Recensione a Trisha Brown Dance Company
Da una creazione del 2011 si passa a una storica del 1978; tra salti temporali si scalano poi gli anni in maniera cronologica arrivando al 1990, per rituffarsi piacevolmente nel 1980 prima di concludere tornando al presente: Trisha Brown ha portato sul palco del Teatro Olimpico per il Festival Romaeuropa e contemporaneamente in rete per quanti seguivano la diretta streaming su Telecomitalia grazie alla collaborazione con Metamondi, cinque significativi lavori con la sua Trisha Brown Dance Company.
Un appuntamento imperdibile per gli appassionati: icona della danza postmodern, il nome di Trisha Brown è legato alla storia coreutica degli Stati Uniti, dove durante gli anni ’70 ha iniziato a sperimentare, allontanandosi dallo stile classico e moderno, tracciandone uno personale che l’ha resa poi famosa in tutto il mondo.
In una serata a lei dedicata, la coreografa mostra l’evoluzione del suo stile in maniera apprezzabile: non inizia con il mettere in scena dapprima Watermotor, ossia il solo considerato da tutti la sua coreografia-manifesto; la Brown vuole raccontare sin da subito dove la sua ricerca l’ha condotta. Un gusto barocco pervade così il pezzo Les Yeux et l’amê, dove la musica estratta da Pygmalion di J.P. Rameau guida le coppie di giovani ballerini in una dolce armonia fatta di leggerezza e sinuosità, coadiuvata dagli stessi morbidi vestiti di seta grigia: l’eleganza dei movimenti si confronta con la precisione dei passi e non disturba la lieve asincronia che si crea ogni tanto tra la singola coppia e le altre. Da due si passa a tre per poi arrivare a quattro danzatori che contemporaneamente sollevano le proprie partner: solo nell’assenza di musica – pochi secondi – non vi è contatto tra i corpi e i ballerini disposti in una specie di fila diagonale si alternano di postazione come fossero risucchiati da una forza centrifuga interna per subito ricomporre un ordine.
Se per Les Yeux et l’amê Trisha Brown ha lavorato a una composizione, con Watermotor si va a un solo di pochissimi minuti: creato nel 1978, questo pezzo è intenso e minimale, spoglio e senza orpelli, musica, scenografia e disegno luci; tutto è affidato alla bravura del performer che compie continui cambi direzionali non solo esterni, ma anche interni al suo corpo, da cui fuoriesce un concentrato di energia sempre perfettamente controllato.
Dopo aver fatto assaggiare due lavori molto diversi tra loro, Trisha Brown Dance Company presenta al pubblico romano un gioiello: Foray Forêt, creazione del 1990, è una coreografia complessa, curata in ogni suo minimo dettaglio. Qui protagonisti non sono solamente i danzatori: la coreografa, amante e attiva anche sul fronte dell’arte visiva, si è avvalsa della collaborazione di un artista di eccezione, Robert Rauschenberg. È stato quest’ultimo infatti a curare vestiti, in uno stile cyberg-arabesco e il disegno luci (firmato a quattro mani con Spencer Brown) che lascia inizialmente in penombra e in controluce i corpi danzanti per poi creare con il fondale magici giochi romantici e rossastri. A completare e rendere intelligentemente dissonante questa composizione sognante ci pensa la musica: la Brown chiede infatti la collaborazione della Stradabanda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio diretta da Paolo Montin che suona live ma fuori dal palcoscenico, percorrendo i corridoi esterni alla platea e mai mostrandosi. L’effetto è quello di un suono ovattato e proveniente da lontano, da un altro pianeta: c’è uno spostamento di percezioni sonore create dalla musica popolare alternata a pause e silenzi, mentre in scena la coreografia procede per accumulo e ripetizione con movimenti al limite delle quinte da dove sbucano a tratti braccia o corpi tesi al sollevamento. La dissonanza smette nel momento in cui entra una figura diversamente vestita: con abiti morbidi e leggiadri, sembra un angelo snodato che ristabilisce armonia con le sue braccia lunghe, protese verso l’alto.
E l’amore di Trisha Brown verso l’arte visiva si può notare anche in un altro spettacolo storico che la compagnia porta sul palco di Roma: Opal loop / Cloud Installation #72503 nasce infatti nel 1980 in collaborazione con l’artista Fujiko Nakaya e il suo lavoro fatto di nebbia e fumo che avvolge i quattro danzatori in scena. Sembrano ombre sospese in un’atmosfera onirica e sognante contrassegnata da una release technique da manuale, in un gioco sulla ripetitività dove ognuno danza per sé, seguendo ciò che il proprio corpo suggerisce e stimola nella ricerca del movimento.
La serata si chiude con l’ultima coreografia creata da Trisha Brown, debuttata il 5 ottobre a Parigi, dal titolo I’m going to toss my arms – If you catch them you’re yours dove la leggerezza e l’armonia raggiungono i massimi livelli. Un continuo protendere delle braccia verso l’alto, un allungamento e una scioltezza che trovano complici dei movimenti anche gli abiti, camicie bianche che diventano svolazzanti grazie all’uso di grandi ventilatori piazzati sulla scena dall’artista Burt Barr. I corpi morbidi e rilassati perdono il loro peso mentre il musicista Alvin Curran suona il piano: un vento piacevole sembra accompagnare questo flusso in un’armonia estetica ed estatica.
Trisha Brown Dance Company non può che confermarsi ancora oggi come una delle più importanti compagnie al mondo. E se avete perso questo evento eccezionale potete sempre vederlo e rivederlo fino al 31 dicembre alla pagina web di Metamondi.
Visto al Teatro Olimpico per Romaeuropa Festival, Roma
Carlotta Tringali