silvia costa

“Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra”

Il Teatro Fondamenta Nuove chiude la sua stagione con l’ultimo studio, quasi un’anteprima, di Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra. È il nuovo lavoro di Silvia Costa con Giacomo Garaffoni, Lauda Dondoli, Sergio Policicchio, che – dopo la messinscena – hanno incontrato il pubblico del teatro veneziano. L’occasione è quella – insieme alla compagnia – di approfondire il processo compositivo, le scelte artistiche, le modalità di sviluppo e trattamento drammaturgiche e sceniche alla base di questo spettacolo, finalista al Premio Scenario 2013 e al debutto a inizio giugno al Festival delle Colline.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Il titolo sembra quasi una domanda. Così, anche tutto lo spettacolo: è un mistero, sia in senso generale che nello specifico delle singole scene e azioni. Nelle note, si legge dell’ispirazione a un racconto di Carver: «è come se ci chiedessero di descrivere a un cieco com’è fatta una cattedrale». È una frase che racconta di una tensione asintotica, vibrante proprio anche della sua impossibilità di compiersi; che forse implica uno sforzo sempre più estremo, tanto quanto l’obiettivo si allontana.
C’è una condizione di mistero, di enigma, di latenza che impregna tutto lo scorrere dello spettacolo. I quattro performer sono sempre di spalle, i volti si vedono di rado. Agiscono su un quadrato bianco, fatto di pavimento e due pareti di fronte al pubblico, che accoglie pochissimi oggetti. Parlano di cose che ci sono e non ci sono; si muovono in modo naturale ed eccentrico, con azioni esplicitamente simboliche o altrettanto nettamente decontestualizzate; si riferiscono a fatti comprensibili o meno, cui lo spettatore può accedere secondo la propria capacità immaginativa.

Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra è incredibilmente concreto, fondato sulla materialità delle piccole cose, sulla matericità dei gesti, sulla quotidianità dei dialoghi, sulla normalità degli abiti. Poi, c’è qualche intrusione estrema (di senso, di figura, di suono). Queste, insieme alla tensione tanto insistita e vibrante alla (presunta) normalità del quotidiano, provocano un senso di indeterminatezza, di astrazione. Le tematizzazioni sono quelle consuete dell’immaginario narrativo moderno, a volte insistitamente borghesi e post-borghesi: gallerie d’arte (invisibili) e interni domestici, questioni di coppia e di amicizia, scontri e legami, malintesi e abbandoni. Si può pensare tanto alla drammaturgia nordica otto-novecentesca, alla sua dirompente irrequietezza verso i canoni sociali, quanto a tutto l’immaginario post-seriale e post-mediale che si ripropone in campo cinematografico e televisivo negli ultimi anni; a Ibsen e al teatro dell’assurdo come a Lynch.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Si respira un senso di inquietudine, come se ci fosse sempre qualcosa di predisposto a incrinare la delicatezza degli ambienti e la “normalità” degli equilibri; Silvia Costa, nell’incontro dopo lo spettacolo, parla dell’intenzione di lavorare su «una struttura geometrica e sfondarla dal di dentro». E, in effetti, è quello che accade in questo lavoro, sia al livello delle singole scene che in generale sul più ampio piano compositivo. La dialettica fra iperrealtà e surrealtà è una cifra di grande interesse drammaturgico, dal punto di vista tematico: questioni irriducibilmente umane, emotive, come l’amore, la morte, il tradimento, da un lato sono concretizzate nella minutezza dei dettagli, in gesti piccoli e netti, in dialoghi in un certo senso convenzionali, che accadono normalmente e usano spesso un linguaggio comune; dall’altro c’è un contrappunto di elementi stranianti, tanto a livello linguistico, quanto compositivo e visivo. A fianco di situazioni tutto sommato normali, temperature emotive, fragilità del vissuto, si stagliano elementi che debordano continuamente, a richiamare la potenza astratta della grande avanguardia (ad esempio Malevic).
Sembra una questione di proporzione. E dell’energia che si innesca nello scarto fra un livello e l’altro. L’artista, in un’intervista concessa al Tamburo di Kattrin l’anno scorso, in occasione del festival B.Motion (leggi l’articolo), parla in proposito di “realismo dell’immaginazione”.

Ma un punto di interesse di questo lavoro, oltre il piano scenico, si trova sicuramente sul livello della composizione drammaturgica. Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra è un lavoro costruito con precisione sul susseguirsi di una quindicina di scene distinte, apparentemente slegate fra loro. Fra l’una e l’altra si tessono dei fili netti e sottili, a partire da alcuni innesti che portano da un ambiente al dialogo successivo, da un personaggio alla prossima scena.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Entrano i performer, la situazione prende vita, a volte si innesca un dialogo o una qualche forma di contatto; poi un elemento s’incrina e tutto si scioglie. «È come se – constata Silvia Costa nell’incontro dopo lo spettacolo – quando si comincia a raccontare, la storia si sfaldasse fra le mani». C’è indubbiamente questo senso di sgretolamento permanente, che, insistito e approfondito di scena in scena, diventa una tensione alla compiutezza continuamente tradita. La fine (e il fine) rimane un orizzonte inavvicinabile, incombente ma impossibile da mettere a fuoco con esattezza.
L’artista parla di una logica “a matrioska”. C’è una struttura lineare cadenzata ritmicamente in modo piuttosto netto con le piccole scene; ma c’è anche la questione dei semi che le legano, degli innesti che si sviluppano, dei sentieri che si interrompono; e, più in generale, la linea appunto misteriosa della scatola che nasconde un’altra scatola, che ne cela un’altra, un’altra, e poi un’altra ancora: lo spettacolo si apre con un cubo che si rompe, il centro del fuoco prospettico è occupato quasi per l’intera durata da un’appuntita architettura suprematista, costruita e smontata dai performer stessi, e, a pensarci bene, c’è il grande (mezzo) cubo bianco che contiene tutte le azioni.

Anche qui, è una questione di proporzione o di scala. L’andamento compositivo possiede una modularità e una pluri-livellarità capace di tenere viva la netta geometria che ritma lo spettacolo, di mantenere insieme in una percezione unitaria la linearità del percorso narrativo e la profondità delle singole scene. Come del resto sul piano tematico e linguistico, dove convenzione e avanguardia, emozione e estetica, normalità e inquietudine lavorano insieme su piani diversi. Nel complesso, probabilmente, alla costruzione di un dispositivo e al suo tentativo di messa in crisi dall’interno, al continuo svelamento e rivelamento (sul piano emotivo e linguistico, drammaturgico e tematico, del senso e della scena).

Roberta Ferraresi

 

Il lusso dell’accadere: conversazione con Silvia Costa

silvia costaUna porzione di palco. Due pareti che s’incontrano a formare un angolo. Uno spazio bianco. Due uomini e due donne che lo abitano. Senza mai mostrare il volto, senza mai svelare il mistero. Possiamo vederli ma non riusciamo a riconoscerli. Possiamo guardarli ma non definirli. Abiti dai colori tenui. Movenze leggere. Parole poetiche. Immagini raffinate. Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra di Silvia Costa, progetto finalista al Premio Scenario 2013, è un susseguirsi di quadri, è sfiorare l’amore, la felicità, il dolore, senza riuscire a delinearne i confini. In occasione della settima edizione di B.Motion Teatro, Silvia Costa ci racconta la nascita di questo primo studio, tra quotidianità e dimensione immaginativa.

«Parto sempre dallo spazio. In questo caso l’immagine iniziale è quella di un angolo, che porta in sé l’idea di collasso. Una visione prospettica, non simmetrica. Quando ho cominciato a pensare chi potesse abitare questo spazio, ho ragionato sull’incapacità di descrivere cose normali, semplici, e mi è venuta in mente la frase di Carver “È come se ci chiedessero di descrivere a un cieco che cos’è una cattedrale”, che è stata di spunto per entrare in una dimensione testuale, una forma dialogica, in un testo che diventa quasi estetico. Ho scritto molto, molte più parole di quelle che saranno nella versione finale. Ho cominciato a pensare a dei quadri, alle pagine di un libro, a personaggi molto connotati negli abiti ma con volti che non si vedono mai. Mi succede spesso, quando leggo, che i personaggi del libro mi si staglino nella mente senza che riesca a identificarne i volti. Vedere il viso è svelare un segreto, non mostrarlo è anche lasciare maggiore libertà d’interpretazione. In questo lavoro ci sono microstorie, elementi quotidiani che si mescolano a una dimensione immaginativa. È realismo dell’immaginazione. La sensazione che voglio comunicare è quella di un sogno che non si riesce a descrivere, che si sfalda tra le mani. Una creazione fragile, che scivola via quando cerchi di afferrarla. Per me è la celebrazione della cesura, la celebrazione della pausa, il lusso dell’accadere».

quellochedipiùgrandeDopo la fase di scrittura è arrivato il coinvolgimento degli altri attori?
“Sì, nei primi cinque minuti presentati alle selezioni del Premio Scenario eravamo in scena solo io e Giacomo Garaffoni. Ma volevo più caos, più confusione, e allora ho contattato Laura Dondoli, che lavora anche con la Socìetas Raffaello Sanzio, e Sergio Policicchio, che ha lavorato con i Motus, e ho cambiato la struttura dei testi che all’inizio erano dialogici, aggiungendo i personaggi. In due si creava una dinamica di coppia, e io, invece, volevo più combinazioni possibili.

La drammaturgia è già scritta o si compone durante il processo creativo?
È definita prima. Scrivo dettagliatamente tutto ciò che accade nei quadri, anche i movimenti, che sono ovviamente ipotesi. Il dialogo con gli altri è successivo, su una sorta di diario, cui partecipano tutti, con scritti ma anche immagini, e del quale mi piacerebbe, un giorno, fare una pubblicazione. La dimensione di discussione, quindi, si è creata dopo un momento di solitudine iniziale. E il vero confronto arriva con le prove.

“Bisognerebbe iniziare a fissare piuttosto che guardare” si legge nella presentazione di questo lavoro. È importante che lo sguardo sia orientato?
L’angolo deve essere un catalizzatore di energie. Voglio fissare un’immagine ed è necessario che il pubblico la guardi. Bisogna avere uno sguardo più attento e le immagini non devono solo essere belle, devono essere necessarie. È un lavoro di selezione più maturo degli inizi, di quando ho cominciato. Una volta mi era sufficiente fare qualcosa di estetico, adesso non mi basta più.

Tre le presenze venete nella Generazione Scenario 2013. Qual è il legame con il territorio? Cosa spinge a restare sul territorio?
Innanzitutto è una necessità organizzativa, torno qua perché so come muovermi. Ho il falegname e il fabbro di fiducia, chiamo mio zio per costruire i miei meccanismi. E poi c’è una comunità, trovo una forza, un sostegno. Se ho bisogno dello spazio, ad esempio, so che posso chiamare gli Anagoor, che mi hanno sempre dimostrato una grande disponibilità. O Carlo Mangolini (Vice Direttore Operaestate, Direttore Artistico B.Motion Teatro, ndr) che mi ha spesso concesso lo spazio del Garage Nardini. La dimensione della piccola città mi aiuta a essere concentrata, a lavorare bene. E sto qua perché è giusto partire dalla propria città, dalla propria provincia, creare la base di un buon lavoro per poi andare fuori.

Nella home del tuo sito, si parla di un percorso che non ha una definizione precisa, di un nomadismo della forma…
Ho il mio caos mentale e voglio mantenerlo. Mi piace cambiare, tenere più strade aperte, non cercare uno stile, voglio iniziare ogni volta da zero, non riconoscermi in niente. È la forma che mi sceglie, non sono io che scelgo la forma.

*La redazione di b-stage 2013 è composta da Elena Conti, Roberta Ferraresi, Rossella Porcheddu, Carlotta Tringali