Recensione a Osso – di Virgilio Sieni
Che cosa rimane dell’incontro tra un padre e un figlio, che tracce può lasciare? Dolcezza, sfida, malinconia, complicità, tenerezza: sono solo alcuni degli stati emotivi attraversati da un rapporto che si regge su basi solide – si potrebbe dire ‘ossee’ ed ‘epidermiche’ – e per questo difficilmente attaccabili dal tempo.
Il coreografo Virgilio Sieni dà un’ennesima dimostrazione della potenza elegante e significante dei suoi lavori con Osso, spettacolo del 2005 ancora in tournée e presente al 41. Festival Internazionale del Teatro – La Biennale di Venezia, in cui egli stesso è in scena con suo padre più che ottantenne Fosco; con estrema naturalezza quest’uomo anziano compie movimenti semplici a cui seguono quelli del figlio, in continua attesa e pronto a costruire i passi sulla base di quelli paterni.
Un filo impercettibile che lega due corpi, gli sguardi, le mani: segni che rivelano un rapporto in cui la bellezza risiede nel costruire un gesto che risponda a un altro, un’azione che trovi in un corpo differente la stessa intenzione ed espressione. In Osso ciò che può manifestarsi singolarmente non raggiunge mai la stessa intensità di ciò che può essere comunicato – seppur non a parole – insieme. Ed è insieme che i loro corpi (mani/gomiti/braccia) colpiscono dei tavoli in una specie di inseguimento alla ripetizione dove, grazie a un’amplificazione interna agli strumenti in scena, ogni singola azione corrisponde a un’eco sonora che dilata l’atto, aggiungendo maggior forza e autorevolezza, e allo stesso tempo allontanandosi dalla pura riproduzione.
Osso calca la costruzione di un rapporto dove indimenticabili rimangono dei momenti coreografici come l’intrecciarsi delle mani di Sieni-padre e Sieni-figlio in una specie di battito aleatorio di farfalle; o i precisi e candidi gesti in cui, seduti a un tavolo, i due afferrano gli oggetti e li spostano, facendoli diventare parte stessa del loro movimento. L’inanimato entra concretamente nella coreografia scandendo gli attimi, i secondi, e segnando il ritmo mentre i loro sguardi vivi si incrociano e sottraggono al tempo la propria funzione.
All’osso si riduce questo rapporto, abbagliato da un esterno misterioso in cui appaiono simboli come la palla e il cerchio. Il loro incedere, illuminato nell’ultima parte del lavoro da un lungo fascio di luce proveniente da un portone, sembra dirigersi o nascere da una dimensione altra, frutto di un incontro con l’ignoto. E gli oggetti, la musica impercettibile ma presente – a cura di Tempo Reale – i loro corpi avvolti in questo bagliore astratto diventano comunicatori di uno spazio-tempo possibile anche altrove.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Carlotta Tringali
Questo contenuto è parte del quotidiano “L’Ottavo Peccato”, e della sua versione web, per il 41. Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia.