Recensione a El Box – Ricardo Bartís / Sportivo Teatral
A Biennale ormai finita si fa i conti con i numeri di questa edizione, decisamente straordinari se rapportati agli anni passati: un tutto esaurito che colpisce soprattutto chi tra i più scettici pensava che il costo del biglietto (tra i 25-20 euro) avrebbe disarmato anche i più volenterosi. E invece no, le sale erano piene zeppe di pubblico e di operatori; a richiamarli sono grandi nomi, dal suono esotico, grandi maestri non ancora passati da Venezia o di difficile intercettazione… Ci voleva insomma un direttore artistico internazionale e un ben più giovane delle media italiana (il quarantenne regista catalano Àlex Rigola), per stuzzicare Venezia con grandi aspettative. Le stesse motivazioni spingono il pubblico a riempire la doppia replica di El Box (La Boxe) della compagnia argentina Sportivo Teatral diretta da Ricardo Bartís.
“Sgarrupato”, è il primo termine che viene in mente, una volta seduti in platea nella suggestiva cornice del Teatro alle Tese all’Arsenale di Venezia. La scena ritrae una vecchia palestra, che è anche casa e studio, una struttura importante che riproduce un ambiente logoro, dalle pareti sporche, saturo di cianfrusaglie sparse qua e là, di mobili usati e ormai retrò. Una scena insolita per il pubblico italiano, ma simile a molte altre dei teatri argentini: ovvero strutturata esattamente sull’architettura della sala – trasformata in teatrale – in cui la compagnia svolge la propria attività. È in un ex-deposito di ambulanze che ha sede lo Sportivo Teatral, nel quartiere Palermo, uno dei più antichi della città di Buenos Aires. È in questa città che si svolge gran parte dell’attività teatrale dell’intero Paese: dai grandi musical di Avenida Corrientes, ai teatrini indipendenti di Avenida Humahuaca; un panorama certamente altro, con una storia e una società lontane ma a cui in un certo modo ci si sente affini.
Già da questi piccoli indizi si riesce a intuire come l’impronta sia diversa da quella di gran parte del teatro europeo contemporaneo. Se infatti in Italia, ma anche all’estero, tecnologia e immagine sono all’ordine del giorno, in Argentina è la drammaturgia a caratterizzare la contemporaneità. Ricardo Bartìs insieme al suo collettivo, con cui lavora dal 1986, ha costruito la trilogia sullo sport che, iniziata con La Pesca, terminerà con El Fùtbol (“il calcio”). L’opera presentata a Venezia, seconda parte della trilogia, vede protagonista della vicenda María Amelia (Mirta Bogdasarian), una donna in un mondo di uomini, una “boxeur” che il giorno del suo cinquantesimo compleanno rivive nel ricordo tutta una vita di fatiche, umiliazioni, conquiste, vittorie e sconfitte. Nessun invitato si è presentato alla sua festa, tranne il Dottor Otamendi (Matías Scarvaci), una vecchia conoscenza che ha macchiato in modo irreversibile la vita della protagonista, svelando al mondo il di lei segreto: Amelia gareggiava travestita da uomo quando era solo una ragazzina. Questa scoperta fece di lei una pioniera, ma fu anche portatrice di grandi dolori. Sull’onda dei ricordi tra i partecipanti alla festa si scatena una rissa, l’intento sportivo svanisce, i ricordi amari non sembrano più legati a quelli della protagonista ma piuttosto a quelli dell’Argentina stessa: violenze, soprusi, falsità che hanno rovinato un Paese e il cui dolore ancora permea le vene del suo popolo.
La metafora nel testo non sembra arrivare così diretta al pubblico italiano: vuoi per i sottotitoli, vuoi per uno stile recitativo al quale non si è abituati, l’opera non colpisce e non coinvolge il pubblico. Il foglio di sala con riferimenti storici sull’Argentina non basta a colmare un vuoto dato dall’ignoranza – in senso letterale – di avvenimenti e fatti storici che sono marchiati a fuoco nella memoria di un qualunque spettatore sudamericano. Forse sono proprio queste distanze socioculturali, ma anche estetiche, a lasciare perplessi. Lo stile retrò della scena e della recitazione fa sembrare tutto uscito da un’Italia degli anni Sessanta/Settanta e questo pregiudizio puramente estetico e formale, crea un muro attraverso il quale è difficile passare.
Al di là del muro, però, va l’operazione del direttore artistico Àlex Rigola, il cui intento è esattamente quello di passare i confini geografici, mostrare altro, anche con il rischio che qui possa sembrare esotico o di un’altra epoca.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Camilla Toso