Recensione a Romeo e Romeo − Teatro Instabile di Aosta
Tra amicizie (reali e virtuali) e rapporti di lavoro, il mercato offre sempre più possibilità per ritagliarsi quel tempo necessario per riflettere su se stessi − basti pensare alla riscoperta/scoperta delle discipline orientali e ai nuovi percorsi tracciati dalla psicologia occidentale. Eppure, banalmente, oggi ci si trova a districarsi tra quella che è la nostra vera interiorità e quella che invece è il frutto di condizionamenti sociali e mediatici, in un labirinto di specchi all’interno del quale è difficile riconoscere con certezza la propria immagine. Riecheggia nella mente “lo stadio dello specchio” descritto dal filosofo e psichiatra francese Jacques Lacan: tra i sei e i diciotto mesi il bambino, in braccio alla madre, davanti allo specchio reagisce dapprima all’immagine come se appartenesse a un Altro reale, e solo nel momento in cui incrocia lo sguardo della madre nello specchio, riconosce nel suo riflesso la sua immagine. È quindi in presenza di un elemento esterno (la madre) che l’infante si riconosce ed accetta. Ed è in un analogo gioco di riflessi e tentativi di ri-conoscersi che ha inizio Romeo e Romeo, nato dalla collaborazione tra la compagnia del Teatro Instabile di Aosta e la regista Daniela De Panfilis: un uomo rincorre l’immagine di un essere umano, un corpo che, coperto dalla maschera e da un lungo vestito nero, si muove sulla scena, sinuoso e sensuale, in una danza quasi sciamanica, in grado di disegnare curve dal forte potere ipnotico. Dall’incontro tra la maschera e l’attore, gli interpreti Eugenio Di Vito e Marco Augusto Chenevier innescano un percorso che ripercorre a balzi la creazione della propria individualità, muovendosi in un reticolo di riferimenti (tra cultura alta e bassa, se ancora si vuole mantenere una distinzione di “genere”, e non qualitativa, delle forme espressive) ai quali gli spettatori possono aggrapparsi per seguire il vagare di questi amanti tra passato e presente. Se infatti tutto ha inizio dal testo shakespeariano di Romeo e Giulietta, la linea drammaturgica riesce a condurci in un viaggio senza tempo, fatto di ellissi e flashback che ripercorrono il background culturale di più generazioni: partendo dal testo del drammaturgo inglese, si passa alla Francia della Rivoluzione con Lady Oscar e André, all’Ottocento cupo e grottesco di Frankenstein e della sua creatura, per poi ritornare a quello dei due innamorati veronesi che hanno ormai attraversato i secoli, fissandosi nell’immaginario come allegoria di Amore. Anche se di Giulietta in questo lavoro non ne rimane alcun segno di passaggio: unico vero protagonista, Romeo, nella duplice immagine dei due interpreti, il cui nome compare anche in quelle parti di testo che vedrebbero interpellata la nostra cara Capuleti.
Eppure, nonostante la compagnia dica che il lavoro porti «in scena con intensa leggerezza, ironia e drammaticità un duetto che parte dalla tragedia shakespeariana, per scivolare in maniera suggestiva nella tematica dell’amore omosessuale, nel conflitto di un uomo che si innamora di un altro uomo», è un interrogativo importante quello che risuona nella mente: e se Romeo altro non stesse cercando che Romeo, ovvero se stesso? E se quella coreografia che vede i due protagonisti muoversi all’unisono rappresentasse un ricongiungimento con il proprio Io, sepolto, ormai nascosto? Oltrepassando lo stereotipo dell’anima gemella in grado di completarci, è forse questo bisogno spasmodico di comprendere noi stessi che si va rafforzando col procedere della messa in scena, tra picchi di profonda poesia, comicità e metateatralità, il tutto legato da “dissolvenze in passi di danza”.
Nonostante la struttura vicina alla frammentarietà dello zapping televisivo, Romeo e Romeo ci offre un palinsesto estremamente coerente e intelligente, che mai lascia cadere l’attenzione e la tensione dello spettatore. Grazie alla grandissima abilità dei due interpreti nell’impossessarsi di moduli interpretativi differenti − muovendosi tra cabaret, recitazione drammatica, danza e mimo − lo spettatore si trova immerso nelle pagine di un saggio sull’Amore: un sentimento che trova sempre il suo epicentro nell’interiorità di ciascuno di noi e le cui manifestazioni altro non sono che una proiezione del nostro Io. È lo stesso Lacan ad associare il godimento all’immagine di sé: d’altra parte «l’investimento del bambino si attua prima ancora che sul proprio corpo, percepito come frammentato, sull’immagine completa dello specchio, sull’Altro riflesso nello specchio». Questa prima identificazione − immaginaria − è due volte alienante, in quanto legata allo sguardo della madre: in assenza di questo secondo sguardo, il bambino non sarebbe in grado di riconoscersi. La realtà del corpo è quindi sostituita dall’immagine del corpo e ciò che viene coinvolto non solo è l’Altro nello specchio, ma è anche il desiderio di quell’Altro stesso. Ed è in questo stato di confusione tra il sé e l’Altro, in un movimento di pulsioni che dall’esterno si proiettano all’interno e viceversa, che il nostro Romeo, quello del XXI secolo, si trova a rincorrere i bagliori di quel riflesso, nel tentativo di rompere quello schiacciante senso di frammentazione che gli impedisce di riconoscersi in quanto Individuo.
Visto al Teatro de LiNUTILE, Padova
Giulia Tirelli