi, Claudia Sorace ci racconta il percorso intrapreso dalla compagnia nell’ultimo anno e mezzo, percorso che parte dal cantiere di Perdutamente e guarda all’Egitto.
«Sia In Tahrir, occasione grazie alla quale ci siamo avvicinati a questa materia, che i due progetti esterni al teatro, Una settimana nella vita, fatto a Mondaino, e Art you lost?, realizzato all’India e a Santarcangelo, ci hanno portato a Pictures from Gihan. In Tahrir è il racconto della giornata più importante della rivoluzione egiziana, quella del 2 febbraio 2011, costruito utilizzando tutti i tweet postati allora dai giovani rivoluzionari e che il web ancora conservava. Nel raccontare gli eventi di quella giornata, l’occupazione della piazza, l’intervento violento delle forze dell’ordine, la resistenza delle persone, ci siamo trovati per la prima volta di fronte alla questione più importante: dove siamo noi rispetto a tutto questo? La risposta in In Tahrir passa per l’immedesimazione, fisica e sonora: i due performer in scena restituiscono il racconto in prima persona di un ragazzo e una ragazza che cercano di incontrarsi a piazza Tahrir. La componente di fiction e il punto di vista esperienziale sono quindi preponderanti rispetto alla riflessione sul tema. La performance è realizzata come un radiodramma, l’audio è preso da internet e ricostruito dal vivo. Nel finale ci sono solo il buio e la piazza, significa che non eravamo lì, non sappiamo cosa è stato, ma questa è l’idea che ci siamo fatti del 2 febbraio».
Questo vale anche per Pictures from Gihan?
«Qui entriamo anche noi (io e Riccardo, con le nostre vite) nel quadro e riflettiamo su questioni di più ampio respiro, più vicine a noi. Pictures non è un lavoro documentaristico, non è uno spettacolo sulla rivoluzione egiziana: non esci dal teatro sapendone di più su quei fatti. Ci interessa capire quali possono essere le ragioni, i desideri e il presente di chi ha fatto una scelta così forte. Noi viviamo le nostre geografie in maniera nomade, ma c’è qualcuno che sceglie di essere davvero presente ai suoi luoghi, al suo territorio».
C’è il riferimento a un maggiore immobilismo occidentale? E a una nostra difficoltà di scendere in piazza?
«Lo spettacolo racconta il nostro avvicinamento a Gihan, le domande che faccio in scena sono le stesse che vorrei fare a lei. E preparandomi a questo percorso ho capito che prima di tutto sono io a dover rispondere. C’è, probabilmente, la sensazione di vivere in un mondo frenato. Che cosa dovrebbero togliere a noi per farci arrivare a tanto? Agli occupanti di piazza Tahrir è stato tolto qualcosa di talmente grande da spingerli a scendere in piazza, a rischiare la vita per riappropriarsi di quello che ritenevano essere loro. Non siamo pronti per la rivoluzione forse perché ancora non abbiamo risposto a quelle domande interiori, domande che la Primavera Araba, vissuta in lontananza dalla nostra generazione, ci ha sbattuto in faccia. Come vorresti che fosse il tuo paese tra vent’anni? In cosa speri davvero? Che forma avrebbe una tua rivoluzione personale? Sono i nostri coetanei egiziani, e la loro rivoluzione ci ha fatto sentire impotenti».
Osserviamo e non agiamo. L’immagine dei due personaggi che stanno davanti al pc, e dietro di loro il grande schermo con la piazza è rappresentativa.
«Siamo spettatori che hanno poche occasioni di mettersi in un percorso di conoscenza più vero e autentico. Veniamo attraversati da immagini, da novità continue, da informazioni che non mettiamo mai davvero in collegamento con noi stessi e tra di loro. Il percorso conoscitivo passa sempre per qualcosa che resta esteriore. Non è una questione solamente di consapevolezza, ma di immaginazione. Devo imparare a entrare sempre di più in una modalità di relazione che sia personale ed empatica con quello che mi arriva da lontano. Devo immaginare che quegli elicotteri passino anche davanti alla finestra di casa mia».
Il pubblico comprende questo punto di osservazione?
«Non è uno spettacolo enfatico, drammatico in senso stretto. Non c’è niente di eroico, Gihan non è una Giovanna d’Arco che salva il suo paese. Lei non ha risposte per noi. C’è chi vorrebbe più pathos, chi invece apprezza la modalità utilizzata perché racconta un’incapacità di essere attivi. Chiediamo al nostro pubblico di fare un percorso insieme a noi, di mettersi al nostro fianco, restando lucidi ma coinvolti».
L’essenzialità del tweet riprende un vostro modo di portare le parole sul palco, poche, immediate.
«Sì, sono stati il nostro copione. È un linguaggio interessante, ipersintetico, è una parola-azione priva di commento».
Nel 2009 durante un incontro a Jesi, a uno spettatore che chiedeva una descrizione del teatro dei Muta Imago, hai risposto «Immagini di guardare fuori da una finestra, dove può vedere solamente immagini senza riuscire a sentire il sonoro intorno». Vale ancora oggi?
«In questa fase per me è interessante uno sguardo che osserva il reale, in un tempo lungo, e che ha sempre per oggetto l’essere umano. In questo sta la particolarità e la bellezza del teatro, nella possibilità di mettere al centro l’uomo. Forse ciò che ci interessa maggiormente rispetto al 2009, sono i particolari, guardare più da vicino, con un cannocchiale o un microscopio, abbattere le distanze».
Guardare l’oggi ma anche preservare la memoria, quella storica e quella virtuale.
«Memoria è una parola densa di significati, come identità. Il nostro viaggio nella memoria è una ricerca d’identità. Con (a+b)3 è un punto di vista mitico, con Lev storico, con Madeleine onirico. C’è sempre una ricerca di astrazione. L’oggetto che resta, il tweet, la foto postata, l’oggetto di Art you lost? creano un immaginario meno astratto ma più contestualizzato».
Parole che restano in Pictures from Gihan, oggetti che restano in Art you lost? e Una settimana nella vita.
«Sì, Art you lost? è un’installazione creata da persone che vanno e vengono lasciando parti di sé. Dopo Perdutamente all’India, a Santarcangelo 2013 c’è stata la raccolta e a Santarcangelo 2014 sarà presentata l’opera. Una settimana nella vita, fatto a Mondaino, è stato un laboratorio. Abbiamo chiamato dodici artisti e li abbiamo fatti adottare da dodici abitanti del luogo. La convivenza ha portato alla realizzazione di un ritratto. Un laboratorio sullo sguardo che ha messo gli artisti davanti a un oggetto di lavoro animato, vivo, e che ha creato delle forti relazioni con gli abitanti. Un rapporto di vicinanza totale e di estrema fragilità, un mettersi a nudo vicendevolmente. E l’esposizione finale è stata quasi una ricostruzione del villaggio, un piccolo specchio di Mondaino».
Muta Imago si sposta dall’Italia alla Romania, e da Roma a Bruxelles. Più che un trasferimento oltralpe è un contaminarsi, vedere, conoscere altro?
«Sì, continuiamo e vogliamo continuare a lavorare in Italia, e a Bruxelles stiamo muovendo i primi passi. Ma direi che lo spostamento in Belgio è legato alla questione del vedere, stare in un un luogo circondato da stimoli, in un contesto sempre innestato di nuova linfa».
Harawi, l’incontro fra la ricerca performativa di Santasangre e la musica sperimentale di Olivier Messiaen, è tutto sui toni del grigio, su ombre sempre più presenti, sulle micro-variazioni della penombra, sullo spessore dell’intangibile e sulla presenza della soglia fra visibile e non. È un lavoro che porta in scena tutta la complessità di un’opera di teatro musicale o, meglio – visto che si tratta di un ciclo di Lieder, certo non pensato inizialmente per il teatro –, di una rappresentazione scenica che si avvale dell’esplorazione di diverse lingue e differenti linguaggi: dodici canti per pianoforte e soprano, scritti dal compositore francese nel ’45, e l’intreccio di performance e nuove tecnologie per cui il collettivo romano è noto da anni sulle scene italiane.
La creazione che la Sagra Malatestiana di Rimini ha commissionato nel 2012 a Santasangre torna per la prima volta in scena dal debutto dell’estate scorsa in occasione di Romaeuropa Festival – occasione che permette di apprezzare, ancora una volta, il lavoro della Fondazione romana, la cui programmazione è forse più celebre per le imperdibili aperture internazionali, ma merita particolare attenzione anche per l’attento lavoro svolto negli anni con e sulla scena italiana.
Al centro di Harawi, prima di tutto, il tessuto sonoro: un continuum quasi integrale che accompagna l’opera dall’inizio alla fine con il pianoforte di Lucio Perotti e la voce di Matelda Viola. Entrambi sono collocati a fondo scena, separati dal resto da un tulle che abbraccia tutto il proscenio. Restano, di fatto, come un sottofondo degli accadimenti, uno sfondo lontano, seppure sempre ben presente.
Nella parte più avanzata del palco, invece, si svolge l’azione performativa: un lui e una lei, abiti chiari e gesti maturi, ripercorrono una storia di amore e morte. Con gesti determinati, piccoli, ma di grande portato emotivo. In silenzio. Un prendersi per mano, un accasciarsi sul corpo dell’amato, un separarsi piano in cui il topos dell’amore di una vita è raccontato per piccoli emblemi gestuali. Sarebbero, nell’intenzione di Messiaen, Olivier (il nome stesso del compositore) e Piroutcha (nome femminile attinto dalla cultura quechua cui Harawi rimanda); si ispirano all’archetipo dell’amore assoluto, Tristano e Isotta (cui Messiaen dedica, assieme a questo, altri due pezzi di un’intera trilogia). Ma in scena sono semplicemente Maria Teresa (Bax) e Marcello (Sambati). Ce lo dice con piglio un po’ didascalico la proiezione delle scritte disegnate live con una tavoletta grafica, giusto sopra le teste dei due performer, a introdurne l’azione: scrive prima una coppia di nomi, poi la cancella e ne sceglie un’altra, poi un’altra ancora, come a evocare la sovrapposizione di intenzioni e di autorialità in gioco in questo Harawi. Il tema è quello di una storia di amore e morte per eccellenza, le sue versioni, sembra ci dicano le scritte, invece sono diverse: l’archetipo torna a incarnarsi nei successivi appuntamenti autoriali in cui è precipitato, da Wagner a Messiaen ai Santasangre.
L’azione dei due performer, in certi momenti di una certa bellezza per la sua precisione e la delicatezza, per tutta la durata dello spettacolo, è lontana sia dalla composizione musicale (con il tulle a metà palco), ma anche dalla platea, da cui è separata da un ulteriore velatino.
Su entrambi le superfici – che non è azzardato definire schermi, per la loro imponenza sia scenica che drammaturgica – di tanto in tanto incedono, non solo spunti informativi e deviazioni di senso a volte stimolanti ad opera della tavoletta grafica, ma soprattutto ampie proiezioni video. A volte sono frammenti estratti da una realtà metropolitana, con i suoi innesti tecnologici e uno skyline ben squadrato dalle cime di cemento dei grattacieli, decorata da graffiti e attraversata da miriadi di passi sconosciuti, ombre, profili di persone; altre volte, il video accoglie creazioni astratte, che sembrano più prossime alla forza degli elementi naturali. Spesso le proiezioni dei due schermi si sovrappongono, dando vita in qualche caso a interessanti giochi di rimandi o distorsioni, a volte addirittura capaci di approfondire un segno, un passaggio, un pezzetto di paesaggio.
Ognuno di questi piani – linguistici e drammaturgici – si sviluppa secondo linee proprie, beninteso osservando una reciproca concordanza almeno ritmica; ma la loro interazione è spesso negata, non solo dalla scelta dell’impostazione spaziale, così nettamente articolata, e nemmeno dal rischio di sovrapposizione, che invece rivela in qualche caso opportunità sceniche di spessore. Il punto, forse, è nel piglio insistentemente ostensivo che ritorna lungo tutto lo spettacolo, tanto nell’utilizzo dei diversi mezzi che nell’impostazione delle azioni: Harawi si inaugura con altri due performer sul filo del proscenio, lui (Antonello Compagnoni) in abiti sportivi si esibisce in una piccola acrobazia, lei (Monica Galli) accoglie sul braccio un falco, possibile rimando all’altra passione di Olivier Messiaen, l’ornitologia; potrebbe essere una pratica ostensiva giustamente legata a una funzione introduttiva rispetto allo spettacolo, come cornice o inquadramento, ma accade lo stesso quando entrambi ritornano, più tardi, in scena, con il ginnasta alle prese con un esercizio agli anelli e, in un altro momento, con la falconiera che esibisce il rapace sullo sfondo. Sono scene emblematiche, anche affascinanti, ma in tutto e per tutto chiuse in se stesse, a dimostrare, appunto, soprattutto la loro presenza. La stessa pratica espositiva torna in altri momenti, arricchendosi della possibilità di introdurre – sarebbe meglio dire prevedere – scene e azioni: la presenza di due anelli da atletica invoca il successivo esercizio del ginnasta e la morte dei due amanti è introdotta dal loro stesso disegno, a terra, delle sagome dei propri corpi, come nei film polizieschi. Ma non si tratta di un carattere episodico, legato a questa o quell’altra azione, quanto piuttosto di un’impostazione più diffusa volta a far affiorare in continuazione l’intenzione drammaturgica, a dichiararla con buon margine di anticipo: ogni passaggio della delicata quanto travolgente storia d’amore è cadenzato e ricalcato da scelte performative che fanno riferimento ai più noti archetipi e cliché gestuali di quel momento (un abbraccio, l’abbandono, la separazione…); lo stesso per i video, spesso a rischio di restare relegati in una funzione più decorativa (e meno drammaturgica) e infine così anche per le interazioni live di disegno digitale, il cui potenziale si esprime pienamente solo in alcuni momenti, mentre diffusamente si fa accessorio, marginale, quasi di sfondo. Questa continua tentazione all’ostensione, ricorrente a diverse altezze e in momenti differenti, non manifesta soltanto la possibilità di condizionare temporaneamente in secondo piano, a una dimensione puramente contestuale, gli altri elementi in scena: la concentrazione esclusiva che viene di volta in volta riservata all’uno o all’altro piano, propone anche il rischio di una deriva virtuosistica all’interno di uno stesso campo linguistico o semantico.
Spesso, la separatezza originaria fra i diversi linguaggi in scena obbliga in effetti a un primato dell’uno sull’altro mezzo, di una scena sull’altra: a volte l’imponenza (non solo visiva) del video nasconde le azioni dei performer, in altre ha il sopravvento anche sulla collocazione della musica; in altri casi, sono i due attori ad attrarre la scena verso di sé, rendendo laterali e didascalici il canto o gli inserti visivo-testuali e, infine, naturalmente, la presenza della cantante è spesso a rischio di dominare tanto il contesto visivo che quello drammaturgico. Sembrerebbe un inseguirsi vorticoso di stimoli, presenze, possibilità, ma l’esito è tutt’altro che avvincente: i rimandi fra l’una e l’altra opzione sono quasi inesistenti, come se ognuna di esse potesse svilupparsi in tutta autonomia lungo il proprio itinerario e, più che uno spettacolo unitario, si fosse coinvolti in un succedersi di frammenti autonomi, sia in senso linguistico che drammaturgico. È come essere di fronte a un’inconciliabilità sostanziale fra spazio, linguaggio, persona. Quello che torna, scena dopo scena, è il senso di un appuntamento rimandato, continuamente mancato, che è in effetti quello che accade per lungo tempo fra i due amanti, il cui rapporto – straordinariamente sviluppato dalla partitura e dall’interpretazione di Sambati e Bax – si riverbera più in termini di giustapposizione, prossimità e possibilità che di effettiva fusione.
La scelta di lavorare in parallelo su diversi linguaggi, evitando i rischi di banalizzazione e omogeneizzazione impliciti in opzioni di commistione, concentrandosi sulla specifica potenza di ognuno e valorizzandone quindi l’autonomia, emerge certo con grande coerenza da Harawi (certe volte anche con dichiarazioni eccessive, come la necessità del doppio velatino che separa esplicitamente scena e platea, le articolazioni interne dello spazio scenico, le “didascalie” proiettate). Peccato che i punti di maggiore interesse scenico di questo lavoro sembrino andare a collocarsi invece proprio laddove lo scarto irriducibile fra i diversi linguaggi in gioco pare dissolversi, suggerendo qualche cortocircuito inaspettato e aprendo la cornice della creazione a nuovi orizzonti. Ad esempio quando la piccola potenza performativa dei due attori interagisce con musica e disegno digitale dal vivo: c’è un passaggio in cui è il tratto luminoso della tavoletta grafica a farli emergere e sparire dalla scena, a evidenziarne le mani intrecciate in un momento di grande impatto emotivo; così, valorizza la maturità dei loro gesti, il loro spessore, la pregnanza del loro rapporto. Certo, come si è detto, spesso queste opportunità sono spezzate da una particolare scelta di frammentazione linguistica e drammaturgica; ma la loro presenza è in ogni caso indicativa, perché lascia trasparire il piano di una ricerca magmatica, tuttora ben attiva e, forse, anche intravedere una possibile strada di sviluppo del lavoro della compagnia romana: quella che potrebbe reintrodurre, in termini del tutto inediti, il tema dell’umano in scena, in un rapporto originale – non accessorio né mediato – rispetto all’utilizzo della tecnologia dal vivo. In quei casi in cui questa opzione sembra più vicina, va detto subito, l’esito scenico è di un certo impatto, riuscendo a riorganizzare la materialità del visivo con quella, altrettanto forte, del gesto umano; a superare le impasse della metafisica dell’assenza, con la sua tendenza alla rarefazione e a volte un certo rischio di deriva verso frontiere esclusivamente virtuosistiche, attraverso una potente rivendicazione della presenza, della poesia che scaturisce appunto dalle possibilità di trasformazione della sua materialità. Mimica o visiva, umana o tecnologica che sia.
Sono le passioni, le forze, l’agire umano, è la “narrazione metaforica della vita” in The Goldlandbergs a inaugurare l’edizione 2013 del Romaeuropa Festival. Una prima nazionale per Emanuel Gat, che il 25 e il 26 settembre porta sul palco dell’Auditorium Conciliazione un intreccio di musiche, suoni, movimenti, un “poema sonoro” che attinge a The quiet in the land di Glenn Gould. Lirismo e arcaicità nel nuovo lavoro di Sasha Waltz, Continu, la danza stilizzata e simbolica di Rachid Ouramdane e la sua poetica della testimonianza in Sfumato. L’incontro tra Antonio Latella, Le benevole di Jonathan Littell e gli attori dello Schauspielhaus di Vienna in Die Wohlgesinnten e lo sguardo di Thomas Ostermeier sulla cattiva di Ibsen, Hedda Gabler. Il debutto italiano di The Four Seasons Restaurant della Socìetas Raffaello Sanzio, il ritorno sulle scene di The power of theatrical madness, leggendaria creazione di Jan Fabre, datata 1984. E ancora l’indagine sul tempo e la sopravvivenza di Alessandro Sciarroni, con i giocolieri di Untitled_I will be there when you die, secondo capitolo di Will you still love me Tomorrow, la riflessione sul corpo e il viaggio italiano – dal Rinascimento a oggi – di Marcos Morau e de La Veronal in Siena, il tracciato della memoria, il recinto di neon, le movenze morbide di re e regine senza scettro nel lavoro di Marco D’Agostin, Per non svegliare i draghi addormentati. La crisi greca con le quattro pensionate di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Deflorian\Tagliarini, Piazza Tahrir nei frammenti visivi, sonori, emotivi dei Muta Imago con Pictures from Gihan. E poi i live concert e live set di Sensoralia, gli universi sonori della sperimentazione con Viva!, i paesaggi e le atmosfere liquide della quarta edizione di Digital Life. Per un’eterogeneità di proposte. Per artisti internazionali che invadono teatri e musei. Per un’arte che resiste, come ci racconta il Direttore della Fondazione Fabrizio Grifasi.
The Goldlandbergs di Emanuel Gat
«Romaeuropa riafferma una vitalità della creazione che non è sconnessa dal momento che stiamo attraversando e un’opportunità che le pratiche artistiche possono darci in termini di chiavi di interpretazione, in termini di rapporti sensibili all’interno di un contesto che è quello del contemporaneo. Tutti noi, operatori, artisti, cittadini, siamo bombardati dalle difficoltà nell’agire quotidiano, e abbiamo la percezione che i rapporti siano diventati più complessi, tutto è più lento, non solo nelle vite professionali, ma anche nel sistema delle interrelazioni, dove si è installato un meccanismo di ansia e di incertezza rispetto al futuro. L’arte è parte del momento che stiamo attraversando».
Essere nel presente significa non dimenticare il passato. Guardare avanti coscienti di ciò che è stato. Alcuni spettacoli del festival osservano i trami, le fratture, le innovazioni del Novecento. «È una riflessione fatta con il team di Romaeuropa a gennaio, quando ho presentato il draft – piuttosto avanzato – della nuova edizione. Molte osservazioni, in quell’occasione, hanno sottolineato questo elemento: per riuscire a capire il presente abbiamo bisogno di guardare al nostro passato più prossimo. Ci serve metabolizzare gli ultimi cento anni. Questo è pregnante anche per le tematiche e le estetiche che caratterizzano la ricerca artistica. Le pratiche performative, le pratiche legate al teatro e quelle legate al teatro musicale – quest’anno molto presente -, la stessa danza, sono in continua negoziazione con la storia recente. Il rapporto con il futuro, invece, è connesso alle nuove tecnologie, a una certa visionarietà. Alla sua quarta edizione, Digital Life rappresenta per noi il presente che si proietta nel futuro. Mi interessa molto che un festival come Romaeruopa, lasciando agli artisti la concatenazione di una struttura teorica, ponga questi interrogativi: come pensiamo il futuro? Abbiamo paura di pensare il futuro? Abbiamo bisogno di digerire e metabolizzare il nostro passato più recente? È in questo fragile equilibrio che emergono le problematiche del presente. Abbiamo scelto di portare Jan Fabre con due spettacoli storici – com’è stato lo scorso anno con Bill T. Jones e tre anni fa con Trisha Brown -, una scelta che ha a che vedere con la necessità di acquisire spettatori giovani che non hanno mai visto creazioni di questo tipo. C’è un ringiovanimento del pubblico di cui siamo molto felici, nuovi spettatori che portano nuove tipologie di sguardo e nuove richieste».
A questo proposito, Monique Veaute in un’intervista di qualche mese fa a InsideArt ha parlato di una differenza tra il pubblico della danza e quello del teatro di ricerca. «Abbiamo una radice storica di danza e di musica contemporanea, quindi ci portiamo appresso un background molto forte in questi ambiti. Credo che lo scarto di cui parla Monique esista ma in questo momento sia meno evidente. Diamo al pubblico l’opportunità di percorrere e incontrare artisti di generi e con pratiche differenti, pratiche che risentono già dell’ibridazione delle discipline. Semmai il gap che mi sento di notare, e che riguarda anche gli operatori del settore, è nel rapporto con le arti visive. Stiamo facendo da quattro anni un lavoro in questo settore, e in particolare ragionando sul rapporto con le nuove tecnologie, che per noi rappresenta una nuova frontiera. Ma come traghettare il pubblico e gli operatori, insisto, che a volte sono molto legati allo spettacolo dal vivo? Faccio un esempio: abbiamo seguito per molti anni i Santasangre, e a loro abbiamo fatto una commissione per Digital Life; credo che una percentuale minima degli operatori che hanno seguito con costanza questa compagnia sia andata a vedere l’installazione. Trovo questo elemento interessante, trovo che sia un limite, dobbiamo renderci conto che i terreni e i territori sono molto porosi pur considerando le singole specificità e quindi gli strumenti di analisi, la visione più larga non può che essere coerente con un tentativo di interpretazione».
Continu di Sasha Waltz
Vitale per Romaeuropa resta la multidisciplinarietà? «Essenziale. Sono gli artisti stessi che ci conducono verso forme molto diverse. Faccio l’esempio dei Santasangre perché è un gruppo che è nato in questi anni e si è connotato con un’identità molto precisa. Sono stato molto felice dell’invito fatto loro dalla Sagra Malatestiana e della proposta di lavorare su Harawi, che non ha nulla a che vedere con le pratiche musicali che i Santasangre hanno sviluppato, e sono molto curioso di vedere la reazione del pubblico dei Santasangre di fronte a questo progetto. Seguire gli artisti significa accompagnare il pubblico ma anche chiedere agli operatori e alla critica una maggiore duttilità nel comprendere questi slittamenti. Le pratiche teatrali, anche quelle più di rottura se hanno bisogno di momenti di comunitarismo per trovare un’identità, non possono non confrontarsi con un universo della creazione artistica che è più ampio, che è vitale, che è nutriente. Spostarsi su altri territori ci fa bene, ne abbiamo bisogno, perché la realtà ha una complessità che non riusciamo a cogliere. Il festival vuole raccontare questo, nella diversità e nell’integrazione».
Grandi artisti internazionali, giovani danzautori, estetiche differenti e spazi molto diversi fra loro. Per un festival che restituisce la molteplicità del contemporaneo. «Non abbiamo mai voluto essere monoestetici, abbiamo voluto creare uno spettro generale, ma per noi è necessario mettere insieme traiettorie diverse. Romaeuropa è un festival della città di Roma, che riflette sulle questioni urbane di una grande città e cerca di collaborare con tutti quegli spazi dove è possibile tessere dei rapporti, considerando sempre i progetti degli artisti. Mettiamo in vendita 35mila posti, ai quali aggiungiamo gli ingressi alle mostre, e vogliamo dare l’opportunità di seguire tempi diversi. Articolarsi è essenziale. Com’è importante accompagnare artisti, pubblico e operatori, vogliamo anche accompagnare la dilatazione del tempo e degli spazi».