Recensione a Otello – regia di Arturo Cirillo
Luogo della finzione, il teatro dà vita a qualcosa che eternamente oscilla tra l’essere e il non essere, tra una realtà illusoria e una finzione allusiva; una sorta di patto instabile tra due mondi lontani, posizionati su diverse orbite che su di un palcoscenico intrecciano la loro rotta, rendendo sottile lo scarto tra vero e falso. Nella messa in scena dell’Otello del regista Arturo Cirillo, questa doppia natura è portata verso un apice: la verità a cui ci si potrebbe aggrappare, e ben visibile agli occhi, è messa in discussione da una immaginazione fervida che apre a un universo nuovo, sconosciuto che come un buco nero risucchia tutto ciò che gli gravita intorno. La tragedia shakespeariana che vede il Moro protagonista si gioca su sfere differenti, avvolta da un’ambiguità che pende durante il corso della tragedia sempre più verso le sovracostruzioni fantasiose create ad hoc dalla pura arte oratoria, usata con perfidia. E se nella rappresentazione, quasi priva di azioni, il letto, su cui addirittura entrano in scena i personaggi, diventa simbolo di immobilità e dissolutezza, la parola ne è il contraltare centrale: usata in modo egregio e convincente dall’antagonista Iago, è questa a instillare un dubbio inconsistente ma presente come una polvere nociva che viene respirata inconsapevolmente. La traduzione di Patrizia Cavalli restituisce in versi uno Shakespeare concentrato e denso, in alcuni tratti sibillino e non di così semplice fruizione; ma d’altra parte è proprio grazie a questa sua natura di testo ambiguo che Otello si lascia trascinare in quel mondo immaginifico dove l’amata Desdemona lo tradirebbe con il suo luogotenente e caro amico Cassio.
È il dubbio più che la gelosia a divorare il Moro interpretato da Danilo Nigrelli: egli è lo straniero, con la faccia pitta a metà, bianca e nera; la sua è una presenza che si discosta dagli altri personaggi, per l’andatura quasi trascinata, per la voce retorica e padronale che solo nei dialoghi con Iago si scardina per arrivare a sputare parole dettate da rabbia; ed è proprio in seguito al confronto con il suo alfiere che i diversi colori sul suo volto non conoscono più confine e si mescolano, perché in fondo i sentimenti umani, travolgenti, non sanno cosa sia la diversità. Otello non ha più integrità, si aggira stando in piedi a fatica, crolla in terra per una crisi epilettica e accusa gratuitamente sua moglie trattandola da prostituta. Se è il protagonista stesso ad alimentare ciò che pur inconsciamente era già dentro di lui, ossia la paura di essere tradito, trascinandosi da sé dentro quel buco nero senza possibilità di ritorno, è un’anima innocente e pura invece Monica Piseddu che dà vita a una Desdemona incredula e sottomessa al suo amore, incapace di comprendere quel lato oscuro di Otello che la porterà alla morte. Non può vivere in quel mondo falso e infetto dove la perfidia dilaga ed è instillata da uno Iago che tutto muove, pur stando immobile per gran parte del tempo con le mani dietro la schiena e la testa alta. Ed è il regista Cirillo ad indossarne egregiamente i panni: la gestualità del suo corpo e i versi per lui tradotti dalla Cavalli incarnano in maniera impeccabile l’animo infido di quel personaggio dalla lingua biforcuta ma affascinante come una serpe. L’alfiere sembra essere la vera contrapposizione di Desdemona: se lei è mossa da un amore ingenuo e privo di ogni ambiguità, Iago brucia di una malignità incondizionata e a suo stesso modo pura; è come una piccola ombra già presente nell’uomo che si alimenta di dubbio. È lui a tessere tutta la trama in uno spazio dell’immaginazione dove l’intelligente scenografia, illuminata suggestivamente da Pasquale Mari, si risolve in due gelide mura mobili create da Dario Gessati: e vengono spostate proprio da Iago, Otello e da Roderigo, il perfetto credulone Luciano Saltarelli, di cui l’alfiere si serve per muover la vicenda. Venezia e Cipro sono quindi solo evocate: le maschere – tipiche della Commedia dell’Arte – con cui si apre la pièce rimandano già a un mondo intaccato da finzione e ambiguità, dove anche gli altri bravissimi attori Michelangelo Dalisi, Sabrina Scuccimarra, Salvatore Caruso e Rosario Giglio si inseriscono perfettamente. I vestiti di Gianluca Falaschi, che restituiscono un esercito non definibile, ben creano una sospensione in questo non-tempo, che è allo stesso modo anche un non-luogo in cui le musiche di Francesco De Melis rimandano a un intreccio mistico tra Oriente e Occidente. E l’immaginazione di Otello non può che trovare un ampio sfogo di esistenza in un mondo non plasmato dalla realtà, in bilico tra il vero e il falso.
Visto al Teatro Goldoni, Venezia
Carlotta Tringali