Rieccoci con un appuntamento che ormai è diventato baluardo della scena contemporanea e rapporto con il territorio, un festival che da 12 anni combatte una lotta quotidiana e costante contro e per la sua terra. «È all’interno di questa realtà che prendono forma storie di ordinaria violenza domestica e un’umanità desolata, vittima di tradizioni arcaiche in un mezzogiorno sgretolato nei sentimenti e nei valori». Così recita la prima pagina del sito della compagnia Scena Verticale che – capitanata da Dario de Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano – dirige il festival con costanza e incredibile perizia, sapendo coagulare attorno a sé uno zoccolo duro di pubblico che, proprio all’interno di “questa realtà”, resta ogni anno fedele. Già perché di pubblico si parla, Primavera dei Teatri è uno di quegli appuntamenti dove il pubblico lo incontri – un pubblico formato sia da spettatori che da operatori del settore – ma in generale la rassegna ha sempre trovato spazio per tutti. Un equilibrio che non ci si aspetterebbe da una compagnia così alla ribalta sulla scena nazionale, un equilibrio conquistato a fatica e che viaggia sulla corda tesa tra il mondano e modaiolo teatro contemporaneo e la concretezza del reale, dello spettatore medio, di un territorio difficile da conquistare. Così, negli anni, la programmazione messa in gioco dai co-direttori ha sempre stupito, donando spazio a giovani compagnie emergenti, ad affermati spettacoli d’impianto classico, ai gruppi calabresi e al teatro dialettale, amalgamando tutto all’insegna della spontaneità. Quest’anno il programma fa fronte alla crisi, punta sulle giovani compagnie e subito si apre con due collettivi formatisi quasi per caso.
Il signor Pourceaugnac foto di Camilla Mastaglio
Punta Corsara era nel 2007 un progetto della Fondazione Campania dei Festival, un percorso per attori, danzatori e organizzatori e tecnici napoletani, tredici dei quali oggi sono compagnia e associazione culturale. Sotto la regia di Emanuele Valenti questo gruppo di giovanissimi porta in scena al Teatro Sybaris ore 20.30Il Signor Pourceaugnac una rivisitazione di Molière, sporcato dalla commedia dell’arte napoletana e intriso della più cruda vita reale. Un viaggiatore arriva a Napoli per sposare una giovane donna, ma la città lo respinge nei modi più impensati, intrighi, complotti e compromessi ostacolano il suo percorso di straniero in una città a lui straniera. Tutto condito da un pizzico di sarcasmo e comicità.
A seguire alle 22.15 nella Sala 14 del Protoconvento Che disgrazia l’intelligenza! Sotto la regia di Alessio Pizzech si riunisce un gruppo d’attori; un incontro fortuito, umano e artistico che li porta a cimentarsi con un testo classico tratto da Griboedov. Caskij è il protagonista di un viaggio di andata e ritorno dalla sua terra, un ritorno amaro in una terra non più ospitale, dove ciò che era amore diviene opportunismo e violenza. Il mondo della sua infanzia si è ribaltato e con esso i suoi valori, l’ingegno è un difetto, una capacità pericolosa e come tale va eliminata. Un testo che incrocia pensieri ormai all’ordine del giorno, in un’Italia governata da chi fa a botte con la giustizia, e dove i media puntano il dito contro chi prova ad alzar la testa, dove la menzogna diventa verità.
L’importante è non mentire mai al proprio pubblico, insegnava Frie Leysen organizzatrice di Theater der Welt, solo così resterà fedele; speriamo che anche quest’anno si rinnovi questo sodalizio, tra palco e platea.
Il Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, che ha tenuto occupato il Tamburo di Kattrin per tutta la durata della rassegna si è concluso dopo aver registrato un gran successo tra spettacoli di qualità, presenza di tutta la stampa nazionale e pubblico in gran numero. Un Festival che, pur non avendo avuto un aiuto economico neanche dopo l’assegnazione del Premio Speciale Ubu 2009, si è fatto forza ed è riuscito ad ottenere un grande risultato. Diciasette spettacoli per otto prime nazionali non sono pochi se si pensa che Primavera dei Teatri si è svolto dal 30 maggio al 5 giugno: un fitto calendario di appuntamenti che hanno sorpreso per qualità e tematiche impegnate trattate, con una grande attenzione alla drammaturgia come poco in Italia oggi si può trovare. Uno staff di eccezione è riuscito ad organizzare in modo impeccabile un festival di grande valore, umano in primis. I direttori artistici Dario De Luca e Saverio La Ruina, insieme a Settimio Pisani – parte organizzativa della loro compagnia Scena Verticale –, hanno fatto un lavoro che va premiato per costanza, dato che sono arrivati alla XI edizione di questo Festival con tutte le difficoltà annesse a una ragione, la Calabria, dove non è facile far riuscire a sopravvivere queste iniziative. Il Tamburo di Kattrin, dopo aver fatto da giornale di bordo con recensioni, presentazioni, video interviste e approfondimenti e aver visto tutti gli spettacoli proposti nel Protoconvento di Castrovillari, ha deciso di fare delle segnalazioni speciali a delle pièce che hanno più colpito la nostra redazione.
Per il miglior attore merita una segnalazione Fabrizio Gifuni con L’ingegner Gadda va alla guerra, in quanto è riuscito a dar voce e corpo a parole complesse come quelle di Gadda, rendendole comunicabili. Segnaliamo invece Paolo Mazzarelli e Lino Musella per la miglior interpretazione: in Figlidiunbruttodio la loro capacità di dar vita a situazioni e personaggi totalmente differenti merita un plauso. Per la miglior performance e musica una nomina speciale va a Alessandro Bedosti per i suoi movimenti corporei più che efficaci nel veicolare una trasformazione da uomo a insetto e ai paesaggi sonori di Elicheinfunzione: entrambi hanno reso lo spettacolo La Metamorfosi di Città di Ebla carico di forti sensazioni. Trattato dei manichini colpisce invece per le sue luci che riescono a regalare momenti di poesia e magia sposandosi perfettamente con i corpi delle performer in scena. Segnaliamo per la drammaturgia quello che per i premi ufficiali sarebbe un ex-aequo: il testo di Variazioni sul modello di Kraepelin di Davide Carnevali merita un’attenzione particolare per la capacità di affrontare una malattia come il morbo di Alzheimer non in modo drammatico, ma intrecciando surrealtà e realtà in un gioco di ricordi; l’altra drammaturgia da non far passare inosservata è L’Italia s’è desta di Stefano Massini, per il lavoro di ricerca e di riscrittura di fatti di cronaca presentati in maniera maledettamente sarcastica e amara. Altra segnalazione speciale va a Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie di Teatro Sotterraneo: una regia che trova nella forma di collettivo il suo punto di forza. Come miglior spettacolo, infine, indichiamoLa Borto di Saverio La Ruina: per la sua profondità, per il suo toccare l’anima e stritolarla, lasciando il pubblico carico di emozioni perfettamente visibili all’uscita dello spettacolo.
Intervista a Gipi (Gianni Pacinotti) e Giovanni Guerrieri de I Sacchi di Sabbia a cura di Camilla Toso
Un connubio decisamente riuscito quello tra Gipi e I Sacchi di Sabbia. Quando è scattata la scintilla per lavorare insieme e fare ESSEDICE?
Giovanni: Io e Gipi abbiamo ricominciato a frequentarci l’anno scorso quando lui faceva La mia vita disegnata male e l’abbiamo fatto nel nostro piccolo teatrino… Gipi aveva ripreso gusto nello stare in scena per sentire l’ebrezza del palco. S. ci piaceva perché Gianni non lo aveva ancora eseguito sulla pagina, ci sembrava un lavoro interessante, che avremmo potuto affrontare insieme.
Gipi: Alcune cose che stanno nel finale dello spettacolo per esempio, nel libro non ero riuscito a disegnarle, erano rimaste solo testo sulla pagina bianca. L’idea di farle diventare immagine era forte, poi mi interessava vedere come sarebbe diventato una volta preso in mano da altre persone. Lui ha interpretato mio padre, che non è una cosa semplice. Io non gli ho mai detto niente di com’era mio padre. È stato un piccolo miracolo.
Durante lo spettacolo Gipi è il narratore, pur non essendo un attore la sua presenza scenica è fortissima. La complicità che avete sulla scena è incredibile, quanto di tutto ciò è improvvisato e quanto invece scritto?
Giovanni: Sì, gran parte dello spettacolo è improvvisazione. Gipi ha un percorso entro il quale muoversi e noi con lui. In generale abbiamo dei punti fissi che dobbiamo rispettare ma il contenuto è mobile.
Gipi,trattandosi delle tua vita, possiamo dire che è un’improvvisazione sui ricordi quella che fai?
Gipi: Sì, in alcune scene sì. Le parole sono improvvisate. È facile improvvisare su un sentimento che è molto radicato, una cosa che fa parte della tua esistenza e della tua crescita. Non credo di conoscere niente di meglio che l’amore della mia famiglia. Quindi posso parlarne prendendo vie diverse però so dove devo andare, dove devo portare il racconto.
Come è stato il passaggio dalla dimensione del fumetto a quella del teatro? Quest’ultima sembra essere più libera, ma può essere anche molto vincolante avendo a che fare con delle persone in carne ed ossa…
Gipi: Sono due mezzi chiaramente diversissimi, ma c’è una cosa che li accomuna: entrambi sono nati improvvisando pagina dopo pagina e quindi, nel caso di ESSEDICE, momento per momento. Per me questo è fondamentale, per mantenere una freschezza e non appesantire una tematica che potrebbe essere pesante. Quindi, se c’è una vicinanza tra i due lavori è questa: entrambi si sono svolti man mano, senza sapere dove saremmo andati a finire.
Le maschere di Ferdinando Falossi riportano in scena il fumetto e donano vita a “personaggi-ricordo”. Quando avete deciso di utilizzare questo mezzo espressivo?
Gipi: L’idea dei tableau vivantes nacque da Giovanni, fin dall’inizio. All’inizio era molto confusa, ma l’idea era quella di vedere dei disegni che si muovevano.
Giovanni: Conoscevo Ferdinando Falossi e sapevo che era l’unica persona che poteva aiutarci, non solo tecnicamente, ma anche dal punto di vista del processo. Non si trattava solamente di una maschera da indossare, ma era necessario fare tutto un processo attoriale per portarla in scena, e lui ci ha aiutato incredibilmente.
La struttura dello spettacolo è la stessa del fumetto: una voce narrante con le immagini da sfondo… L’intimità è la stessa o cambia qualcosa dalla pagina alla parola?
Gipi: La mia voce, è la voce fuori campo che racconta, equivale alla parte scritta dei miei fumetti. Il grado di intimità che si raggiunge con la scrittura non è minore di quello che si raggiunge con la parola.
Raccontare la vita di tuo padre significa raccontare anche episodi della seconda guerra mondiale…
Gipi: Certo, ma non è stata una scusa per raccontare la guerra. La cosa più importante, quando ho scritto il testo originario era sentire mio padre accanto. E il modo più presente in cui mi è stato vicino sono stati i racconti, non la vicinanza padre-figlio. I momenti più belli della mia famiglia, erano quando mio padre, a casa, raccontava le sue storie. Siccome le cose che raccontava erano sempre quelle, quando ho iniziato a scrivere il libro, mi è venuto spontaneo scriverle. E soprattutto non dire “Esse diceva”, ma di scrivere al presente. Per me era la chiave fondamentale, non fare un racconto dove ci fosse nascita, vita e morte di una persona, ma dove ci fosse una sottolineatura della mia convinzione che le cose non muoiono mai. Era per me una cura: io dico che mio padre non è passato, ma sono io che non riesco a vederlo, perché soffro di quel male che hanno gli esseri umani di subire il tempo invece che vederlo in una dimensione fisica. In quel modo mio padre non era nato e morto, mio padre “è”. E quindi il dolore che io provavo per la sua perdita diventava un’altra cosa, diventava una nostalgia come si può avere di un amico che è lontano e non di qualcuno la cui vita perde senso in quanto finita. Quindi ho iniziato a scrivere al presente perché per me era quella la battaglia contro il tempo e contro l’idea della morte. Speriamo di averla riportata in questo spettacolo.
Intervista a Dario De Luca / Scena Verticale – a cura di Silvia Gatto e Camilla Toso.
Lo spettacolo che avete presentato al Festival Teatri delle Mura, si intitola U Tingiutu. Un Aiace di Calabria; qual è il rapporto con il mito in questo Aiace che diventa altro?
Il rapporto nasce innanzi tutto dalla lettura: i miti sono sempre fonte di grande ispirazione. Rileggendo l’Aiace, in particolare, mi è sembrato di essere in Calabria: i dialoghi tra i guerrieri sul corpo di Aiace, la diatriba tra “Era un uomo di onore, o non lo era. Facciamolo sparire, il suo corpo non merita sepoltura”. Mi sono venuti in mente tutti i morti per lupara bianca, di cui non si sa che fine abbiano fatto. Il senso dell’onore, poi, mi raccontava un nostro modo, che è anche della buona Calabria, perché noi nasciamo con una grande attenzione all’onore e alla famiglia. Il crinale per passare dall’altra parte, nell’estremizzazione di questo concetto, è veramente sottile.
La strage di innocenti che compie Aiace perché non gli hanno dato le armi di Achille mi ha ricordato tante stragi di innocenti, fatte in Calabria, per regolamenti di conti, o per errori. A Duisburg, per esempio, qualcuno era semplicemente lì per caso, ed è stato ammazzato. È stato facile quindi pensare alla Calabria, provare a capire come attualizzare la tragedia greca, cioè come darle la stessa forza, forse anche catartica, che aveva nel quinto secolo avanti Cristo. Come poter fare il tragico oggi.
È la prima volta che ti rapporti con il mito Classico?
Sì, con i miti antichi è la prima volta, anche se, con una trilogia Calabro-Shakespeariana, abbiamo già affrontato dei classici, riscrivendoli completamente. È capitato nel 2000 con Hardore di Otello, Amleto ovvero cara mammina, e un secondo Amleto che era Kitsch Hamlet. Questi testi diventano funzionali per raccontare la nostra Calabria attraverso un discorso più vasto.
L’Aiace, inoltre, offriva una struttura drammaturgica particolare. Nella scrittura sofoclea del mito, per la prima volta rispetto alle tragedie pervenute, Aiace ha dei monologhi reali, da solo. Nelle tragedie grecahe anche i lunghi monologhi sono sempre supportati dal coro – Medea, per esempio, è comunque sostenuta dal coro, che commenta e giudica. In Aiace, invece, non c’è nessuno in scena: decide di stare in un luogo da solo dopo aver capito il suo errore; non c’è il coro dei marinai – sono tutti in cerca di lui. Questo è stato, per me, un elemento fondamentale, che offriva un motivo vero, coerente, per creare questa forma monologante. Il mio Aiace, infatti, è distanziato dagli altri, è praticamente da solo, perché, pur torturando Ulisse, non gli dà la possibilità di parlare. Mi sembrava quindi attinente dargli questa forma di monologo.
In questa vostra tragedia moderna quello che manca, rispetto a quella antica, è la figura eroica…
Certo, non ci sono più eroi. E forse non lo erano nemmeno loro; sono entrati nell’immaginario comune per le generazioni a venire come degli eroi, come dei miti. Sono come personaggi di riferimento di qualcosa, ma in realtà facevano la guerra: erano comunque portatori di morte, come lo sono i nostri boss di oggi. Quindi questo abbassamento alla terra, renderli più grassi, meschini, cinici, arroganti e violenti, racconta una nostra mala società. Ma non penso che i mitici guerrieri greci fossero esattamente lontani da come li abbiamo dipinti noi.
Partendo dall’Aiace, come si è poi sviluppato il testo, la reinvenzione del mito e la costruzione drammaturgica?
La struttura è nata per una mia scelta, determinata da un dato di fatto: l’Aiace sanno tutti come va a finire, con la morte del protagonista. Allora mi sono domandato come spiazzare il pubblico, e la risposta che ho trovato è stata: smontiamo lo spettacolo. Spezziamo la storia come tante tessere di puzzle, le buttiamo sul tavolo e poi ognuno le ricompone a suo piacimento. Da questo processo è nata, quasi subito, una riflessione sul cinema, con la ricostruzione a quadri che vanno avanti e indietro nel tempo. La scena iniziale è la scena finale: i primi 18 minuti dello spettacolo sono, in realtà, l’ultima scena. Iniziamo con la fine, per poi proseguire con un continuo sbalzo temporale. Stabilito ciò, tutto è stato pensato come al cinema, con un po’ di iper realismo – le pistole, il tipo di recitazione. Anche la musica è stata commissionata e composta come la colonna sonora di un film, con tappeti sonori spesso costanti sotto il nostro parlato. Ho chiesto ai musicisti di pensare a dei temi, quello del guerriero, quello della tortura, che ritornano più volte. Proprio come nei film.
Anche le tapparelle, che calano dopo la prima scena, diventano un filtro, uno schermo cinematografico, ma non solo. In realtà il concetto iniziale era creare la quarta parete per scagliare un piccolo atto d’accusa nei confronti dello spettatore che vede la ‘ndrangheta ma fa finta di niente – la vediamo, ma attraverso le tapparelle, e facciamo finta che non ci appartenga.
Da quando calano le tapparelle ha inizio la tragedia, c’è un cambio di cifra stilistica nello spettacolo.
A proposito di tragedia, per l’anteprima calabra è stata catartica questa messa in scena? Come i tuoi corregionali hanno accolto questo lavoro?
Credo di sì. Naturalmente ci sono maggiori deterrenti in Calabria; c’è paura che quello che stai raccontando sia duro, e faccia male. Abbiamo avuto una bellissima accoglienza calorosa, ma sentivamo che c’era un irrigidirsi del pubblico, un desiderio di sottolineare che “non siamo tutti così. Non è solo questa la Calabria”. Qualcuno dice che c’è una Calabria produttiva – ed è verissimo; Scena Verticale fa parte di questa Calabria – ma non si può nascondere la testa sotto la sabbia. Quando abiti in quella terra inizi ad avere delle urgenze, ti nasce il bisogno di non stare sempre con la bocca chiusa; provi a dire una cosa e la dici. Forse hai il diritto di dirla proprio perché abiti in quei luoghi, non sei l’artista andato a vivere altrove. Noi abbiano sede a Castrovillari, per cui il nostro è anche un bisogno di dire per cambiare perché questa realtà la viviamo, con le nostre famiglie, quotidianamente.
Uno spunto che si palesa come un lampo in testa, un’immagine, una frase: tenerla e metterla da parte, essere pazienti e aspettare. Se questo frame è buono, il giorno dopo – o meglio, i giorni dopo – crescerà e l”intuizione diverrà idea, soggetto, storia concreta.
Nel primo giorno di workshop di scrittura drammaturgica, che si tiene al Festival Primavera dei Teatri, l’insegnante d’eccezione Edoardo Erba incontra i partecipanti e sottolinea come sia necessario avere un vocabolario comune per intendersi e non cadere in incomprensioni. Il drammaturgo di fama nazionale – molto conosciuto anche all’estero grazie alla traduzione dei suoi lavori in diverse lingue – puntualizza come tutto ciò che verrà detto sarà opinabile, perché il suo punto di vista è quello che, poi, viene confermato e riconfermato in tutti i suoi scritti ma non è ovviamente il solo possibile. Proprio per questo era stato chiesto ai partecipanti all’iscrizione, di leggere almeno una sua pièce per capire meglio lo stile e la poetica di un autore che con ironia e sarcasmo affronta la realtà.
Erba specifica e offre le coordinate comuni che serviranno ad affrontare un laboratorio molto concentrato dato la sua breve durata di sei giorni. Coordinate che secondo lui sono anche alla base per iniziare la stesura di un testo. Innanzitutto abolisce la parola “tema”, sottolineando come questo non generi quasi mai un’idea ma invece si risolva in una bolla di sapone, una chiusura da cui è difficile trovare interessanti modi di approfondimento. Ma soprattutto l’autore afferma come la scrittura non sia un’attività che si improvvisa: bisogna allenarsi, come ci si allena per una gara importante. E qui vengono in mente i due protagonisti di Maratona di New York – il dramma che lo ha reso celebre – che tentano di prepararsi al grande evento, ma in realtà non hanno una vera e forte volontà: il loro allenamento faticoso viene esorcizzato in diverse modalità che ovviamente non gli permetteranno di arrivare preparati alla dura gara. Viene anche in mente Orhan Pamuk, il premio Nobel alla letteratura, che in più di una dichiarazione ha espresso come scrivere non sia per lui qualcosa di automatico, ma di come abbia bisogno di dedicare ogni giorno alla pagina bianca molto tempo, come se fosse un rituale magico dove le parole prendono forma, i personaggi prendono vita.
Dopo essersi presentato e definito come un “onnivoro” per aver lavorato in diversi campi, dalla televisione al teatro, dalla pubblicità alla radio, Erba lascia spazio ai partecipanti: ognuno si presenta, nella sua diversità e di fronte alla tanta curiosità che si respira in mezzo a questo gruppo eterogeneo per età e passioni. Quasi tutti interessati alla scrittura e al raccontare qualcosa della propria vita, vengono invitati nella seconda parte della giornata ad esprimere che cosa li ha colpiti durante le presentazioni: una frase, una curiosità, un modo di essere, di interagire o semplicemente di non parlare. Informazioni più disparate o semplicemente situazioni misteriose, sottese e non esplicitate, iniziano ad essere prese come spunto e guidano i partecipanti in un percorso fatto di proprie immagini mentali, di storie ricostruite nella propria testa: Erba adotta un ottimo metodo lavorativo che si prospetta molto interessante. Non resta che attendere per vedere come si svilupperà il materiale immaginifico raccolto…
Teatro Sotterraneo ha aperto Primavera dei Teatri con Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie, spettacolo che ha riscosso grande successo anche qui a Castrovillari, dove ogni anno si ripete il miracolo di questo incredibile Festival, che dopo undici anni di lavoro e costanza ha creato un pubblico affezionato e assiduo. Abbiamo incontrato Daniele Villa dramaturg e portavoce del gruppo per approfondire alcune tematiche del lavoro della compagnia fiorentina.
In questa breve intervista alcune riflessioni intorno ai punti cardine della poetica della compagnia, dai riferimenti bibliografici al processo creativo collettivo insieme a un parere sul senso di appartenenza alla cosiddetta “Generazione T”.
Il vostro nuovo lavoro ruota intorno all’origine della specie mentre quello precedente era basato sulla sua fine. Da dove siete partiti per questo lavoro su tematiche così opposte e complementari?
Queste due tematiche sono collegatissime, sia a livello nominale, che distributivo, che di linguaggi, sono un dittico a tutti gli effetti. Lo definiamo “Dittico sulla specie”: la prima parte era sull’estinzione, sull’esaurimento, quindi Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie; la seconda, invece, sull’origine della specie. L’Origine delle specie_da Charles Darwin è un lavoro basato sull’opera più importante di Darwin – l’opera che ha fondato il darwinismo nel mondo – e su tutte le problematiche e i conflitti che ne conseguono. Un lavoro che si allarga al concetto di origine in senso più ampio, saccheggiando la scienza: dall’immaginario del laboratorio scientifico alle sperimentazioni sul subatomico, sul big-bang, fino ad una riflessione più poetica. Quello che ci interessava molto con Dies Irae, era di interrogarci sulla scomparsa, quindi di lavorare teatralmente facendo un discorso di tipo archeologico. Mentre cominciavamo a lavorare a Dies Irae abbiamo preso un accordo di collaborazione con il Metastasio – lo Stabile della Toscana – con il quale abbiamo scelto di lavorare su un’opera, e di confrontarci con un testo letterario o di altro tipo. Abbiamo scelto immediatamente l’origine delle specie di Darwin che ci permetteva di confrontarci e di fare un discorso ciclico creando quindi un dittico.
Oltre a Darwin quali sono i vostri riferimenti bibliografici?
I riferimenti sono sempre una domanda molto complessa specialmente per Dies Irae, composto da cinque episodi: nel primo episodio ci sono riferimenti all’arte visiva, mentre nel secondo il riferimento è chiaramente radiofonico, quindi a tutta una serie di progetti cui abbiamo partecipato, il terzo episodio riguarda la fotografia, quindi abbiamo per esempio analizzato Walter Benjamin.
Si tratta di una mappatura molto complessa. Per l‘Origine delle specie abbiamo saccheggiato tutta l’opera di Darwin con qualche deviazione in campo scientifico, con grande cautela, – insomma non siamo degli studiosi di fisica quantistica – però volevamo interrogarci sul big-bang come concetto di origine e sul rapporto con il cosmo e l’extraterrestre. Questo è stato uno degli spunti che abbiamo trovato nel campo scientifico con particolare riferimento a Darwin. Per Dies Irae, invece, abbiamo indagato tutta una serie di campi inerenti ai cinque episodi che ci sembravano parlare della fine, dell’esaurimento, della scomparsa. Quindi della specie umana come reperto archeologico e non come specie vivente.
Certamente la tematica scientifica è una delle centrali in questo periodo. Non solo per le giovani compagnie come voi ma anche per registi più affermati. Sono molti i lavori che esplorano il confine tra scienza ed arte…
È sicuramente una tensione con cui un artista è chiamato a confrontarsi. Ci sono due livelli: uno per il quale la scienza sta superando i limiti noti e riconoscibili della creatività umana – nel senso che ci si sta avvicinando veramente a creare la vita – questa è un tipo di tensione generatrice. L’altro livello riguarda le nostre ossessioni: siamo ossessionati nella scienza – ancor di più nell’immaginario collettivo – dall’idea dell’auto-annientamento. Questi sono due poli nei quali ci si muove continuamente, evidentemente gli artisti sentono il bisogno di confrontarcisi, attraverso la propria poetica e le proprie ossessioni. Il nostro gruppo ha sempre avuto una particolare predilezione per la morte e l’estinzione, evidentemente è uno dei punti di incontro dei cinque componenti della compagnia.
Le vostre creazioni sono sempre firmate come “produzione collettiva”. Come funziona quindi il vostro processo creativo, come si sviluppa il lavoro?
Il processo creativo funziona secondo un metodo. A noi non piace molto sederci su un metodo fisso, per cui abbiamo costruito negli anni un modo di lavorare insieme che viene messo in discussione e di cui cerchiamo di forzare i bordi. Noi selezioniamo un campo di indagine: in Dies Irae era la fine della specie in termini archeologici e non apocalittici. Una volta selezionato attuiamo una serie di pratiche che sono l’improvvisazione, la ripresa con il video, la documentazione teorica, l’ideazione a tavolino che poi viene verificata in sala. Questo produce nei mesi, nell’anno di lavorazione, una serie di materiali che poi vengono selezionati. Quando sono pronti i materiali ci si chiude in residenza, quindici-trenta giorni, anzi due tre residenze di quindici giorni di fila, ci si chiude in sala e si fa una messa a punto.
Ma non c’è mai qualcuno che dirige le improvvisazioni, che sceglie…
C’è sempre un dato individuale, nel senso che c’è una proposta che arriva dal singolo e che viene messa in condivisione e a cui si arriva tutti insieme. Però è un discorso decisamente instabile, difficilmente uno dirige gli altri: piuttosto uno ha un’intuizione che fa chiarezza su uno specifico obiettivo e magari rappresenta due minuti di spettacolo su sessanta. Altre volte invece uno pensa di essere sulla giusta strada e viene contestato dagli altri quattro. È un processo poco direttivo e molto orizzontale. È un lavoro lento e doloroso: spesso devi difendere le tue ragioni da attacchi forti e, spesso, cose in cui tu credevi magari non arrivano a sopravvivere. È un processo di selezione naturale, perciò si presume che sopravvivano le cose più adatte all’habitat in cui si muovono. Quindi quello che va in scena è ciò che più aderisce al gruppo, rappresenta e incarna il sentire del gruppo.
Tu stesso dici che a volte il processo produttivo può essere lento. È possibile far convivere il tempo creativo con i ritmi di produzione – che in questo periodo mi sembrano accelerati in maniera inverosimile soprattutto per le giovani compagnie?
Noi ci prendiamo il giusto tempo. Fa parte della professionalità e della capacità artigianale di un gruppo sapersi confrontare con le scadenze, sapersi muovere all’interno di meccanismi più grandi di noi, che riguardano anche altri gruppi in residenza insieme a noi, o i meccanismi delle direzioni dei festival che hanno una progettualità annuale e quindi devono far quadrare i conti e i tempi. Quindi, di solito, ci prendiamo il tempo che ci serve. Ad esempio il “dittico” nel suo complesso ha preso quasi due anni di lavoro. Abbiamo cominciato a lavorare a Dies Irae dandoci un anno e mezzo, poi è entrato in cantiere anche il progetto dell’Origine delle specie e abbiamo capito come far stare entrambi i prodotti nell’arco di due anni di tempo. Quindi siamo rientrati in quella scadenza ed era il tempo che reputavamo necessario.
Cinque episodi per cinque festival… Una scelta premeditata?
È stata una scelta a priori, noi volevamo lavorare sulla serialità. È una cosa che ci ossessiona molto perché è una delle qualità che ha adottato la specie umana per raccontarsi, già in tempi antichi. Noi non lavoriamo sulla narrazione, quindi scomporre è anche più facile. Restituire un immaginario per pezzi fa compiere allo spettatore un atto interpretativo importante nel momento in cui cerca un senso comune per i vari pezzi, in cui cerca un quadro di senso per rendere unitaria l’opera. Ovviamente è responsabilità nostra dare degli strumenti, degli elementi che diano un senso di unità. Il fatto che l’opera sia scomposta e “serializzabile” – sia attraversabile con linguaggi diversi, con poetiche e oggetti diversi – ci interessa moltissimo. Quindi è stata una scelta fatta a priori: volevamo un’opera che fosse divisa in cinque parti, prima ancora di sapere che cos’era ogni singola parte, noi sapevamo che erano cinque.
È stata una scelta che ha dato un risultato interessante a livello distributivo, perché abbiamo fatto un episodio in ogni festival, che equivale a un debutto in ogni festival. La gente veniva perché c’era un episodio, uno studio che non aveva visto. A noi piace presentare studi perché abbiamo un certo tipo di rapporto con il pubblico e facciamo anche un tipo di lavoro in cui è essenziale verificare quello che si sta facendo. Non li definiamo studi perché ti protegge o tutela o perché non è un lavoro finito. In realtà il primo episodio finisce, poi il secondo, poi il terzo… Quindi è più un pensiero sulla serialità e sulla distribuzione geografica della serialità. È un pensiero anche sui festival e sul fatto di appartenere ad un circuito di proposte e di progetti.
Come gruppo vi sentite appartenere alla cosiddetta “Generazione T”?
Ci sono dei segnali che danno l’idea di un movimento che si sta verificando, non in termini politologici, per cui un movimento coeso di valori e di obiettivi condivisi in cui tutti ci si muove, con gli stessi tempi e le stesse modalità, verso obiettivi condivisi. Per movimento intendo un movimento tellurico, cioè qualcosa che sta accadendo. Secondo me noi apparteniamo ad un tempo, e il tempo è fatto di accelerazioni e rallentamenti ed è un dato di fatto abbastanza riscontrabile che ci sia stata un’accelerazione negli ultimi anni, che alcuni attribuiscono ad un’iniezione di economie, che è stata temporanea e ridotta, ma che sicuramente ha contribuito. Però è anche un’accelerazione data da una serie di proposte, quei dieci/quindici gruppi che oggi puoi incontrare in Italia, non c’erano sette/otto anni fa. Ci sono state più accelerazioni che hanno dato vita ad un fenomeno. Ecco, noi apparteniamo a questo tempo e siamo dentro a questo fenomeno che si sta verificando.