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Da Eduardo al teatro, e ritorno. Incontro pubblico con Antonio Latella

Il 3 dicembre ha debuttato al Teatro Argentina Natale in casa Cupiello, uno spettacolo prodotto dal Teatro di Roma che vede la regia di Antonio Latella confrontarsi col celebre testo di Eduardo De Filippo (in scena fino al 3 gennaio). Il giorno seguente, giovedì 4 dicembre, dopo la replica pomeridiana dello spettacolo, il regista incontra il pubblico nella Sala Squarzina dell’Argentina, con l’introduzione del direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, e l’accompagnamento di Roberta Ferraresi.
Riportiamo sul Tamburo le parole di quella conversazione pubblica, per avvicinare l’ultima opera di Antonio Latella e, attraverso questa, il suo teatro.

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

Uno dei maggiori artisti del teatro italiano, spesso al lavoro anche sulle scene internazionali, Latella è autore di spettacoli radicali, che non si sottraggono – come in questo caso – al confronto con i grandi classici del teatro. Portatore di un pensiero teatrale di ampio respiro che si esprime – oltre che negli spettacoli – in un’operatività culturale a tutto tondo: dopo aver diretto il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli nella stagione 2010/2011, il regista ha fondato una compagnia indipendente, stabilemobile. I caratteri e le linee di forza di questo progetto si possono forse descrivere propriamente attraverso il nome: è un ensemble costruito su forme di collaborazione stabili, di lunga durata e articolazione, ma che rivendica l’opportunità della mobilità, organizzandosi secondo le esigenze specifiche dei progetti che via via si vanno ad attivare.
L’occasione, nell’incontro pubblico all’Argentina, è quella di compiere un percorso a partire dal recente incontro con Eduardo De Filippo e dal suo Natale in casa Cupiello, per provare a scoprire il modo di lavorare e di fare regia di Latella e, infine, più in generale, il suo approccio al teatro.

In numerose interviste che hanno preceduto il debutto, ha dichiarato che si è avvicinato a Eduardo “come a uno sconosciuto”, mentre nel libretto di sala dello spettacolo, Linda Dalisi, la sua drammaturga, descrive il metodo di lavoro come prossimo a quello del detective, come un’investigazione a caccia di indizi fra la vita e l’opera dell’artista. Come funziona questa prima fase di ricerca drammaturgica? E che cosa avete scoperto?

Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Monica Piseddu (sua moglie Concetta) - foto di Brunella Giolivo

Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Monica Piseddu (sua moglie Concetta) – foto di Brunella Giolivo

Ho iniziato a studiare Eduardo come se mi stessi avvicinando a qualcuno che conosco, facendo finta in quel momento di non conoscerlo affatto… penso che solo così sia possibile mettersi nella condizione di conoscere qualcuno veramente.
La scorsa estate, alla Biennale di Venezia, mi è capitata una questione che mi ha suggerito come lavorare: si parlava spesso di “uccidere i propri padri”. Così mi sono chiesto: uccidi qualcuno che conosci veramente o non lo conosci affatto? E perché occorre uccidere un padre? Le strade che si aprono sono molte: pensare di uccidere il proprio padre è qualcosa di orribile, però allo stesso tempo può capitare che sia il padre ad uccidere il figlio, per aiutarlo ad andare; ed è vero anche il contrario: si uccide il proprio padre magari per troppo amore, per liberarlo dall’ossessione del quotidiano e del presente, da questa finta famiglia, per lasciarlo andare in altri luoghi. Liberando il padre, si libera anche se stessi – e questo, secondo me, è un gesto fertile.

È stata Linda Dalisi ad inventare la figura del detective. Non potevamo non tracciare un legame fra questo testo e la biografia di Eduardo, perché Natale in casa Cupiello riguarda troppo da vicino la sua famiglia. Ogni giorno incontravamo qualcosa di nuovo della sua vita, eravamo felici ad ogni scoperta, man mano che le cose cominciavano a tornare. Questo, ci ha permesso come di entrare in una famiglia e, così, gli attori hanno potuto costruire dei rapporti senza doverli inventare, ma appoggiandosi a qualcosa di concreto… era come guardare le fotografie di un album di famiglia e, grazie ad esse, trovare un punto di ispirazione per il proprio lavoro.

Ad ogni incontro con un nuovo autore, cambia il modo di lavorare, non può essere lo stesso. Ciò crea le condizioni per aprire la propria testa e anche, eventualmente, per perdersi. Ma questa possibilità si realizza solo quando hai una squadra che ti rende sicuro: è un “grande tuffo” che si può fare soltanto se sai che c’è qualcuno che ti aiuterà a “tornare a galla”. Così, devo ringraziare stabilemobile – il gruppo che mi accompagna –, ma anche gli attori di questo spettacolo, che – devo dire – sono un ensemble davvero straordinario.

Monica Piseddu (Concetta Cupiello) - foto di Brunella Giolivo

Monica Piseddu (Concetta Cupiello) – foto di Brunella Giolivo

Un elemento cardine del suo lavoro in teatro si può forse trovare nel rapporto con la tradizione, come abbiamo visto con Goldoni o Shakespeare. Per descrivere il suo approccio a Eduardo, però, ha preferito in diverse occasioni usare piuttosto il termine “eredità”. Qual è, a suo avviso, l’eredità che ci ha lasciato De Filippo?
L’eredità è qualcosa di diverso dalla tradizione.
Quando si sente parlare tanto di tornare al teatro tradizionale, credo ci sia un equivoco: come dice Eduardo, la tradizione è un trampolino per andare verso il domani, si tratta di utilizzarla per andare verso il futuro, non per rifare qualcosa che è già stato fatto, come spesso capita. C’è da dire, fra l’altro, che spesso è già stato fatto meglio: non potrei mai fare uno spettacolo come Eduardo, perché l’ha già fatto talmente bene lui, la sua voce è ancora presente, così come la sua capacità di impegnarsi sulle parole, di perdersi… è tutto lì, dietro l’angolo – e sarebbe assurdo cercare di farne una “cartolina”.

Senza dubbio, la tradizione è qualcosa di cui si dovrebbe andare fieri. Ma l’eredità, secondo me, è qualcosa di diverso. Anche perché stiamo parlando di autori – Eduardo De Filippo, ma non solo – che hanno rischiato continuamente per mantenere vivo il teatro e il senso di fare teatro. Al loro tempo, non erano tradizione, ma contemporanei; e credo che questo dato della contemporaneità sia importantissimo per affrontarli.

Studiando Eduardo, ho sentito che aveva un incredibile coraggio, nel senso – lo chiamerei – del “punto e basta”: metto un punto e vado a capo, e ricomincio. L’ha fatto con il teatro napoletano: ha messo un punto alla sceneggiata, a un modo di fare teatro, per trovarne un altro, uno nuovo. E lo racconta. In questo testo, vuole fare un presepe nuovo, con le casette del Novecento o l’acqua che scorre, un presepe che parli di noi. È ovviamente una metafora del teatro, e lo è soprattutto alla luce del rapporto padre-figlio. C’è un figlio a cui il presepe non piace, che lo rifiuta; ma il padre, di fronte a questa negazione, trova ogni anno un modo per rendere il presepe più contemporaneo (appunto, dall’aggiungere l’acqua “vera” alle marionette), per cercare di stare di più dalla parte del figlio. Ma, alla fine, nel momento in cui questi dirà “sì, mi piace il presepe”, ucciderà il padre; o, meglio, lo libererà dal compito di trovare un suo testimone, il suo erede. E allora il figlio è pronto per cominciare a fare il proprio presepe.

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

Natale in casa Cupiello è un testo che si è sviluppato tramite una genesi particolare: Eduardo ha scritto una prima parte (quella che oggi corrisponde al secondo atto) nel ’31, per poi aggiungere il primo atto nel ’32 e, diversi anni dopo, la terza e ultima parte. I tre atti, nello spettacolo, utilizzano registri e linguaggi molto diversi. Queste differenze possono in qualche modo coincidere con la vicenda artistica e biografica dell’artista, visto che avete lavorato molto su questo piano?
Credo di sì, ma questo è il punto di domanda meraviglioso per affrontare questo autore e questo testo. Quando scrisse il secondo atto, nel ’31, ci si trovava in quel particolare momento storico in cui il teatro si faceva dopo un film: dopo la proiezione, il pubblico rimaneva in sala, si alzava lo schermo e gli attori rappresentavano un pezzo di teatro. Quindi bisognava essere bravi, seduttivi, ironici; era molto varietà, perché soprattutto bisognava “tenere” il pubblico.

Qui c’è la spinta che mi ha mosso verso questo testo: perché un autore ha sentito il bisogno di continuare a scrivere qualcosa che funzionava ed era già in sé compiuto? Perché, negli anni, ha avuto la necessità di aggiungere la prima parte e, poi, molto tempo dopo di scrivere quella finale? Questa ossessione l’ho trovata qualcosa di meraviglioso. È come se volesse prendere le distanze da quel secondo atto, per dichiarare che era nato in un certo contesto storico, in cui per lui c’erano alcuni obiettivi di primaria importanza, ma per dire anche che è altro da quello, che è un autore diverso. Questo cercarsi fra il primo e il terzo atto, per me, è stata una spinta di curiosità, nell’affrontare Natale in casa Cupiello.

Nel suo lavoro, l’incontro con i classici è qualcosa che ritorna e, anche qui con Eduardo, ci troviamo di fronte a un’operazione drammaturgico-registica rigorosissima, che lascia piuttosto intatta la dimensione testuale e però allo stesso tempo sembra riscriverla completamente, dal punto di vista attoriale, visivo, scenico. Che rapporto c’è, secondo lei, fra testo e immagine? E come lo costruisce, come ci lavorate?
Anche in questo caso, spesso lo suggerisce lo studio dell’autore: mentre studi, arrivano delle immagini, perché magari lui parla di musica o di pittura, e allora riesci ad entrare nel suo grande immaginario. Questa è una delle possibilità, altre volte non è così. Per me, la riscrittura scenica è fondamentale e l’ossessione per la regia qualcosa di davvero importante: non è difficile fare regia, quello che è difficile è continuare a studiarla, mettendosi nella condizione di indagarla, farti lo sgambetto, per scoprire cosa ti muove oltre te e non rifare sempre la stessa cosa. È come fare il presepe: cerchi di farlo in modo diverso, non per essere alternativo per forza, ma per scoprire qualcosa di nuovo di te. E questo ti fa sentire vivo, stabile e mobile allo stesso tempo: in movimento continuo nella stabilità della tua ricerca.

Chi conosce il mio lavoro sa che non amo il realismo. Credo che oggi – come ha detto Heiner Müller, maestro che ha cambiato il teatro del Novecento europeo – non abbia senso vedere una stanza finta su un palcoscenico. Forse ha più senso tornare a Shakespeare, che dice chiaramente “siamo in una stanza finta”, e tutti ci crediamo. Questa è la magia del teatro, è la possibilità del teatro.
Tolto dal realismo, questo testo diventa epico, si trasforma in qualcosa che riguarda veramente tutti, si mostra come la famiglia di tutti.

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

Questo tipo di approccio ai grandi classici del teatro occidentale ha dato vita a spettacoli che hanno avuto un certo impatto sul pubblico. Qual è la sua idea di rapporto con lo spettatore? Cosa vuole che arrivi, cosa desidera che accada in platea?
Sono un regista che pensa molto al pubblico: mentre lavoro non smetto mai di pensare che ci sarà lo spettatore, ed è qualcosa che in qualche modo velato dico anche all’attore. Considero il pubblico la possibilità performativa del teatro, perché è la sua presenza che cambia ogni volta, ogni sera il teatro.
Quello che oggi mi interessa a riguardo – e mi piacerebbe interessasse anche i direttori artistici – è che bisognerebbe avere il coraggio di mettere il pubblico nella condizione di potersi schierare: non dire se un lavoro è bello o brutto, ma se sto da questa parte o non ci sto, se sto insieme ai nuovi linguaggi o preferisco rimanere vicino a quelli che conosco; mettere lo spettatore a confronto con quei nuovi linguaggi, anche per poter dire “no, non mi interessano”. Questo significa prendere una posizione. Penso a un pubblico che si schiera, nel bene e nel male – anche un pubblico che va via, chapeau, perché prende posizione rispetto a quello che vede. Per fare questo, però, un direttore deve avere il coraggio di rischiare di perdere qualche abbonato e però magari essere contento di trovare un nuovo pubblico.

Oltre al confronto coi classici, il suo lavoro di recente si è concentrato più ampiamente sui canoni stessi della nostra cultura e società – dalla nascita degli Stati Uniti con Via col vento (un romanzo e un film), all’American Dream del boom, fino all’ultimo percorso all’interno dei totalitarismi europei (da A.H. alle Benevole, romanzo di Jonathan Littell). Come si inserisce l’incontro con Eduardo in questo contesto?
Forse Eduardo apre un nuovo percorso, credo di averlo scoperto in questo periodo: quello del rapporto con l’eredità e quindi della relazione padre-figlio. Penso che in futuro lavorerò su questo, su testi che trattano questo argomento.

Veniamo quindi al tema della famiglia. Il testo sembra lavorare piuttosto esplicitamente su alcuni mutamenti epocali in corso nei tempi in cui è stato scritto: il passaggio da una società e da un modello di famiglia patriarcale, contadina, autoritaria, alla modernità urbana in cui i figli si ribellano ai propri padri. A suo avviso, che rapporto c’è fra teatro e realtà? Si tratta di rispecchiamento, testimonianza, oppure l’arte può incidere sul mondo che la circonda?

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

I nostri padri parlano molto di noi, della nostra realtà. Così, credo che forse, oggi, noi stiamo parlando di quella dei nostri figli. C’è uno spostamento. Spesso, i testi teatrali che parlano dell’oggi spesso perdono la potenza classica e quindi non hanno questa forza. Per esempio, ogni volta che leggo un nuovo testo, mi chiedo come sarà fra cinquant’anni e capisco se il testo funziona o no, se è giusto per questo momento o se avrà una storia anche domani o dopodomani. C’è una differenza. E questa differenza è la classicità, un parola che ci fa tanta paura, ma è la potenza di un testo, anche quando è contemporaneo: essere classico, cioè avere la capacità di affrontare argomenti che ci toccheranno comunque e sempre. Questo credo abbia a che fare con la realtà.

In questa conversazione abbiamo potuto cogliere alcuni indizi di un modo di approcciarsi al teatro e di lavorare, di un’idea e di una pratica della scena che si lega alla creazione degli spettacoli, ma si sviluppa anche in direzioni più ampie. Ha diretto un teatro e ha fondato poi una compagnia indipendente, per cui vorrei infine chiederle quale ruolo, a suo avviso, ha o potrebbe avere il teatro nella nostra società, cosa potrebbe fare un teatro nel nostro tempo.
Tante cose. Questa domanda apre a molte risposte possibili. Probabilmente, quello che in Germania si definisce Volksbühne: ridare il teatro al popolo, ma in tutti i sensi, non solo a una fetta di popolo. Il teatro dovrebbe essere una vera piazza d’incontro, perché è l’unica possibilità che abbiamo. Andare a teatro significa fare una scelta: scelgo, pago un biglietto e vado a vedere qualcosa e a sentire delle parole, mi regalo del tempo. Per questo motivo, bisogna avere rispetto di tutto il popolo, anche di chi non va a teatro, e metterlo in condizione di capire che lì ci sarebbe un posto anche per lui, se ci volesse provare.

Incontro pubblico e trascrizione a cura di Roberta Ferraresi

Per approfondimenti sul teatro di Antonio Latella:

Intervista ad Antonio Latella, da MEIN HERZ, edizione 2013 di Drodesera, dove ha debuttato A.H. (di Elena Conti e Roberta Ferraresi) >>>leggi l’intervista>>>

Francamente me ne infischio di Latella, o dell’euforia infelice
 >>> leggi la recensione di Nicoletta Lupia>>>

Tra Molière e Frisch c’è Latella (una recensione di Don Giovanni, a cenar teco di Carlotta Tringali) >>> leggi l’articolo>>>

Il Tram di Latella: realtà, finzione e America >>> leggi la recensione di Roberta Ferraresi >>>

Altri articoli dalla rassegna stampa web del Tamburo >>> sfoglia la rassegna >>>

 

Intervista ad Antonio Latella

Antonio Latella (foto Andrea Pizzalis)

Antonio Latella (foto Andrea Pizzalis)

Abbiamo incontrato Antonio Latella a MEIN HERZ, festival di Centrale Fies all’interno del quale presentava, assieme alla sua compagnia stabilemobile, A.H., un lavoro interpretato da Francesco Manetti che si muove intorno alla figura di Adolf Hitler, affrontando le tragedie che hanno segnato l’Europa nel secolo scorso e le ragioni che ne hanno permesso la concretizzazione. A.H., con la sua partitura travolgente, si muove fra performance e un universo testuale ricchissimo, portando in scena una riflessione sul male che non lascia scampo: pur valorizzando i rapporti fra estetica e politica, fra teatro e memoria, facendosi esplicitamente carico di guardare con lucida precisione le vicende che hanno segnato l’Occidente novecentesco, è una materia capace anche di prescindere dalle coordinate spazio-temporali per aprirsi ad affondi umanissimi, che evocano qualità di una dimensione tragica che attraversa epoche, vicende, storie.

L’incontro con Antonio Latella racconta del processo creativo che ha dato vita allo spettacolo, delle scelte autoriali e dei riferimenti che ne compongono la tessitura, ma diventa anche un’occasione di discussione più ampia: sui rapporti fra testo, attore e regia, sull’approccio alla scena e alla cultura, sul possibile ruolo, infine, che, oggi, può avere il teatro.

Come è nato A.H. e come si colloca all’interno della sua ricerca?
Quello che faccio di solito – anche di più da quando c’è stabilemobile – è darci un tema e, su questo, sviluppare più lavori. In questo modo, lo spettacolo non viene vissuto ogni volta come una prova, ma diventa uno dei tanti appuntamenti intorno a un tema, diventa parte di un processo.
A.H. ha origine dal bisogno di confrontarsi sul tema della menzogna, percorso di cui fanno parte Die Wohlgesinnten, spettacolo dalle Benevole di Jonathan Littell, anch’esso sul nazionalsocialismo, che debutta nell’ambito di Romaeuropa Festival e un lavoro su Peer Gynt, il testo classico per eccellenza che tratta la menzogna; in questo percorso si colloca anche la creazione del Servitore di due padroni. Ci sono più appuntamenti, uno diverso dall’altro, ma riuniti tutti all’interno dello stesso tema: per me, è come fare un unico grande spettacolo.

"A.H.", Francesco Manetti (foto Brunella Giolivo)

“A.H.”, Francesco Manetti (foto Brunella Giolivo)

Francesco Manetti lavora da moltissimo tempo con me – come coach, trainer, assistente alla regia… fa moltissime cose – e credo sia oggi la persona che più possa tradurmi in scena. È più di un attore, nel senso che è una persona che mette la sua arte a servizio di un progetto. Sono un regista che lavora sull’attore e sull’autore – queste sono le mie tematiche, le mie ossessioni, quello su cui mi piace lavorare e su cui oggi, ancora di più, cerco di focalizzare lo studio della regia. Aggiungo che non penso mai a me stesso come a un regista, ma piuttosto come a qualcuno che studia la regia; questo porta non solo a evitare di ripercorrere sempre gli stessi linguaggi, ma anche alla possibilità di scardinarli. Infatti, diverse volte, c’è difficoltà a etichettare il mio lavoro: passo da uno spettacolo da stabile a uno off, da un lavoro di ricerca a uno solo di movimento. È quello che, in assoluto, oggi mi interessa di più di questo lavoro: dimostrare – anche per questo per me è interessantissimo stare qui a Fies – che il teatro oggi non ha più limiti di categoria, nonostante si provi ancora ad etichettarlo. Continuare in questo tentativo è una giustificazione, ed è anche consolatorio, perché, riconoscendosi in un genere, sai che lì puoi “stare a casa tua”. Il teatro è teatro. Punto. Quello che mi interessa, e che è più difficile, è di non restare a casa propria, per vedere cosa succede – a te stesso e agli altri.

Come è nata e come si è sviluppata la collaborazione con Francesco Manetti?
Quando comincio un nuovo lavoro, c’è una cosa che ormai faccio quasi sempre: dare dei compiti prima dell’incontro – libri da leggere, cose da scrivere, canzoni da scegliere, video da vedere. Poi, questi “compiti” vengono condivisi e si comincia a lavorare. A.H. è uno dei casi che chiamerei di teatro di drammaturgia totale; nel senso che per me tutto, in questo caso, è drammaturgia. Questo è stato possibile perché c’è un attore come Francesco: penso che tutto diventi drammaturgia perché nasce da lui, da cose che gli chiedo e dalle sue improvvisazioni. La scena sulle armi, ad esempio, è una sequenza che potrebbe fare solo Francesco: insegna combattimento scenico in tutta Europa e per me era interessante togliergliele, per metterlo nella condizione di farci vedere la guerra, la storia della guerra attraverso la storia dell’arma. Tutto è pensato su di lui. Anche i testi sono nati, non prima, ma dopo l’incontro con lui. Quindi, non sappiamo più chi abbia scritto cosa: ci sono testi nati da Francesco, altri da Federico (Bellini, ndr), altri ancora da me: è veramente un’operazione collettiva, posso dire che è un’operazione di stabilemobile in tutto e per tutto, a 360 gradi.
È un approccio che uso anche in altri casi: per me è fondamentale la persona, non decido mai prima come farò una certa cosa, se non so chi la farà. La scelta delle persone che lavoreranno a un progetto è molto intima e lunga. È un approccio fortemente autoriale, anche quando il testo è un classico, anche quando è già scritto.

Vorremmo chiederle di raccontare qualcosa del processo di lavoro. A.H. si costituisce di un denso tessuto di estratti, citazioni, riferimenti a numerose testualità – letterarie, visive, sonore – differenti. Come sono stati selezionati e poi rielaborati nella fase di montaggio?
Il processo di lavoro è stato strano: lavorando, prima di venire qui, era diventato uno spettacolo comico; non ci dormivo la notte, mi dicevo che non era possibile: quello che vedevo mi piaceva moltissimo, ma non era quello che si poteva e si doveva fare. Dopodiché ci siamo messi nuovamente a parlare della materia. Ricordo che in quel momento avevo in mano un mandarino – ho quest’abitudine di rompere la buccia in pezzetti piccolissimi – e ho pensato che, forse, avremmo potuto ripartire proprio da quei pezzetti: dal frammento, dall’ossessione di spezzettare-spezzettare-spezzettare una vita umana, un’idea, che poi diventa maceria. Il percorso di lavoro è nato da questo: prima una drammaturgia visiva, su cui sono state poi scelte le cose da dire; la partitura fisica, così, ha compreso il testo, come se fossero delle note. Pur avendo moltissimo materiale, il testo è rimasto a servizio della partitura.
Ci sono vari riferimenti. La prima parte nasce da improvvisazioni di Francesco sul tema della menzogna; poi ci sono i comandamenti – non una scelta provocatoria, quello che mi interessava dire è che in ogni processo di creazione, fin dalle origini, c’è il dittatore, ci sono il bene e il male –, quindi siamo arrivati alla Bibbia e alla Creazione. E poi, per me, non poteva non esserci – ma questa è un’ossessione mia e di Federico – Heiner Müller, è il punto di riferimento in tutto il lavoro che facciamo e, per quanto mi riguarda, credo sia colui che ha cambiato totalmente la drammaturgia del Novecento europeo. Un omaggio a Müller si trova nella sequenza del cane: quando riscrisse l’Arturo Ui di Brecht, fece recitare Martin Wuttke – suo strepitoso attore – non commettendo l’errore banale in cui spesso si incorre, mettendogli la divisa e altri segni di questo tipo, ma facendolo comportare come un cane: aveva sempre la lingua di fuori, totalmente rossa, si capiva che era uno affamato, che voleva mangiarsi tutto quello che c’era intorno.

"Die Wohlgensinnten", Thiemo Strutzenbergher (foto Ralf Hoed)

“Die Wohlgensinnten”, Thiemo Strutzenbergher (foto Ralf Hoed)

Che rapporto c’è tra teatro, arte, l’elaborazione autoriale e creativa, e la sua posizione rispetto alla storia, nel senso anche di memoria collettiva? Esiste una forma di responsabilità dell’autore a livello intra- ed extra-teatrale? Poi, in questo caso, sta trattando di Hitler, una figura per molti versi ancora tabù, legata a vicende e fatti non del tutto rimarginati e assorbiti.
È un argomento che, per me, si è chiarificato da non molto tempo. Prima pensavo che fare questo lavoro fosse una necessità; oggi, invece, posso dire che penso che sia soprattutto un dovere, rispetto a me stesso e alle generazioni che verranno: c’è bisogno che ci sia qualcuno che testimoni da tutti i punti di vista – storico, politico, artistico –, c’è bisogno di qualcuno che racconti cos’era il teatro una volta, così come che cos’è stato il male del Novecento. Anche se credo che sia difficile dare una risposta o esprimere un giudizio, ma penso che il dovere del teatro, oggi, sia più di ogni altra cosa la testimonianza e, attraverso la scelta di cosa testimoniare, probabilmente è possibile far capire cosa se ne pensa.
Il rapporto con la storia per me è incredibile. Per quanto mi riguarda, affrontare un tema come questo, oggi, è importantissimo soprattutto per il periodo storico che stiamo vivendo, un medioevo – innanzitutto culturale – terribile, un periodo storico pericolosissimo, soprattutto in Italia. Non si può non testimoniarlo, credo sia fondamentale, per me è necessario.
Questo tema è stato trattato in tantissimi modi, quello che ho cercato di fare è stato di renderlo completamente trasparente e accecante. Ho cercato di non scendere mai nel grottesco, in una qualche caratterizzazione, di non involgarirlo né di trovare la battuta facile; su temi come questo, di solito, si arriva fino a un certo punto e poi si sente il bisogno di utilizzare il grottesco per esorcizzare, perché il dolore è troppo grande e non si può andare oltre: si “mettono i baffi” – invece di toglierli –, perché si ha paura di affondare.

Per quali ragioni ha scelto il tema della menzogna?
La scelta nasce anche da un problema mio, come regista: lavorare in teatro significa avere a che fare con una materia che non resterà mai, perché, quando finisce lo spettacolo, quello che ne resta è forse il testo, forse le tracce nella memoria di qualche spettatore che lo potrà raccontare, ma poi anche coloro che l’hanno visto se ne andranno. Il teatro è un mezzo che usa l’artificio – mi piace proprio per questo motivo –, ma è il luogo in cui tutto può diventare vero, in cui tutto diventa verità perché è il luogo assoluto della menzogna – non in senso negativo –, della fantasia, del bambino che può rendere tutto vero. Mi sono chiesto come fosse possibile trasmettere quest’idea: per me, quello della menzogna è un tema teatrale – oltre che politico e culturale – e oggi mi interessa dichiarare questa consapevolezza, come a dire allo spettatore: “accetta l’inganno, ma non farti ingannare”. In questo momento, per me, è uno dei temi fondamentali, forse anche una delle motivazioni che mi ha dato il coraggio di fondare una compagnia, un luogo ideale in cui la creatività fosse totalmente non condizionata da mercati, da quello che gli altri vorrebbero che tu facessi. In questo senso, il Tram è una dichiarazione: tutto è finto.
Quando si riesce a focalizzare l’attenzione su altre prospettive, di colpo i testi – anche quelli che pensavamo morti e sepolti – diventano leggibilissimi assumendo un valore epico, ancora evocativo – il senso del tragico dell’uomo e dell’attore che Francesco consegna, che è il nodo che mi interessa.

intervista a cura di Elena Conti e Roberta Ferraresi

Prossime repliche degli spettacoli citati:

> Die Wohlgensinnten
12, 13 ottobre, Teatro Eliseo / Romaeuropa Festival
18-19 ottobre, 8-9 e 30 novembre, Schauspielhaus Wien

> A.H.
15 > 20 ottobre, Milano, Teatro OUT OFF
22 > 24 ottobre, Modena, Teatro delle Passioni
25, 26 ottobre, Firenze, Cantiere Florida
27 ottobre, Terranuova B.ni (Ar), Le Fornaci
6 novembre, Potenza, Festival Città delle 100 Scale
8 novembre, Cosenza, Teatro Morelli
14 > 17 novembre, Napoli, Teatro Nuovo

> Il servitore di due padroni
21>24 novembre, Cesena, Teatro Bonci
27 novembre> 1 dicembre, Venezia, Teatro Goldoni
3 dicembre >8 dicembre, Padova, Teatro Verdi
10>11 dicembre, Correggio, Teatro Asioli
12>18 dicembre, Modena, Teatro Storchi

 

Francamente me ne infischio di Latella, o dell’euforia infelice

Recensione a Francamente me ne infischio (1. Twins, 2.Atlanta, 3.Black) – di Compagnia Stabile/Mobile Antonio Latella

"1.Twins" - foto di Brunella Giolivo

“1.Twins” – foto di Brunella Giolivo

1936, Margaret Mitchell pubblica il romanzo Via col vento, che diventa immediatamente un caso: 180.000 copie vendute in quattro settimane. 1939, Victor Fleming trasforma il romanzo nel film campione di incassi, tuttora imbattuto nella storia dei botteghini degli Stati Uniti e vincitore di dieci premi Oscar. Via col vento è una porzione della storia e della cultura americane e, in quanto tale, assorbe e rifrange, amplificandoli, i limiti, le aspettative, la crudeltà e le contraddizioni di una nazione. Dopo Un tram che si chiama desiderio – altro saggio teatrale sugli Stati Uniti e la loro decadenza (leggi la recensione) –, Antonio Latella torna sul soggetto: ancora l’America, ancora Vivien Leigh, ancora uno spettacolo ispirato a un film. In un impianto scenico semplice – che vede l’allitterazione di gabbie/casine bianche, in cui si accendono grappoli di lampadine, e di bandiere a stelle e strisce che diventano siparietti, vestiti, coperte –, Latella muove i suoi personaggi sovrascrivendoli a una drammaturgia ragionatissima.
Francamente me ne infischio si articola in cinque movimenti indipendenti ma coerenti e liberamente fruibili, ai Teatri di Vita di Bologna, nel modo che si ritiene più adeguato (uno di cinque, tre di cinque, l’intera maratona): Twins, Atlanta, Black, Match e Tara. Chi ne scrive ha optato per la seconda formula.

Tre Rosselle e tutte in una sola: l’America.
Il primo episodio, Twins, ricorda la filastrocca sospirata da una bambina. La giovane Rossella (Valentina Vacca), Alice nello spaesamento delle meraviglie, abito a pois e scarpette rosse, sogna. Sogna due Bart Simpson – mascherine di paillettes –, due Marilyn – vestite di bandiera, nelle pose delle sue foto più famose –, Neil Armstrong che gioca alla conquista degli Stati Uniti, lui così fiero di aver fatto sua la Luna, e perde. Imbronciata, Rossella cerca il suo Ashley, mentre i gemelli Tarleton, in rima, le raccontano il suo stesso fallimento. E l’America scorre languida, quasi ancora docile e divertita, ma già capricciosa e irragionevole nella sua aspirazione alla grandezza (alla maturità?).

"2.Atlanta" - foto di Brunella Giolivo

“2.Atlanta” – foto di Brunella Giolivo

Il secondo movimento, è un canto funebre stonato da una vedova allegra. Rossella (Candida Nieri) è una moglie sopravvissuta a un marito mai amato, mosca che si immagina farfalla, madre senza volerlo essere, ancora monella indisponente, eppure malinconica. Ad Atlanta c’è il ballo, si finge il benessere e lei vuole essere bella, con il suo vestito verde-dollaro e il cavaliere che invita, invadente, dal pubblico. E l’America diventa una donna che finge dietro grandi occhiali alla Audrey Hepburn. Avida, cinica, lugubre, tinge di nero il suo vestito bianco di bambina in un catino di bronzo.
Black è un grido terrorizzato abbaiato da un rifiuto, una belva umana ferita divenuta incendiaria. Rossella, una straordinaria Caterina Carpio, è reietto – come l’indiana e la “serva negra” che la accompagnano –, le è stata usata violenza, le è stato dato un movente per far esplodere la sua furia. Non più infantile, ma essere umano maturato nel peggiore dei modi, sceglie la vendetta e, finalmente, fa emergere la sua anima nero-petrolio che, intravista fino a questo punto, ora tracima. Aver perso l’ingenuità, però, non vuol dire aver acquisito lucidità, anzi: la belva Rossella non ha più criteri, né valori, né affetti; la guidano solo la ricerca del suo benessere, l’espiazione delle sue colpe, il superamento del suo dolore. E l’America brucia, è a pezzi, è vulnerabile, eppure fa la voce grossa, si impone, pistola alla mano, sulle minoranze della sua Storia e prevale.

"3.Black" - foto di Brunella Giolivo

“3.Black” – foto di Brunella Giolivo

Non è difficile riconoscere i segni disseminati sul palcoscenico di Francamente me ne infischio da Antonio Latella, non lo è leggerli: il ritratto degli Stati Uniti è fin troppo esplicito, a volte, volutamente puerile, spesso paradossale, eccessivo, come la nazione stessa. E il fatto che Rossella se ne faccia metafora è manifesto. Ma ciò che veramente sconvolge, l’asse portante sul quale si avvita l’intero spettacolo, dal delineamento dei personaggi a quello della protagonista – ancora una volta, l’America –, è la drammaturgia. L’opera compiuta da Federico Bellini, Linda Dalisi e dallo stesso Latella è estremamente sottile e consapevole e prevede, oltre alle evidenti citazioni del romanzo e del film – alcune delle quali materialmente lette come didascalie –, una serie di innesti originali, come il discorso di ringraziamento dell’attrice che interpreta Mummy, vincitrice di un Oscar speciale, o le massime di grandi intellettuali di colore, in un preciso dialogo con eterogenei e originali materiali testuali all’insegna della decostruzione. Il tessuto verbale, insieme ad alcune felici soluzioni sceniche – rimane memorabile, nel terzo episodio, il cumulo di bandiere americane imbevute di Jack Daniel’s intorno alle quali, come in un sabba pop, si dimena per un tempo indefinito Caterina Carpio – sottraggono lo spettacolo alla facile accusa di parossismo di chi si domanda: non sarà troppa, tutta questa America?

Visto ai Teatri di Vita, Bologna

Nicoletta Lupia

Dalla Russia con Euripide e Antonio Latella

Stabile/Mobile Compagnia Antonio Latella sbarca a Novosibirsk (Siberia) con un progetto su Elettra, Oreste, Ifigenia in Tauride di Euripide

La locandina degli spettacoli

Elettra, Oreste, Ifigenia in Tauride: l’altra faccia dell’Orestea, si potrebbe dire. Legata alla fondativa trilogia eschilea, eppure così lontana; come appunto Euripide, l’autore di questi testi, è sembrato fin da subito distantissimo da Eschilo e da Sofocle. Un’Orestea di uomini comuni e non di grandi eroi, frantumata in scene autonome e nel profilo personale, negli abissi e nelle considerazioni dei singoli personaggi – i tre fratelli figli di Agamennone e Clitennestra – prima o dopo il fatto-chiave (il matricidio di Oreste), mentre la storia “principale” resta sullo sfondo, nella tipica cifra stilistica e concettuale dell’ultimo grande tragediografo classico a noi noto.

Classico si fa per dire: detestato tanto dai colleghi quanto dal grande pubblico, portatore di nuovi valori e costumi (spesso associati dalla critica a un’improbabile bassa estrazione) e perciò accusato di corrompere gli animi assieme a Socrate, che gli fu amico e forse addirittura collaboratore, Euripide fu un autore di grande rottura, che visse sul crinale delle Guerra del Peloponneso. Ovvero fra l’antica Atene, classica e democratica, e il nuovo mondo che, straziato dalla guerra civile e dalla malattia, impoverito di risorse e addirittura privato della propria celeberrima flotta, cede il passo al regno macedone (dove non a caso poco dopo si rifugiò lo stesso Euripide). Visse dunque fra l’equilibrio della classicità, con il suo pantheon di dei e il rigore delle leggi (siano esse della polis o dell’oikos) e il delirante individualismo che ne seguì, nel bene e nel male, con l’avvento di valori socio-culturali del tutto inediti. Qui ci aspetta Antonio Latella, con un “trittico” dedicato all’Orestea, o, meglio, alla sua profonda revisione euripidea. Ora in tournée in Italia con Don Giovanni e Un tram che si chiama desiderio (leggi la recensione), il regista è stato impegnato fino a poche settimane fa nel processo artistico che ha condotto all’allestimento delle tre tragedie. Un progetto di una certa importanza: intanto perché Latella torna, dopo Studio su Medea, alla tragedia classica e allo stesso Euripide, ma soprattutto perché la produzione di questo nuovo lavoro è basata a Novosibirsk, capitale del distretto siberiano in Russia. In seguito alla masterclass condotta in città a febbraio 2011, il Teatro Staryj Dom ha invitato il regista a dirigere la propria compagnia stabile di attori; Latella ha scelto Elettra, Oreste e l’Ifigenia in Tauride di Euripide e, dopo un primo momento di incontro nell’agosto scorso e le prove nel 2012, l’ensemble è giunto al debutto nelle scorse settimane (29 marzo-1 aprile) e attende ora le repliche al New Siberian Transit, festival che è la manifestazione di teatro contemporaneo più importante dell’area.

foto di Andréj Shapràn

Una compagnia stabile di attori e attrici russi incontra un regista italiano per allestire tre tragedie di Euripide: la Grecia antica coi suoi celebri eroi, la Russia di oggi, un artista che ha saputo far incontrare nel proprio lavoro il proprio paese d’origine con la dimensione internazionale, procedendo a progetti e percorsi intrecciati, e che, con la fondazione di Stabile/Mobile, ha scommesso su una compagnia che è la materializzazione di una nuova mentalità culturale, capace (come dice anche il nome) di «trovare una sintesi tra necessità di stabilità e tensione alla mobilità». Il filo rosso che lega queste diverse polarità non si trova (o non solo) nel prezioso “nomadismo” che distingue il radicamento delle produzioni di Latella e della sua compagnia, né nel semplice riavvicinamento alla culla del teatro occidentale con la grande tragedia greca. Piuttosto sembra esserci un nodo che si potrebbe dire “politico” a ritornare tanto in questo progetto così come nei precedenti (Il tram ma anche Francamente me ne infischio, ciclo ispirato a Via col vento), a indicare forse una traiettoria che il regista e il suo gruppo stanno percorrendo da un po’ di tempo: è l’attenzione per il rinnovamento, per il confronto fra le vecchie modalità consolidate e le inedite forze che spingono per il cambiamento. È proprio su questo crinale che ci aspetta, assieme ad Euripide, Antonio Latella.

Oreste, come le sue sorelle Elettra ed Ifigenia, ha perso la propria identità e non è certo accompagnato dalla guida o dal commento del Coro: tutti provengono da un mondo che non esiste più, frantumato nelle individualità che lo continuano a comporre, dilaniato da conflitti e sgretolato in tutte le sue declinazioni (sociali, politiche, ecc.). Come i personaggi di Euripide – ma forse anche come l’autore stesso e Stanley del Tram – sono confusi, dubbiosi, insicuri; ma anche portatori di nuove idee… «Valori indecifrabili» si dice nella presentazione del trittico, ma anche destinati a diffondersi, forse a radicarsi prendendo il posto di quel vuoto, di quel senso di smarrimento? La domanda è aperta.
Questa linea espressa da Antonio Latella nelle note di regia è certamente al cuore dei pensieri e delle azioni dei personaggi euripidei, come di quelli del Tram o di Via col vento; anche dell’opera stessa di Euripide, con tutta la Grecia delle polis pronta a sgretolarsi alle sue spalle, senza eroi e senza dei. Ma è quanto mai pregnante anche ai giorni nostri: certo in Italia, ma anche in Russia, un Paese che in tempi recenti ha visto polverizzarsi la propria struttura (politica, ma anche sociale e culturale). Le società in cerca di se stesse delle grandi nazioni occidentali entrano con forza nel lavoro di Latella: ancien regime e nuove forze si confrontano, chi sull’orlo dell’abbandono, chi pronto ad imporsi. Non c’è soluzione: l’interrogazione che parte dalle note di regia – «vittoria o sconfitta?» – rieccheggia anche nel lavoro di questi attori russi alle prese con la tragedia classica; la risposta è forse nei loro corpi e nelle loro voci, nei loro pensieri, di chi continua a fare teatro per domandarselo e cercare una strada dentro e fuori il palcoscenico.

Roberta Ferraresi