Crisi: parola di cui quest’anno molto si è sentito parlare. Nominato in campi e ambiti diversi – dall’economico al sociale – questo termine spaventa per lo più e lo si associa a momenti negativi della nostra società. La parola è giunta anche in teatro, tanto che si è appena conclusa a Venezia la rassegna Il teatro in tempo di crisi – Settimana di Drammaturgia Contemporanea.
Tre intense giornate di convegno con tanto di letture sceniche e quattro spettacoli hanno creato occasioni interessanti di riflessione circa la situazione teatrale in Italia e in Europa, con particolare attenzione alla drammaturgia. Molti sono stati gli studiosi, scrittori, docenti e artisti a intervenire in questa rassegna e a condividere le proprie esperienze e considerazioni, invitati dal direttore artistico Adriano Iurissevich e dal direttore scientifico Paolo Puppa. Sono nate discussioni di alto livello, in cui si sono analizzati il rapporto tra scena e società, la produzione e la distribuzione della nuova drammaturgia, il concetto di crisi, di pubblico e delle varie tipologie di teatri che possiamo oggi trovare. Diverse le domande sollevate e lasciate aperte, per cercare di scuotere e mettere in “crisi” il pubblico e gli stessi relatori partecipanti: torna spesso il termine “crisi” perché, oltre ad essere portatore di accezioni negative, può essere in realtà anche rovesciato e caricato di positività. È infatti di fronte a una difficoltà che è più facile reagire e tentare di trovare delle risposte. Se come sottolinea Claudio Longhi «in fondo a ogni presente c’è sempre la sensazione del baratro», Roberto Tessari specifica come la crisi sia una creatura mitica che ci fa cullare nel nostro malessere, e proprio per questo il drammaturgo francese Enzo Cormann ha ammesso come in realtà essa sia una gioia, un momento per riscattarsi e avere la forza di trovare una strada. Gerardo Guccini crede addirittura che la crisi provocata nello spettatore possa riflettersi poi nella creazione di risposte ad altre tipologie di crisi che si presentano nella società: un modo quindi di vedere – come nella celebre metafora – mezzo pieno un bicchiere, piuttosto che mezzo vuoto. Attori e drammaturghi hanno sottolineato come nel teatro sia fondamentale una scrittura che parli di noi, del nostro presente, affinché diventi uno specchio in cui riflettersi per comprendere a fondo ciò che ci circonda: una drammaturgia che parli ad un pubblico quindi, altro punto di contatto delle diverse discussioni emerse durante questi tre giorni. Un pubblico consapevole e attento ai problemi caldi di questa società che non deve cullarsi nel malessere dato dalla crisi, ma che sia capace di affrontare la realtà con positività e impegno.
Durante le tre intense giornate di convegni, discussioni, letture sceniche e tavole rotonde de Il teatro in tempo di crisi – Settimana di drammaturgia contemporanea abbiamo incontrato Paolo Puppa, rivolgendogli alcune domande non solo sulla sua direzione scientifica di questa rassegna, ma anche sul suo essere scrittore, dramaturg e performer.
In questi giorni di convegno abbiamo ascoltato diversi interventi sulla figura del dramaturg, sulla sua importanza nel processo teatrale. Cosa differenzia questa figura in Italia rispetto al resto d’Europa?
C’è una differenza sostanziale, in quanto all’estero questa parola è un mestiere, riconosciuto, garantito e spesato, mentre da noi è ancora un work in progress, nel senso che non è stato accettato fino in fondo. Il dramaturg di solito si inserisce come un mestiere aggiuntivo a delle figure fisse che sono il commediografo da un lato e dall’altro il regista; quest’ultimo utilizza il dramaturg come traduttore aggiunto che serve come trait d’union tra un sistema di un Paese all’altro, per ridurre i rischi della traduzione. Da noi c’è, da un lato, il teatro di ricerca, che è un teatro molto vivo, dove il teatro di parola è meno centralizzato e dove soprattutto la rappresentazione di testi scritti da altri è spesso irrilevante. E d’altra parte, nei teatri stabili, è il regista stesso a fare da dramaturg: non chiede l’aggiunta, i costi di una figura esterna. Il dramaturg in Italia stenta a mettere radici per il fatto che sono prioritarie le figure del regista o dell’attore-regista che fa tutto da solo.
Parlando della sua esperienza in qualità di scrittore e di dramaturg. Lei ha affrontato la rielaborazione in chiave contemporanea di personaggi della mitologia classica ma anche della tradizione biblica. Come riesce ad affidare a questi personaggi i temi dell’attualità?
Nella mia drammaturgia – una drammaturgia al plurale – ci sono anche commedie tradizionali con personaggi contemporanei. C’è un filone di drammaturgia alla seconda potenza – specialmente quella dei monologhi – dove parto dal concetto che tutto è ormai stato detto ed è solo una questione di rielaborazione, come fosse una costruzione di scritti apocrifi. Quando scrivo un testo contemporaneo con personaggi di oggi faccio molta fatica ad introdurli perché devo trovare un sistema per raccontare il loro passato, la loro situazione. Viceversa, quando prendo dei personaggi celebri, posso evitare tutto questo lavoro di flashback, partendo dal fatto che c’è una condivisione di conoscenza tra me e la sala – un po’ come il teatro antico dove la tragedia prendeva sempre dei personaggi che erano già conosciuti. Inoltre faccio l’uso di una grande metafora di Jung in cui Dio è morto, è morta la religione, sono morti i miti ma risorgono come malattie, come patologie; come la nevrosi, diceva Freud, è un’antica magia collettiva che diventa minoritaria e viene praticata dal singolo che ha una psicosi. I miei personaggi antichi, o classici o biblici o anche tolti dalla letteratura, vengono buttati allo sbaraglio nel Nordest di oggi, tra la crisi economica e insieme un certo benessere “microaziendale”. C’è qui una spaventosa solitudine delle nuove generazioni, delle famiglie abbandonate sia dal partito sia dal campanile – non c’è più quell’elemento coibente che una volta era rappresentato nel Veneto dal Pc e dall’altro dalla Parrocchia –: il benessere e la nuova famiglia “monodinamica” (non ci sono più né nonni né zii) portano a questa solitudine tra genitori e figli. Quindi queste mie mitologie tornano dalla finestra come patologie contemporanee. E poi cerco di realizzare quella metafora di Pasolini secondo cui il dialetto è morto, ma torna come lingua sporca: spesso i miei personaggi hanno un accento veneto che funziona da spiazzamento. Di recente ho pubblicato un testo, Lettere impossibili, in cui immagino grandi autori dell”800 e ‘900 da Svevo a D’Annunzio, da Pasolini a Gadda, da Ibsen a Joyce o Beckett, che sono calati in un quotidiano; invento delle situazioni apocrife in un contesto quasi piccolo-borghese, sotto forma di lettera – sono monologhi epistolari in cui questi autori diventano personaggi piccolo-borghesi, ma sono delle invenzioni verosimili.
Nel momento in cui lei scrive un testo, lei ha un rapporto con esso, anche quando è lei stesso a metterlo in scena come regista e come performer. Quando affida a un’altra persona il suo testo, che cosa cambia?
È molto più emozionante, perché in quel momento vedo il teatro come metafora della vita, vedo che cos’è la “interpretazione”. Quando sono io stesso che faccio monologhi maschili, posso dire che lo concepisco e lo “porto in giro con la carrozzina”. Quando invece lo do ad altri mi capita di avere un’emozione perché vedo la oggettività. Io in questo momento sto parlando e tu mi ascolti e mi fraintendi perché vedi di me – in termini pirandelliani – l’aspetto esterno e cogli una tua prospettiva che io non riesco a vedere. Quando poi mi mettono in scena io vedo il fraintendimento, vedo l’oggettività di ciò che sta nel mio me che diventa cosa reale. La messa in scena ad opera di un altro è rendere visibile quello che avviene ogni giorno nei rapporti interpersonali, cioè l’equivoco, il fraintendimento. È in qualche modo snervante, ma è anche straordinario perché è il sale della vita, la convivenza tra le diversità.
A proposito della rassegna Il teatro in tempo di crisi. Come la partnership tra teatro e università può affrontare la crisi: è possibile?
È una partnership allargata ad altri Enti perché l’università ha dovuto avvalersi dell’apporto della Regione – decisivo – e dell’apporto anche con il Ministero degli Esteri. Oggi organizzare con la ristrettezza economica è sempre una sfida e dobbiamo sempre ricorrere al fund raising – cioè trovare fondi. Noi siamo sempre stati abituati a stare in biblioteca e ora dobbiamo diventare dei promoter finanziari se vogliamo fare qualche cosa. Bisogna partire da questa carenza economica dell’università. D’altra parte ci sono nelle università delle nuove forze come il nuovo Rettore che ha una particolare predilezione nell’investire sul teatro a condizione che ci siano altri sponsor. È fondamentale la sinergia tra il mondo del teatro universitario e mondo accademico: parlare di teatro nelle università come fosse una civiltà sepolta o scomparsa non ha senso, bisogna mostrarlo ai ragazzi e anche farglielo fare.
A conclusione dell’intensa settimana di Teatro in tempo di crisi – che, fra incontri e tavole rotonde, spettacoli e reading, si è composta di molteplici attraversamenti della drammaturgia contemporanea italiana e internazionale – abbiamo incontrato Adriano Iurissevich, ideatore e direttore dell’iniziativa. In quest’intervista, alcuni nodi emersi dalle giornate di dibattito e di spettacolo – oltre che una nota sullo pièce che ha chiuso la rassegna, Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga, diretto da Iurissevich, che è anche interprete in scena.
“Teatro in tempo di crisi”: in questi giorni di dibattito e di spettacolo sono emersi numerosissimi spunti, provenienti dalle più varie prospettive… Volevamo chiederle quali sono – se ci sono stati – gli elementi che l’hanno sorpresa, in risposta a questo tema…
Uno dei momenti più sorprendenti è stato ieri mattina, quando si sono incontrati sul palco del Teatro “Giovanni Poli”, vari esponenti della produzione e della distribuzione – veneti, ma c’erano anche un rappresentante friulano, Alberto Bevilacqua del CSS, e Fabio Mangolini, Presidente del Teatro Comunale di Ferrara. Si sono riusciti a dire delle cose anche dure, sicuramente importanti. La sensazione è che sia stata un’occasione di franchezza e di onestà, un momento di reale contatto, con la volontà di cambiare delle cose, di collaborare veramente, di uscire da certi “cortili chiusi”, dalle solite situazioni di “sguardo attraverso” e di incapacità di comunicare.
Per quanto riguarda la crisi del teatro, molto spesso si rimanda alla responsabilità centrale, ma ci dev’essere anche qualcos’altro: tante volte – l’ha detto Mangolini – manca il coraggio. Ho avuto la sensazione che si sia creata l’occasione di una spinta. Se da questo poi nascerà qualcosa, non lo so, ma il linguaggio franco usato da loro mi ha sorpreso.
Sono felice di com’è andata questa iniziativa. Dopo una partenza un po’ in sordina, con presenze limitate, il pubblico è aumentato. La qualità degli spettacoli era estremamente alta, così come quella degli interventi scientifici, davvero di livello – in particolare la prima mattina, Roberto Tessari e Gerardo Guccini ci hanno toccato con l’acume di certe osservazioni e idee, che sono rimaste nell’aria per lungo tempo, durante tutto il convegno. Poi c’è stata la partecipazione dei ragazzi dell’Accademia Teatrale Veneta, che ieri hanno messo in scena – con una lettura, ma era uno spettacolo in realtà – I Figuranti di José Sanchis Sinisterra, un testo straordinario, uno dei tanti che varrebbe la pena far conoscere. È stata un’esperienza bella per loro e per tutto il pubblico presente. E poi c’era Sinisterra, questo maestro assoluto europeo, caposcuola della nuova drammaturgia spagnola: averlo con noi è sempre un onore.
L’essenza di molti convegni, poi, non si trova soltanto nelle conferenze e nei dibattiti, ma anche in qualcosa che “accade intorno”. Qui si sono conosciute o reincontrate persone che non si vedevano da tempo, dal cui incontro nasceranno nuove cose. Sono già al corrente di alcuni contatti che si sono stabiliti in funzione di progetti futuri. E già servissero a questo, i convegni… Benvenuti!
Organizzare un convegno non è cosa semplice, e a volte – bisogna dirlo – risulta inutile. In questo caso – anche se non dovrei essere io a dirlo – sono sicuro che sia stato sensato, creativo e, oltre tutto, divertente.
Protagonista di questi giorni anche la nuova drammaturgia: quali sono, secondo lei, le continuità più evidenti e i punti di rottura fra scrittura italiana contemporanea e le esperienze internazionali?
Confesso che non mi ritengo un particolare esperto di drammaturgia contemporanea. Ne sento la necessità, ne vedo la poca diffusione, il poco amore o la scarsa comprensione che ha l’istituzione teatrale nei confronti della necessità di nuovi testi.
Il teatro si fa per l’oggi, per parlare oggi al pubblico. Ciò si può fare anche con un testo classico, perché molto spesso, essendo eterno e atemporale, va benissimo. Però va notato che quando quei testi sono stati scritti, erano contemporanei alla loro epoca. Non vanno dimenticati, ma sicuramente una scrittura contemporanea sarà molto probabilmente più attinente all’oggi, anche se non è un assioma o una legge.
Si aiuta poco la scrittura contemporanea, soprattutto in Italia; si fa molto di più in altri Paesi, fra cui la Spagna. Non a caso mi sono avvicinato alla drammaturgia contemporanea grazie all’incontro casuale, quindici anni fa, con maestri come Sinisterra e Mayorga. Prima facevo teatro classico e Commedia dell’Arte, che ancora amo e ancora faccio.
Il mio interesse – e questo mi sembra molto meno presente nella drammaturgia italiana – si trova nel modo in cui questi autori riescono straordinariamente a combinare la forza, la pregnanza, l’acume di analisi anche sociali, per così dire, con la teatralità, un grande amore per i meccanismi del teatro e la capacità di ricerca formale e di linguaggio. Si tratta di riuscire a fare arte – ossia la capacità di riuscire a giocare con i linguaggi, e trasformarli – e, allo stesso tempo, dire delle cose importanti.
Quali sono le difficoltà di affrontare un testo di Juan Mayorga, come Il ragazzo dell’ultimo banco, in qualità di regista e come interprete?
Questo testo, emblematico del linguaggio di Mayorga, è multiforme, poli-strato, in senso tematico e strutturale. Nello stesso testo succede di tutto, è estremamente aperto ed interpretabile in tanti modi. Contemporaneamente ci sono ricerca formale e argomenti di rilevanza sociale. È una materia frammentata, che non ha una progressione unica, la cui trama non ha uno sviluppo classico. E non ha la divisione in scene, non solo nella scrittura, ma anche nella dimensione del palcoscenico. La difficoltà sta nel come risolvere questa frammentarietà e proporla in modo tale che il pubblico possa avere una ricezione dello spettacolo in forma unitaria.
Come si risolve questo? Con la fluidità, con il ritmo, con la tensione scenica. Senza poi forzare un’interpretazione, perché il fascino di questo suo tipo di testi è che non è un lavoro “a tesi”: si dicono tante cose ed è compito del pubblico scegliere, interpretare, capire. Questo va rispettato: sono testi che vanno lasciati il più possibile aperti, senza che però il pubblico si perda. Ciò significa che occorre dare delle chiavi di lettura, senza però stabilire quale sia quella “esatta”. È complessità che rischia di diventare confusione se non si accompagna ed orienta in qualche modo il pubblico. Ma non bisogna fare le scelte al posto suo.
Recensione a Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga – VeneziaInScena e Questa Nave
foto di Alvise Nicoletti
Delineare una sintesi esaustiva de Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga è un compito assai arduo: il celebre drammaturgo spagnolo, infatti, compone un testo – presentato in prima nazionale al Teatro Aurora di Marghera grazie a VeneziaInScena e Questa Nave – che è una tela intricata di temi e livelli comunicativi che sembrano moltiplicarsi all’infinito. I rapporti tra diverse generazioni e i problemi legati alla scuola e alle differenze di classe sociale si intrecciano ad una più ampia riflessione sulla letteratura e l’arte, con affondi che si potrebbero definire “metadrammaturgici” sulla scrittura stessa, dalla composizione sintattica alla costruzione dei personaggi. Ciononostante, Il ragazzo dell’ultimo banco è lontanissimo dall’essere un trattato autoreferenziale dipinto sullo sfondo di un dramma realistico: con incredibile abilità, Mayorga regala al pubblico un copione intriso di citazioni e profondità senza mai scadere nella pedanteria, destabilizzante nella struttura ma coinvolgente proprio perché richiede al pubblico una partecipazione attiva e creativa, costellandolo di ironia e “mettendolo in bocca” a personaggi comuni, a tratti banali ma, proprio per questo, interessanti e divertenti nello scarto tra loro e i contenuti di cui sono, a loro insaputa, portatori.
foro di Alvise Nicoletti
Date queste premesse, coraggiosa e meritevole la scelta di Adriano Iurissevich di proporre questo testo al pubblico veneziano – inserendolo nella rassegna Settimana di Drammaturgia Contemporanea della quale è anche direttore artistico – nel doppio ruolo di regista e interprete. Veste infatti, con disinvoltura, i calzanti panni di Germano, professore liceale di letteratura, che si ritrova risucchiato in una spirale ambigua – che dal virtuoso scivola, lentamente, nel vizioso – da un suo studente, Claudio, silenzioso ragazzo dell’ultima fila e promettente scrittore (interpretato in scena da un convincente Giulio Canestrelli). Appassionandosi ai racconti del ragazzo, gli permette di infiltrarsi nella casa e vita del suo compagno di classe Max (Mario Pola), inconsapevole fonte di ispirazione, insieme ai suoi genitori (Alessio Bobbo e Francesca Bindelli), dei tentativi letterati di Claudio. Nonostante le perplessità che la moglie e venditrice di arte contemporanea (Francesca D’Este) nutre per la situazione, non condividendo che professore e allievo sfruttino questa famiglia medio-borghese per i loro fini, spiandoli, studiandoli e traducendone in prosa le vite, la collaborazione tra i due continua, e sembra destinata a non terminare. La struttura formale, infatti, segue per un’ampia parte dello spettacolo il medesimo schema: sulle parole scritte da Claudio, la vicenda si sviluppa tra narrazione e rappresentazione, tramite un abile incastro scenico basato su compresenze spaziali (ridisegnate dalla scenografa Gaia Dolcetta con attenzione ai dettagli e alla funzionalità) e salti temporali e continui cambi di registro, giocando con sottigliezza sul rapporto di forza tra osservati e osservatori. Ma a un certo punto qualcosa si incrina, e lo schema si rompe: l’osservatore (Claudio) si infatua di una delle osservate (la madre di Max), ma, soprattutto il professore scopre di essere anche lui, insieme a sua moglie, uno degli oggetti di osservazione del suo discepolo. La rottura con il maestro è inevitabile, ma in realtà, l’intera vicenda era puntellata di accenni, sguardi, tensioni in crescendo che lasciavano presagire questa chiusura. Nel testo stesso, infatti, viene definito un buon finale quello che fa dire al lettore, al contempo, «non me lo immaginavo» e «non poteva non finire così».
Quasi una dichiarazione di poetica, quindi, da parte dell’autore, che sembra disseminare personali appunti e riflessioni sul suo mestiere senza rinunciare a costruire una vicenda attuale, nei rapporti tra genitori e figli, giovani e meno giovani, professori e studenti, moglie e marito. E l’allestimento di Iurissevich riesce nell’impresa di rendere Il ragazzo dell’ultimo banco in tutta la sua complessità; l’intero cast lascia scivolare il testo con disinvoltura costruendo dei personaggi a tutto tondo che non scadono mai nello stereotipo, nonostante i tentativi di Claudio di chiuderli in una gabbia letteraria che pretende di definirli e capirli interamente. Lo scarto tra letteratura e teatro si svela nell’incapacità di cogliere del tutto un personaggio reale e vivo: è in quel “qualcosa che sfugge” che sta la sottile ma fondamentale differenza tra la pagina scritta e l’azione scenica. Uno spettacolo, quindi, che offre e moltiplica nella sua forma di surreale realismo gli spunti di riflessione, non rinunciando, però, a divertire il pubblico.
Dopo tre giornate intense di convegno de Il teatro in tempo di crisi – Settimana di drammaturgia contemporanea, in cui sono stati affrontati differenti argomenti da altrettanti punti di vista di studiosi, docenti e scrittori, si è giunti all’incontro conclusivo. Dopo aver analizzato a fondo il testo I figuranti di José Sanchis Sinisterra con lo stesso autore e ascoltato alcune considerazioni interessanti riguardo a un testo scritto vent’anni prima e presentato attraverso una lettura scenica nella stessa mattina dai giovani dell’Accademia Teatrale Veneta, numerose personalità hanno espresso le proprie riflessioni circa la situazione teatrale attuale.
Non proprio una tavola rotonda, quanto un semicerchio aperto a un pubblico che paziente e partecipe ha espresso le proprie perplessità e opinioni. Monica Centanni docente e studiosa di teatro antico e drammaturgia greca, ha incalzato sul ruolo fondamentale che il teatro ha nella nostra società e su come la crisi economica che stiamo affrontando debba essere occasione di riflessione sul nostro vivere civile. Lo spazio del palco, un tempo rituale nella Grecia del V secolo, ha oggi ridotto questa sua caratteristica arcaica: ma deve affrontare attualità urgenti e non rimanere marginale. A questa tematica si collegano i pensieri del direttore scientifico del convegno Paolo Puppa che afferma come il teatro debba ripartire oggi da spazi dove esso è socialmente necessario come nelle carceri, per aprire una finestra in un luogo dove altrimenti si soffocherebbe. Docente e scrittore, Puppa si spinge oltre affrontando anche il rapporto tra platea e palco: non esiste infatti il teatro e il pubblico, ma i teatri e i pubblici; si ha il teatro di festival, il teatro di ricerca, il teatro fuori dal teatro e quello istituzionale. Ma questi possono delle volte anche mescolarsi come è successo negli Anni ’70 con il fu direttore del Teatro Argentina di Roma Luigi Squarzina, che portò a dialogare il mondo dello Stabile con il teatro off delle Cantine Romane: in quel caso si era creato un “ponte” – come Puppa stesso lo definisce – tra pubblico e platea, una condivisione e uno spiazzamento creando una condivisione, un’apertura di dialogo con un pubblico antagonista. Continua sostenendo che il teatro che ospita il presente – come può essere anche il teatro di narrazione o il teatro che ha visto un ingresso/collaborazione con la video-arte – deve ospitare anche un linguaggio attuale e non finire nel taglio giornalistico come spesso invece accade. Proprio per questo vede una grande occasione, per la nuova drammaturgia, nella lingua: oggi assistiamo infatti a un trilinguismo dato dal dialetto locale, un italiano standard e l’italiano incerto degli immigrati. Un intarsio espressionistico che crea dinamiche inaspettate e affascinanti tramite le memorie e le lingue diverse. Un modo per sorprendere e la sorpresa a teatro è fondamentale.
Una parola che ovviamente ritorna spesso tra i diversi relatori del pomeriggio è “crisi”: il drammaturgo francese Enzo Cormann spiega infatti come lo stesso lavoro di dramaturg metta continuamente sull’orlo di una crisi e ciò va visto come momento positivo, un risveglio di pensiero e un momento per chiedersi anche che ruolo abbia oggi il teatro. Se il cinema – e cita qui Jean-Luc Godard – fa vedere la realtà attraverso una camera, il teatro permette invece di vedere ciò che senza di esso non saremmo in grado di vedere: il rallentamento. Se la realtà ha subito un’accelerazione, l’assemblea teatrale – ossia la somma di persone che assiste alla rappresentazione – rallenta l’andamento vertiginoso che sta riducendo la comunicazione a un valore svuotato di significato. E di crisi parla anche un altro drammaturgo, lo spagnolo José Sanchis Sinisterra che auspica a una ricerca permanente – perché sostiene che la crisi in realtà c’è sempre stata – inventando altre formule di produzione e distribuzione per portare il teatro ad avere un’incidenza civile molto più ampia. Lo scrittore e attore Roberto Scarpa aggiunge che si deve puntare all’inatteso e ricominciare, cercando di non sottovalutare gli aspetti pratici come l’attività legislativa che cura il teatro: gli artisti si dovrebbero infatti occupare del teatro anche con fatti concreti e non sottrarsi per snobismo, partecipando per esempio alla costruzione dei luoghi teatrali, capire dove questi vanno costruiti e come.
Il docente Claudio Longhi affronta, come le definisce lui, “piccole note a margine” di un convegno: brevi riflessioni sature però di interrogativi scomodi lasciati aperti. Lo studioso parla in primis di una metafisica della crisi, affermando che il vero problema oggi risiede nella questione dell’impegno, del cosiddetto “engagement” che sembra essere diventato marginale. Altro suo pensiero, che si collega al titolo del convegno, è dato da quello che è il rapporto tra teatro e crisi: un rapporto che cavalca un’attualità ma anche una inattualità se il teatro è un antidoto alla velocità del presente. Ricollegandosi al pensiero di Puppa, balza poi ai “pubblici”, a una fruizione teatrale disarticolata; soprattutto si chiede se esista un pubblico o se non ci si limiti a discussioni che purtroppo rimangono confinate dentro una nicchia di appassionati di teatro. Proprio per questo suggerisce che il rapporto con il pubblico vada ripensato, terminando con una domanda aperta, ossia se il teatro è un servizio o un valore. Roberto Tessari, altro docente di alto livello, tira le fila di quello che è stato un convegno vivo e di un teatro altrettanto vivo in questi giorni della rassegna. Ma segnala un vuoto: ossia la partecipazione di una persona che non abbia nulla a che fare con il teatro ma piuttosto con la parola crisi. Una persona che forse non esiste, proprio come secondo lui la parola stessa “crisi”: è una sfinge, una falsa mitologia da cui ci facciamo cullare. Il teatro è un altro tempo e un altro spazio, è una microsocietà: bisogna mettere in movimento la critica, la vivacità drammaturgica e la scenicità dell’attore per rendere le immagini strumenti praticabili per andare oltre.
Carmelo Alberti, docente di discipline teatrali presso l’Università Ca’ Foscari e lo IUAV di Venezia, introduce la tematica protagonista della tavola rotonda (dal titolo Nuove drammaturgie: problematiche produttive e distributive) attraverso una serie di notazioni provocatorie e stimolanti, che squarciano i limiti della tematica, spaziando fino alla specificità dell’esperienza teatrale (con una bella citazione da Gillo Dorfles) e a contestualizzazioni artistiche recenti e contemporanee, oltre che sociali e culturali in senso più ampio. Fra le considerazioni, varie e trasversali, proposte dallo studioso, quella che accenna a come il teatro, unico luogo in cui è rappresentabile il presente, dovrebbe riflettere sul proprio passato, in primis su quello più recente: è un momento in cui le tante fertili e originali sperimentazioni d’avanguardia (sulla vocalità come sull’immagine) sembrano accantonate quando non addirittura proprio dimenticate in questi tempi di nuovi linguaggi.
Laura Barbiani, Presidente del Teatro Stabile del Veneto, nota come ai nuovi linguaggi si accompagnino spesso anche nuove storie e modi inediti di raccontarle: per drammaturgia “contemporanea” non si possono intendere esclusivamente le scritture originali recenti, ma anche le reinvenzioni legate a testi più datati. Al centro della riflessione, il ruolo del pubblico – protagonista che torna in questo e in gran parte degli interventi successivi – che deve rimanere sempre come urgenza primaria, all’interno del contesto dell’interpretazione della relazione fra scena e platea. Il teatro «rappresenta, è, provoca il presente», anche le istituzioni italiane, a differenza di quelle europee, non hanno fatto abbastanza per sostenere la creatività performativa nazionale. L’intervento si conclude con una domanda diretta a Pierluca Donin, Direttore di Arteven: che accoglienza potrebbe avere, nella nostra regione, la drammaturgia contemporanea? Anche per Donin è importante lavorare affinché non si spezzi la relazione fra teatro e pubblico e, anzi, segnala come l’arte scenica sia oggi molto più attuale, nei modi e nei temi, di altre tecnologie che in passato sembravano averla superata, come cinema e televisione: questi mezzi, infatti, pongono una barriera al pubblico, mentre il teatro, molto più vicino, in questo, ai new media web come blog e social network, offre uno spazio di dialogo in cui lo spettatore può essere a sua volta creatore e interprete. Alberto Bevilacqua, Presidente del CSS di Udine, si sofferma sulla contraddizione implicita nella definizione “Teatro Stabile di Innovazione”, fra stabilità e rinnovamento. Mentre Pierluigi Cecchin, Presidente de La Piccionaia di Vicenza, non trova contraddizione fra i due termini, che anzi, nella sua prospettiva diventano oggetto di spinte reciproche. Nel suo caso la relazione fra scena e platea è ancora più cruciale: parte delle attività della Piccionaia sono dedicate infatti al teatro ragazzi – peculiarità che, oltre a lavorare sulla formazione del pubblico di domani, ha provocato una formazione speciale per gli artisti che vi lavorano, che, a causa della particolarità del loro pubblico, hanno potuto ritrovare o reinventare modalità produttive inedite. L’intervento di Fabio Mangolini, Presidente di Teatro Comunale di Ferrara – Fondazione, apre a una prospettiva anche legislativa e amministrativa, offrendo un dettagliato e ampio panorama sulla normativa per lo spettacolo dal vivo e sulle sue forme di finanziamento. Mangolini rimanda alla parola “crisi”, che in lingua giapponese può avere due significati: oltre quello di crisi in senso stretto, anche di opportunità. Ciò significa, nel primo caso, che è importante continuare a resistere; ma è essenziale anche superare il concetto e la pratica della resistenza, in una progettualità capace di costruire anche senza quegli strumenti necessari che il sistema non è e non è stato in grado di offrire al mondo del teatro. Sempre a proposito del ruolo centrale del pubblico, nel contesto dei continui ripensamenti che un sistema particolare come quello delle arti sceniche richiede, Cristina Palumbo, Fondazione di Venezia, testimonia l’esperienza del progetto Giovani a Teatro: un percorso che lavora innanzitutto, in varie forme, sulla trasmissione dei saperi teatrali, fra laboratori e workshop che si muovono fra i diversi linguaggi e livelli della cultura teatrale, oltre che con la celebre iniziativa che permette ai giovani di vedere spettacoli a 2,50 euro. L’esempio della Palumbo è proprio sulla drammaturgia, protagonista di Il teatro in tempo di crisi: il progetto Declinazioni di drammaturgia, nella sezione Esperienze di Giovani a Teatro, è stato pensato per entrare nel mondo della scrittura teatrale contemporanea attraverso l’incontro con alcuni maestri del teatro e il loro lavoro. Questo percorso, aperto a tutti, è stato pensato come momento originario per l’avvio del laboratorio di drammaturgia Parole in forma scenica, quindi non come punto di arrivo o come rassegna autonoma, ma alla stregua di un innesco per inaugurare un percorso creativo. Le attività della Fondazione, infatti, si basano sulla convinzione dell’importanza di mettere in contatto autori e pubblico, artefici e giovani e ciò deve avvenire in modo sempre più quotidiano e ravvicinato. I cinquemila posti a teatro di Giovani a Teatro e le numerosissime richieste di partecipazione ai laboratori di Esperienze sono essi stessi un segno di riscontro non indifferente dell’impegno sul territorio della Fondazione. Labros Mangheras, Presidente di Tib Teatro, nota come alla esistenza di una nuova drammaturgia molto ricca vada affiancato il fallimento del sistema teatrale italiano che, dopo un ruolo cruciale nel dopoguerra, non ha saputo seguire le differenti evoluzioni della scena. La dimostrazione si trova, ad esempio, nelle categorie imposte dalla legislazione, in cui né artisti né operatori oggi si riconoscono. Il compito del teatro è, oggi, dunque, quello di rimettere coraggiosamente in discussione tutto. A chiudere il panorama di interventi della tavola rotonda, Angela Fiorella, responsabile del Servizio Teatri e Spettacolo del Comune di Venezia, che segnala le difficoltà di azione in un settore culturale in cui è continuamente necessario confrontarsi con logiche dai valori estremamente differenti, come il profitto, i costi, la competitività. Oltre alle molte linee condivise dalla gran parte degli interventi (come l’attenzione per il pubblico e la necessità di inventare nuove forme capaci di sostenere il teatro contemporaneo), in un dibattito finale emerge l’urgenza di creare connessioni e partnership fra le diverse strutture in campo, una sorta di “extra-sistema”, nel contesto di quella che Pierluca Donin definisce una «presa di responsabilità etica nei confronti del territorio».
È del tutto particolare il modo in cui Beth Escudé, drammaturga catalana (oltre che regista e insegnante), affronta il tema della violenza di genere nel suo testo Aurora De Collata, la cui mise en espace, a cura dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, è in grado di esaltare i contrasti. Aurora è una giovane donna vittima di maltrattamenti domestici, il cui apice è raggiunto con un uxoricidio-suicidio – tema di recente tristemente agli onori di cronaca anche in Veneto. Senza cadere nella trappola del “martirio” né smarginare con la descrizione delle violenze subite e tantomeno concentrarsi eccessivamente sulla prospettiva della vittima, la Escudé dona alla scena un testo intelligente, capace di trattare un tema delicato e attuale come la violenza di genere attraverso l’ironia e il grottesco – armi in questo caso ancora più taglienti di qualsiasi pratica documentaria o di una prospettiva realista. Certo all’inizio si ride, e molto. A partire dal nome della vittima (che è anche il titolo del testo e dello spettacolo): il cognome del marito di Aurora è “Collata” – un nome che si fa tristemente presagio, per la donna che viene uccisa con un taglio alla gola. E poi i passaggi ironico-grotteschi sono in agguato lungo tutto lo sviluppo della vicenda, come trapuntando la tragedia di slabbramenti di natura opposta: da Aurora che va ad auto-denunciare il proprio omicidio alla polizia, all’inizio, agli operatori di medicina legale che decidono di farne partecipare il cadavere a un concorso televisivo per la beatificazione fino al transito dell’anima fra inferno, purgatorio e paradiso, carico di imprevedibili incontri. Ma se nelle prime scene o, meglio, “porte” (come sono chiamate nel testo, in riferimento a quelle che popolano Il castello di Barbablù) la risata è libera di invadere la platea, attraverso l’accumulo di gag, malintesi e giochi di parole, poco dopo il pubblico si trova intrappolato in un crescendo tragicomico da cui è difficile estraniarsi. È proprio l’eccesso di questa vena comica sovraccarica ad assestare il pugno allo stomaco finale per gli spettatori, nel momento in cui la donna si presenta ad un diavolo incapace di tentare e di sedurre, mentre, a colloquio con dio, si trova di fronte un essere capriccioso, solo e depresso. Sacro e profano si intrecciano nella drammaturgia di Aurora De Collata, fra talk-show televisivi (con tanto di telefonate da casa) e messe in crisi della morale e della spettacolarizzazione occidentali. Qui trovano giustapposizione e commistione anche linguaggi e registri differenti, da quello proprio della violenza di genere (ferocemente analizzato in tutta la sua inadeguatezza) a quello medico, mediatico, religioso.
Ma il testo di Beth Escudé, capace di affrontare con efficace spregiudicatezza temi di grande e delicata attualità (come l’invadenza televisiva, il decadimento della religione, oltre a quello protagonista della drammaturgia), non solo fronteggia abilmente il – linguaggio ed immaginario – contemporaneo: la scrittura dell’autrice catalana si colloca faccia a faccia anche con la grande arte e la letteratura occidentale. Primo fra tutti il riferimento, anche esplicitato, al Barbablù di Bela Bartok; poi le numerose citazioni che aprono ogni scena, da Aristotele a Strindberg passando per Ferdinando Pessoa. E poi, un affondo ancora più al cuore della tradizione si trova nella struttura drammatica, costituita da diverse scene successive ma autonome (le porte) poste in un andamento circolare, composizione che rimanda alle “stazioni” del teatro classico spagnolo, non forse quello del Siglo de Oro, ma più probabilmente all’estetica del grande teatro di strada catalano.
La mise en espace a cura dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano porta in palcoscenico tutti questi livelli di realtà con grande energia, in un allestimento essenziale che sa giocare con i canoni della finzione teatrale e lascia grande spazio all’incarnazione drammaturgica.
Dopo aver dialogato con le drammaturghe Yolanda Pallin, Beth Escudé e il direttore artistico della rassegna Il teatro in tempo di crisi Adriano Iurissevich circa la scena teatrale in Spagna, il docente Marco Presotto incontra Margaret Rose e Armando Pajalich per offrire una rapida panoramica di quello che accade oggi nel campo della drammaturgia di lingua inglese.
Nel secondo pomeriggio della rassegna veneziana sottotitolata La settimana di drammaturgia contemporanea, la studiosa Margaret Rose – che si interessa soprattutto del teatro britannico che cresce nelle città di Londra, Glasgow ed Edimburgo – ha parlato dell’incredibile varietà dell’organizzazione teatrale presente nel territorio anglosassone a livello di fondi. Se in Italia la figura del dramaturg è difficilmente riconosciuta, in Gran Bretagna il Consiglio delle Arti nutre e sostiene gli scrittori che si dedicano al teatro. In questo modo un drammaturgo non deve vivere esclusivamente nelle grandi città per lavorare, ma può benissimo scrivere dal suo paesino in campagna. A Glasgow esiste addirittura “la casa del dramaturg”: un centro in cui la persona viene seguita, senza dover essere necessariamente giovane. Sempre in Scozia è stato fondato anche un sindacato per questa figura di artista: si restituisce una dignità a un lavoro che è riconosciuto come tale e non come un passatempo. Nella sua analisi – da fare invidia ai dramaturg italiani costretti a restare spesso in ombra per mancanza di fondi – Margaret Rose specifica anche come negli ultimi decenni il teatro politico si sia trasformato, nella sua struttura drammaturgica, seguendo due diverse tendenze. La prima corrisponde a una specie di talk-theatre, ossia una scrittura teatrale che utilizza dibattiti televisivi e frammenti di talk show e di blog, risultando così più vicino alla tecnologia; la critica accusa in questa modalità una mancanza di originalità, ma il talk-theatre diventa una possibilità per registrare realmente quello che sta succedendo nella società. La seconda tendenza è quella del sight related theatre: creare spettacoli fuori dai teatri, modificarli a secondo del territorio in cui questi vengono presentati per creare una reale comunicazione tra le persone.
Kwame Kwei Armah
Ma a scrivere in lingua inglese non sono solamente i dramaturg viventi sull’isola britannica: il docente, studioso e traduttore di letteratura postcoloniale Armando Pajalich ha infatti sottolineato come molto teatro sia stato prodotto fuori dai confini europei. Uomini come il nigeriano Wole Soyinka, il caraibicoDerek Walcott – entrambi premi Nobel per la letteratura – e il sudafricano Athol Fugard sono i tre esempi che Pajalich utilizza per dimostrare come scrittori di alto livello restino ancora sconosciuti a molti per via della loro marginalità geografica. Non è facile infatti mettere in scena le loro drammaturgie fuori dai loro territori, per diversi motivi. Per esempio Soyinka si dedica a problematiche di origine sociale, parlando di grandi tirannie o di personaggi della mitologia africana; per rappresentare questo mondo, per noi lontano, sono necessari codici e gestualità per tradurlo, attori che abbiano innata questa cultura per interpretarlo. Altro problema in cui ci si imbatte lo si ritrova mettendo in scena Walcott: il suo teatro poetico, fatto di canzoni, dovrebbe essere proposto all’aperto, in riva al mare, al caldo tropicale dei Caraibi per comprenderlo fino in fondo e per immergersi nei suoi scritti. L’ultimo scrittore di cui parla Pajalich è Athol Fugard – conosciuto per la recente riproposizione teatrale di Peter Brook di Sizwe Banzi est mort – che crea dei testi esclusivamente interpretabili da attori africani per essere compresi, perché richiedono una gestualità che non appartiene all’uomo europeo. Anche se lo stesso Fugard, bianco, ha creato in Sud Africa un teatro nero che non esisteva: è stato il primo a mettere sullo stesso livello in una pièce teatrale uomini di diverse etnie, dando a tutti la stessa dignità. Ultimo problema sollevato e che si riscontra nella rappresentazione di questi testi è dato dalla lingua: un inglese “imbastardito” con termini del linguaggio locale, della propria terra. Nella traduzione la potenza di questa si perde, perché non ci sono veri termini italiani corrispondenti. Ma piccoli tentativi vengono fatti fortunatamente, come è stato dimostrato in chiusura di questa seconda giornata di convegno: la lettura scenica a cura di Pantakin da Venezia dell’interessante testo Fix up di Kwame Kwei Armah ha aperto a un mondo nuovo per quanti non conoscevano quest’autore. Molti passi devono essere fatti per arrivare a delle traduzioni che restituiscano il più possibile la visione di questi autori a noi culturalmente lontani ma l’importante è fare questi primi passi e iniziare.
La sessione mattutina del secondo giorno del convegno di Teatro in tempo di crisi si struttura in modo del tutto particolare: un critico teatrale e docente universitario, Andrea Porcheddu, sempre muovendosi fra teoria e prassi, accompagna il pubblico nell’esplorazione delle zone più liminari della nuova drammaturgia veneta e non. I protagonisti di questa mattinata sono gli artisti che occupano, ognuno a modo loro, la scena con frammenti dai propri lavori e si soffermano – prima e dopo la “dimostrazione” – qualche momento a colloquio con il pubblico. Gli interventi di Porcheddu, lungi da collocarsi semplicemente a commento delle estetiche o dal farsi mera connessione fra le diverse poetiche, offrono una varietà di spunti di riflessione capaci di mettere in relazione lavori e idee di teatro così differenti come quelle che si sono susseguite stamattina sul palco del Teatro “Giovanni Poli”. Nell’ordine, sono stati presentati il lavoro di Anagoor, con un video capace di far entrare lo spettatore nei differenti progetti della compagnia, da Orestea a *jeug- al celebre Tempesta; poi la narrazione esplosa di Oscar De Summa, che fa cortocircuitare racconto autobiografico con le più disparate citazioni tratte dall’immaginario collettivo; la “scrittura in azione” di Giuliana Musso, che ha presentato due monologhi tratti dal suo recente Tanti saluti, spettacolo sul tabù della morte fra documentario e clownerie; le reinvenzioni dei personaggi a fondamento della cultura occidentale scritte ed interpretate da Paolo Puppa, che oggi ha letto una pièce sul celebre Innominato manzoniano, personaggio che fuoriesce dal romanzo tradizionale per darsi finalmente voce da solo, al di là delle “finzioni” volute dal suo autore; la letteratura teatrale di Tiziano Scarpa, che in una performance straordinaria ha immaginato che Leopardi piombasse per caso, nel 2009, a casa di uno studente che sta preparando gli esami di maturità sul suo Infinito; e, per finire, venti minuti di Dux in scatola, spettacolo dalla messinscena travolgente (per l’interpretazione e per i temi), in cui Daniele Timpano è alle prese con un'”autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito”.
La premessa, in cui Porcheddu indicava, fra l’altro, come le nuove scritture per il teatro vivessero di un vivacissimo ed originale impasto con la pratica scenica è dimostrato e ripreso ad ogni passaggio performativo: si tratta di autori che scrivono per determinati interpreti (che spesso coincidono con loro stessi) e i cui testi non trovano nella messinscena una semplice verifica, ma l’innesco stesso della creazione drammaturgica. I nuovi testi, dunque, sono scritti per la scena (e non solo per la pagina) e vengono profondamente trasformati da essa. I nodi che ritornano, in questo panorama quanto mai variegato del nuovo teatro, si trovano nella pratica del montaggio di materiali diversi (siano essi poetici, biografici, documentari o citazioni), nella capacità, pur varia, di condurre il tradizionale teatro di narrazione verso linguaggi e codici del tutto inediti, e in un rapporto del tutto particolare con la realtà, in senso tematico e/o metodologico, che ognuno poi declina secondo la propria estetica.
Il percorso di Anagoor – portato dal regista e fondatore del gruppo, Simone Derai – consiste nell’approdo a un lavoro sulle immagini, le cui radici si trovano in un serratissimo confronto, durato ben tre anni, con uno dei testi fondamentali dell’Occidente teatrale, l’Orestea di Eschilo, la cui messinscena integrale è stata creata attraverso il confronto con le sue differenti versioni, fino addirittura ad una traduzione originale da parte della compagnia. Oscar De Summa, proponendo un frammento dal primo passaggio della sua trilogia sullo sradicamento, racconta delle diverse modalità compositive esplorate nella sua esperienza autoriale: dalla narrazione comincia tout court alla frammentarietà alla strutturazione in quadri, fra prospettiva auto-biografica, citazioni le più varie e compresenza di diversi linguaggi, nel contesto di una ricerca intorno al portare in scena “quel cortocircuito in cui continuamente viviamo”. Giuliana Musso si (auto)colloca in una dimensione similare: pur rifiutando il ruolo di scrittrice a favore di quello di attrice, dà vita, in scena, a personaggi ibridi (impossibili da definire narratori o personaggi in senso tradizionale), che si muovono fra documentario e racconto e che sono il frutto di lunghissimi periodi di ricerca, i cui materiali sono poi filtrati fino alla messinscena. Il lavoro di Paolo Puppa spesso si concentra su personaggi fondamentali dell’immaginario occidentale (estratti da testi mitologici, biblici, letterari), dunque ben noti al pubblico, che l’autore-performer trasforma, cala nell’attualità e fa così parlare in modo nuovo. L’intervento di Tiziano Scarpa è utile ad approfondire alcuni dei temi scottanti della drammaturgia contemporanea e della sua crisi, come le tante sfaccettature ed implicazioni del rapporto fra scrittore e regista. Infine Daniele Timpano, fra i maggiori esponenti degli autori-attori contemporanei, con un frammento di Dux in scatola dimostra quelle linee di continuità e di rottura che fino a quel momento si erano soltanto affacciate nel dibattito intorno ai caratteri della nuova scrittura teatrale: una pratica di montaggio “spregiudicata” che intreccia materiali dalle provenienze più disparate (dalla grande Storia d’Italia alle micro-storie individuali) e fa cortocircuitare le identità in scena (quella del personaggio, Mussolini, con quelle dell’autore e dell’attore). Ma la performance è esemplare anche in senso tematico, parlando di un teatro che vive di un rapporto del tutto speciale e inedito con la realtà di cui fa (e vuole a tutti i costi fare) parte: nella collezione e nel montaggio dei suoi materiali, ma anche nella scelta dell’argomento e nel rapporto col pubblico e con il suo immaginario, così come nel frequente tentativo di farsi carico di momenti o elementi perduti della memoria collettiva, siano essi l’omicidio del Duce, la concretezza della grande poesia e della letteratura, i tabù della morte, i caratteri e i gesti dell’esistenza umana.
Recensione a Sogni d’oro – di e con Roberto Scarpa
Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti, ideato e interpretato da Roberto Scarpa, è uno spettacolo che si propone di incarnare, sulla scena, la personalità del celebre industriale (ma anche architetto, editore, politico…) di Ivrea, fra narrazione, accompagnamento musicale e canzoni. In una narrazione che trasforma continuamente le identità, i momenti fondamentali dell’esistenza di Olivetti sono raccontati con trasporto da Scarpa, spesso accompagnato dal pianoforte o dalla chitarra di Luca Morelli e a cui fanno da contrappunto le canzoni interpretate da Marika Benatti, la cui voce riempie il palco e la platea del Teatro “Giovanni Poli”, ma il cui repertorio, che lo stesso Scarpa dice accostato alla parola secondo ragioni emotive, spesso si trova a stridere con il rigore documentario e la precisione dei dettagli proposti nella narrazione. Le identità che si avvicendano in scena, nell’unica persona di Roberto Scarpa, sono molteplici. È autore e interprete, in senso attoriale ma anche biografico: la pregnanza emotiva del suo incontro con Adriano Olivetti è evidente fin dalle prime parole dello spettacolo – in cui presenta le modalità del suo incontro, quasi un’illuminazione, con la vita e le idee di Olivetti – e ritorna in tutta la narrazione, nella vivacità del ritmo e nel trasporto con cui racconta. Poi c’è Olivetti, persona e personaggio, attraverso la cronaca della sua esistenza e, a volte, le sue stesse parole. E, infine, anche dei testimoni “speciali”, dai suoi collaboratori più stretti ad eccellenze della cultura italiana agli amici di sempre, presentati tramite numerose citazioni. Il tutto “cucito” sapientemente dalla carica immaginativa di Scarpa, che riesce, oltre che nella rappresentazione della vita di un uomo, nell’incarnazione degli andamenti di tutto un secolo. Adriano Olivetti si trasforma, in Sogni d’oro, in eroe (o anti-eroe, come puntualizza lo stesso Scarpa nel dibattito che segue lo spettacolo) e la sua vita in una saga scandita annualmente e composta, in gran parte, da un collage di grande efficacia degli avvenimenti salienti – siano essi parte della grande Storia del Novecento o delle piccole storie degli uomini – dell’epoca presa in considerazione. Quello che, ad un primo impatto, si proponeva come il racconto della vita di Olivetti – con il brillante escamotage della contestualizzazione a trecentosessanta gradi, attraversamenti di codici e di generi imprevedibili, l’energia interpretativa travolgente di Roberto Scarpa e la straordinaria storia di quest’uomo per cui il termine “imprenditore” è senz’altro riduttivo – si trasforma, appunto, nel corso del lunghissimo spettacolo, in una saga, i cui dispositivi si ripetono, le cui vicende sono traslate in uno spazio-tempo che risulta idealizzato e i cui punti nodali mitizzati, come in una favola, fino a perdere, in qualche passaggio, l’efficacia documentaria della concretezza. Dunque più una favola che uno spettacolo-documentario che ha però il merito di farsi carico dei “sogni” di un personaggio come Olivetti, uno fra i tanti innovatori (e creatori) della cultura italiana del dopoguerra troppo spesso dimenticati dall’immaginario contemporaneo, schiacciati fra le pagine della grande Storia del Novecento che è andata a scegliere altrove i suoi miti di fondazione.