L’opera che Patricia Zanco porta in scena al Teatro Remondini per B.Motion 2012 è il racconto della tragedia di Medea ripercorsa attraverso la narrazione in prima persona dell’eroina, interpretata dalla stessa Zanco, a partire dalla riscrittura di Franca Grisoni. Lo spettacolo si apre con la presentazione della strage che avverrà per mano della protagonista: tutti gli attori coinvolti nel progetto (Roberta Guidi, Andrea Dellai, Alessandro Sanmartin, Daniele Preto, Elvira Gomez Espinosa De Los Monteros, Valentina Dal Mas) si sporcano le mani di sangue con un movimento fugace che introduce al viaggio di Medea alla ricerca del vello d’oro e ai salti drammaturgici sui quali procederà il lavoro. La partitura musicale – creata da Michele Braga e Enrico Fiocco – arricchisce e si amalgama all’azione scenica, senza porsi come guida o didascalia. Un tappeto sonoro che si accosta alla musicalità dell’intreccio linguistico in cui il dialetto lombardo si alterna all’italiano. Medea / Metamorfosi mette in gioco una molteplicità di riferimenti alla contemporaneità non sempre facilmente riconoscibili o pienamente sviluppati.
Scansione degli appunti dal taccuino di Roberta Ferraresi
Per il Diario di Bordo di B.Motion 2011 la redazione del Tamburo di Kattrin si apre ad accogliere contributi e segni degli ospiti del Festival: critici, studiosi, operatori che passano per Bassano del Grappa in questi giorni sono invitati a lasciare un intervento sulle nostre webzine, per raccontare, tramite i diversi canali del web, quello che accade a B.Motion.
Tommaso Chimenti, che seguirà tutta la rassegna nella settimana dedicata al teatro, è al suo secondo contributo, con una recensione a The end di Babilonia Teatri, pubblicata su Il Corriere Nazionale.
QUANDO L’ELOGIO DELLA FINE DIVENTA UN INNO ALLA VITA
di Tommaso Chimenti
La scena finale con il Cristo dolente appeso, con la testa piegata dalle offese, ed al suo fianco i due “ladroni”, le teste vere di quel bue e di quell’asinello che con il loro fiato aiutarono Gesù nelle prime fredde notti, è una delle più forti, dirompenti e potenti degli ultimi anni. “The End”, che in quest’anno ha subito varie deviazioni e parcellizzazioni, dal porco di Santarcangelo ad Enrico Castellani e Ilaria Dalle Donne in scena lo scorso anno sempre a Bassano, arriva alla sua compiutezza.
Pathosformel – La prima periferia (foto Giancarlo Ceccon)
La particolare prossimità fra artisti e pubblico, con il suo arrischiarsi all’esposizione di lavori ancora in progress, fa del festival B.Motion un luogo di incontro raro: in una settimana di rassegna, dal 30 agosto al 4 settembre – quasi tutti presenti con frammenti di creazioni ancora da completare, chi nelle fasi conclusive, chi ancora all’innesco – si sono avvicendati sui palcoscenici (e non solo) della città i percorsi più noti della ricerca performativa italiana emergente. Di qui, la preziosità dell’esperienza, che diventa l’occasione per una riflessione di ampio respiro sullo status della teatralità contemporanea.
Tante volte si sente dire, e si legge spesso, che i tratti caratterizzanti di questo nuovo teatro si trovino nella durata degli spettacoli (sempre al di sotto dell’ora, spesso attorno alla mezz’ora), nei formati scelti (la rateizzazione in studi successivi), nella composizione minimal degli ensemble (dimensione di coppia o al massimo in trio). Elementi sicuramente evidenti, continuativi, denotativi.
Non scrivo mai in prima persona: mi dispiacerebbe se questo teatro, che in parte è il mio teatro (quello che amo, che seguo e con cui mi confronto ogni giorno, che mi delude, mi confonde, mi entusiasma, mi apre strade e crolli, mi affonda e mi slancia in avanti), venisse etichettato, confermato e infine ricordato secondo elementi che – vanno tenuti ben a mente, ma – spesso sono puramente (compromessi) tecnici. E qui, poi, andrebbe fatto un discorso a parte, visto che innanzitutto alcuni di essi (ad esempio la presentazione in forma di studio), pur potendo essere facilmente collocati in una genealogia teatrale specifica, sono il tante volte malsano esito di un’ansia produttiva del tutto affine all’american way of lifedei giorni nostri, del post-capitalismo in decadenza insomma che ci fa tutti allo stesso tempo vittime e carnefici. Se tanti gruppi condividono, con sufficiente omogeneità, così tanti dati formali, logistici, organizzativi, forse il dubbio ha da sorgere e la discussione da aprirsi: si tratta di una cifra stilistica in via di affermazione, o piuttosto responsabilità del sistema, che per molti versi, attraverso queste strategie, rischia di allontanare il pubblico e schiacciare le emergenze creative? La risposta, forse soggettiva, si trova con ogni probabilità nei programmi delle tante rassegne e di qualche teatro i cui propositi, spiriti, intenti – pur dedicando un sostegno di tutto rilievo alla giovane ricerca teatrale – si rivelano poi ben lontani dagli esiti di palcoscenico e dalla vitalità della sperimentazione, nel contesto di uno scollamento sempre maggiore fra ciò che si pre-sente e quello che invece poi è presentato. Sempre con l’esempio degli studi: tanto ci annoiano, tanto ci stimolano? È comunque una nostra responsabilità, di critici, operatori, artisti, quella di continuare a trattarli come spettacoli veri e propri (il prezzo del biglietto, assieme alla recensione, è solo l’indice più noto) e di trovare di rado formule adeguate per affrontarne l’esperienza, per permettere anche al pubblico di seguirla e all’artista di utilizzarla. Ciò non vuol dire che il dato tecnico, il compromesso faticoso, aberrante, vada svalutato o rimosso, ma si può pensarlo per quel che è: tentativo di sopravvivenza, non sempre cifra stilistica, da contestualizzare con cura secondo la sua provenienza.
Di qui e di contro si colloca questo esperimento di attraversamento dei giorni di B.Motion: un’esplorazione che prova a fare i conti con i contenuti, con il rapporto fra arte e realtà, con i tentativi di comunicazione, significazione, emozione che animano la nuova ricerca teatrale. È consueto lamentare la divaricazione vertiginosa fra scena e platea, ed ecco che allora il critico – anche rifuggendo la nota tecnica, il dato logistico, la pressione organizzativa – può andare a rintracciare i nodi (voluti, capitati) di quelle reti che legano teatro e vita, sperimentarne le collocazioni, avanzare ipotesi sulle reazioni, sulle contaminazioni e, certo, sui tentativi di resistenza.
Ecco solo due o tre spunti, evidenze si potrebbe dire, da poi riunire in traiettorie di riflessione più organiche.
Su quattordici spettacoli visti, dodici non possedevano un’ambientazione precisa, in senso spazio-temporale; le eccezioni, stranamente affini, sono Semiramis di Menoventi e .h.g. di Trickster, in cui lo spazio possiede una precisa intenzione drammaturgica e si può considerare lacanianamente la mente del creatore e/o dello spettatore, se si vuole azzardare un’ipotesi. Gli altri lavori sono impegnati nella riconfigurazione di uno spazio-tempo ad hoc: ambienti asettici, con la prevalenza del monocromo o comunque di un uso cautissimo del colore e la scenografia talmente rimpicciolita da diventare quasi solo attrezzeria, sono percorsi da azioni i cui riferimenti temporali aderiscono alla durata della performance. Ogni opera sembra intenta a delineare la propria area performativa – da chi fa delle pratiche legate al framing una dichiarata cifra poetica (con gli schermi di Anagoor, il recinto-laser di Plumes dans la tête, la continua ridefinizione live dello spazio di CollettivO CineticO) a chi ne sperimenta l’attuazione in senso più ampio (da possibilità di espansione, con la l’invasione di sala in Bestiale improvviso, ad altre di riduzione e concentrazione, come la pedana incastonata a fior di scena di Pathosformel) – come a tentare una propria specificazione del “palcoscenico” capace di rivendicare l’individualità domestica di uno spazio abitato sempre, in cui lo spettatore si sta affacciando solo per qualche istante.
Al di là della costituzione di uno spazio-tempo teatrale ad hoc, un altro elemento che sembra caratterizzante e diffuso in senso drammaturgico: la concentrazione sull’esperienza del mascheramento e dello smascheramento. La scena della giovane teatralità – e anche a B.Motion se ne trovano diversi esempi – abbonda di performer in indumenti intimi, di strip-tease asettici e rituali di vestizione, di percorsi di negazione o di esaltazione dei tratti umani. Si (tra)vestono in scena Silvia Gribaudi e i danzatori di CollettivO CineticO, si spogliano (e rivestono e rispogliano) i performer di Anagoor (in Fortuny e Tempesta) e l’Insorta distesa di Plumes dans la tête; nega il volto Sonia Brunelli in Barok, mentre le danzatrici di Bestiale improvviso sono sospese in un teromorfismo inquietante e i performer di Pathosformel cedono il centro della scena a dei manichini a grandezza naturale.
Di fondo, spesso, un tessuto sonoro lattiginoso, quasi sempre di costruzione elettronica (più o meno creativa: dal sampling con rielaborazione live al remix di pezzi non originali), che assorbe anche le potenzialità della phoné sperimentata dai lavori che esplorano l’incarnazione del testo.
Barokthegreat – Barok (foto Giancarlo Ceccon)
Due o tre appunti, la cui emergenza è nota ma il cui accostamento è del tutto parziale, stanno per collassare in una traiettoria ancora più parziale: si diceva, appunto, che di questi tempi è importante schierarsi, prendersi la responsabilità di mettere insieme i pezzi, di tessere legami, di accogliere l’incontro all’interno della propria identità.
Una ridefinizione ad hoc dello spazio-tempo della performance, con tutti i ritualismi di cui è impregnata, si può leggere in reazione al dilagare dei non-luoghi contemporanei anche nell’intimità, oltre che nei contesti pubblici. In questo, la profezia dal retrogusto apocalittico di Marc Augé forse era fin troppo intimista: non è nelle sale d’attesa o nei centri commerciali o negli imperativi dei bancomat che oggi il soggetto è annullato (in senso identitario, storico, relazionale) – questi sono spazi in cui, a maggior ragione, l’individuo si afferma con forza, nell’esperienza della scelta – ma è proprio a casa propria che si innesca l’omologazione, fra il tavolino ikea e il souvenir orientale, il proprio profilo facebook e l’ultima puntata di Scrubs. Il teatro vede, osserva, studia, esplora. E, certo, in un modo o nell’altro risponde, crollata la dicotomia fra rappresentazione e presentazione, fuori da ogni utopia, per un intervento concreto nella realtà della scena, che è quella di cui si è partecipi durante uno spettacolo. Anche con tentativi di riafferrare uno spazio-tempo specifico, decisamente dedicato, finalmente abitabile dall’azione del performer e dallo sguardo dello spettatore e costruito con cura, per accogliere al meglio questo incontro, che nella realtà quotidiana è spesso negato, declinato, rimandato.
E l’accento, come si è visto diffusissimo, sulle pratiche di mascheramento e smascheramento si può azzardare, brechtianamente, sia legato ad una costruzione live del personaggio, che viene così sbozzato di fronte allo spettatore negli interstizi fra le sovra-strutture che gli sono proprie. L’attore di questa nuova scena è dichiaratamente un costrutto collettivo, proponendosi come segnale di una profonda interrogazione sull’essere-in-scena e sull’essere-in-vita, e rimandando al pubblico le medesime domande sulla recitazione, ma anche sull’interrelazione e sull’identità.
Esiste un teatro che, immerso nella decadenza del potere biopolitico – in cui l’individuo è minacciato (come artista, come uomo) dal continuo venir meno della responsabilità individuale, mutato in spettatore silente di linee di governance sempre più indecenti – tenta di dire la sua, di reagirvi, di rifare della scena un luogo di incontro, di pensiero e, perché no, di resistenza. Certo lo fa con i suoi strumenti, quelli dell’estetica, della composizione, dell’azione. Forse ad innesco di possibili percorsi di riappropriazione della vita (culturale, sociale, politica), offrendo spunti e suggestioni spesso di un certo spessore, che poi sta anche ad altri – a chi guarda, a chi segue – condurre nella quotidianità, in linea con quello che essi sono: arte, quindi sempre più che arte – vita.
C’è chi parla di astrazione e di smania concettuale, di intimismi e di autoreferenzialità del nuovo teatro, ma essa ha origine e fine nella realtà in cui si sperimenta, e spesso le rivendica con una forza spiazzante – questo, un originale rapporto con la realtà che precede e segue la scena, è forse il contesto in cui ricondurre quel magnetismo difficile da spiegare, che si presenta per intuizioni, di cui sono impregnati tante esperienze del teatro emergente, dalle coreografie di Barokthegreat e Santasangre ai cori forsennati di Babilonia Teatri, dall’affezione di Pathosformel alle composizioni di Anagoor e Plumes dans la tête.
Approfondimento a Dreams Doubts Debts di Gribaudi/Musso e Nel Lago di Senatore/Mabellini
Dreams Doubts Debts – foto di Giancarlo Ceccon
In uno scambio generazionale, stiamo assistendo costantemente al manifestarsi della necessità di alcuni artisti di relazionarsi con nuove esperienze, di confrontarsi con linguaggi altri che consentano di intersecare poetiche e portare a maturazione – o a mettere in discussione – il percorso artistico. Le frequenti collaborazioni in teatro sono indicative di una concezione di gruppo fondata sulla coralità paritaria e rispettosa del lavoro di ogni componente: questo è ciò che si è visto a B.Motion – la sezione di Operaestate di Bassano del Grappa dedicata al linguaggio teatrale e coreutico contemporaneo – che ha presentato un’interessante anteprima di due progetti nati dalla collaborazione tra coreografe e autori teatrali.
Il primo, presentato l’1 settembre al Garage Nardini, Dreams Doubts Debts, si origina e approda nel sociale. Commissionato a Silvia Gribaudi da MAG Venezia (cooperativa che opera nel campo della finanza mutualistica e solidale), il lavoro ha innescato nella danzautrice il desiderio di coinvolgere l’autrice Giuliana Musso nell’indagine sulle problematiche delle nuove povertà e dell’indebitamento. Il prologo allo studio interpretato dalla Musso – presentazione del progetto, che è anche un avvicinamento al tema affrontato – si colloca nella costruzione drammaturgica come dichiarazione dell’impossibilità del lavoro di aderire interamente alla dimensione teatrale assegnata a spettacoli presentati all’interno di festival: Dreams Doubts Debts, allo stato attuale, è la ricerca di una possibile comunicazione, di un linguaggio che metta a conoscenza dell’esistenza di uno sportello dedicato a coloro che vivono in prima persona il dramma rappresentato. Il percorso che ha portato a questo primo studio si è sviluppato in relazione diretta con gli strati sociali disagiati, in una capacità di ascolto e coinvolgimento che caratterizza la poetica di entrambe le artiste. Il passaggio dal racconto alla rappresentazione del dramma dell’indebitamento si è tradotto in scena nella continua contrapposizione tra pieni “illusori” e vuoti: l’inseguimento di sogni vani, il desiderio di successo e onnipotenza vede Silvia Gribaudi relazionarsi con l’unico elemento scenico presente, una scala di legno al cui vertice è posta una macchina di bolle di sapone. Il disfacimento a cui porta l’attenzione a beni effimeri corrisponde al crescendo espressivo del movimento: ripetizione e accelerazione di gestualità che affaticano e lasciano cadere il soggetto in un vortice dal quale sembra impossibile riemergere. L’apice di un dramma al quale Gribaudi non può aderire perché – come racconta l’autrice – la sua danza è comunicazione, è movimento fisico che intende stimolare movimento di pensiero, consegnando al pubblico la possibilità di scoprire nel dramma un’apertura. E l’apertura di Dreams Doubts Debts si rivela non tanto nell’invito a ricominciare, quanto in una presa di coscienza delle proprie condizioni economiche che, nell’imbarazzo e nella paura di fronte al disagio dell’indebitamento, possa lasciare emergere il coraggio di affrontare la realtà.
Nel lago – foto di Giancarlo Ceccon
Da un teatro sociale ad un metateatro – intriso di slittamenti nella realtà – è il passaggio che si compie al Teatro Remondini sabato 4 Settembre con la presentazione dello studio Nel lago nato dall’incontro tra Ambra Senatore e il regista Sandro Mabellini. L’inevitabile rinvio al balletto più acclamato della storia della danza del XIX secolo, viene sfruttato dagli artisti con un’ironia tagliente e una contestazione artistica che chiama in causa le molteplici versioni dell’opera offerte dai maestri del Novecento. Appropriandosi di un tema radicato nell’immaginario collettivo, Senatore si diverte a comporre una partitura coreografica in cui l’osservazione sul presente si accosta a elementi propri dell’opera originaria (come la struttura in quattro atti), ma dichiarando immediatamente la necessità della scelta nel confronto con Mabellini: la contrapposizione iniziale di ruoli e di formazione esplicitata dal prologo – in scena Senatore, danzatrice e Mabellini, attore – consente di procedere, nei successivi quadri, ad un dialogo serrato in cui relazionare le diverse poetiche. La costruzione drammaturgica si sviluppa alternando la presenza dei due autori, l’uno intento a rappresentare con il proprio linguaggio ciò che gli viene chiesto dall’altro. In tal modo «Ambra chiede a Sandro» di raccontare lo spettacolo visto la sera prima, una versione “contemporanea” del Lago dei cigni: le parole dell’attore ripercorrono la rappresentazione e danno vita a un divertente momento non privo di riflessioni sul teatro. A seguire, nel terzo quadro, «Sandro ha chiesto ad Ambra» di costruire alcune immagini in movimento che evochino concetti quali l’esposizione allo sguardo, la mercificazione del corpo, la cancellazione dell’identità che vede l’individuo cadere vittima di una trasfigurazione animalesca pur di raggiungere visibilità. Il perseguimento di sogni effimeri, influenzati da una cultura massmediatica, irrompe così anche nel lavoro di Ambra Senatore: l’illusione di voler essere un cigno viene ironicamente frantumata in un gioco che dichiara la frivolezza di ambizioni nate da una cultura che ha posto nella perfezione tecnica e nella costrizione del corpo femminile la base di un sapere coreutico. L’anagramma del nome della danzatrice, scritto su un pannello, funge da rivelatore di un concetto chiave del lavoro e dalla scritta ‘Ambivo al cigno. Ambra Senatore’ il risultato a cui si giunge in epilogo è ‘Ambivo al cigno e sembro anatra’. Un’anatra meravigliosa, verrebbe da dire, che con la sua forza e ironia travolge continuamente lo spettatore.
Elemento comune di entrambi gli studi è l’esplorazione delle coreografe nel linguaggio testuale. Le tante parole – che siano presenti perché ritenute necessarie all’espressione o originate dall’intensità del gesto stesso – affiancano il movimento in maniera equilibrata ma in un rispetto che può correre il rischio di fissare a terra anche quei frammenti che la danza lascia poeticamente vibrare.
In un silenzio dai tratti rituali, all’interno di un quadrilatero chiaro, tre figure sono impegnate a far muovere altrettante creature, che vanno a costruire, successivamente, immagini e (più di rado) azioni. Si presenta quella che si può intuire come una serie di tableaux vivants, anche se gran parte delle composizioni non sono immediatamente riconoscibili o riconducibili alla figura originaria. Ma non è (solo) questo l’importante: La prima periferia è uno spettacolo di una delicatezza particolare, che condensa il coinvolgimento emotivo e percettivo del singolo spettatore attraverso una esile leggerezza visiva, la precisione delle linee compositive e – non ultime – la cura e l’attenzione quasi affettiva di cui è permeata ogni azione.
Protagonista è la fatica che sottende ogni movimento, anche il più piccolo: lo stridere delle articolazioni – che ognuno riconosce, ma nessuno sa – è un leitmotiv acustico talmente efficace da sovrastare il tessuto sonoro abbastanza convenzionale su cui si sviluppa lo spettacolo; mentre, allo stesso tempo, lo sforzo implicito nella cinetica umana si esprime anche a livello visivo: tre persone possono non bastare a farne inginocchiare una quarta, qui “interpretata” da un modello anatomico umano a grandezza naturale. Proprio in questa dimensione si colloca uno dei tratti di questo lavoro, che – come anche altri di Pathosformel – interroga direttamente lo spettatore (riguardo gli automatismi della propria visione) e il performer (sulle emergenze della propria azione).
La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon
Di più, La prima periferia è la prima creazione in cui sono presenti attori tout court: tre performer, appunto, impegnati a comporre i movimenti e le pose dei modelli anatomici. Qui la ricerca sull’intuizione e l’immaginazione dello spettatore per cui l’ensemble si è distinto fin dall’inizio è sviluppata secondo un percorso estremamente interessante: smascherata, l’interrogazione sulla percezione e l’interpretazione si amplia fino a coinvolgere ulteriori livelli del discorso performativo e non solo, aprendo quesiti sulla collocazione dello sguardo, sul suo rapporto con l’immagine e sull’azione attoriale che travalicano i limiti della singola creazione. In Volta, come ne La timidezza delle ossa o La più piccola distanza, l’innesco concettuale – pur estremamente affascinante e coinvolgente sia a livello ideativo che nella sua concretizzazione in scena – rimaneva legato ad un dispositivo dichiaratamente spiazzante, destinato a mettere in crisi il ruolo dello spettatore, a interrogarlo e a condurre ognuno a ridefinirlo; la focalizzazione della percezione, pur interrogata e stimolata, restava in qualche modo legata al dispositivo con cui era prodotta, alla “magia” dell’accadimento e, forse, anche alla curiosità che suscitava. Ne La prima periferia invece, complice la presenza fisica dell’attore, sono messe in discussione l’azione e la visione stessa: cosa accade? L’azione (i movimenti dei manichini) o le forze che la determinano (quelli dei performer)? Il quesito posto da questa performance – capace di rivalutare o, quantomeno, di indicare altre possibilità di sviluppo per lo spettacolo live – è a dir poco calzante, soprattutto in questi anni di addomesticamento ai meccanismi televisivi, di fruizione scontata, di co-autorialità invocata ma mai realizzata, anzi sempre più circoscritta anche (e soprattutto) attraverso le ultime frontiere comunicative del web, dagli innumerevoli blog ai social network a youtube e wikipedia. In questo panorama che lavora (consapevolmente o meno) all’omogeneizzazione dell’individuo, La prima periferia è una performance che si inoltra nelle esperienze (attuali e passate) di ogni spettatore, andando ad invocare la singolarità dello sguardo: al di là di qualsiasi approfondimento concettuale, la dimensione emotiva, l’inclusione irriducibile, l’affondo personale sono senza dubbio al centro di questo spettacolo, che riesce a concentrare una così ampia varietà di dimensioni in azioni semplici dall’espressività artigianale. Quando il profilo del pavimento, a fior di palcoscenico, comincia a brulicare di un formicolio di minuscoli oggetti in movimento e, insieme, giganteschi, performer e manichini li osservano e tentano di afferrarli, si compie un’attenzione irriducibile, in una coincidenza fra agente e agito di un certo impatto e coinvolgimento emotivo, di grande resa scenica e di rara lucidità creativa.
Sempre diversi sono i linguaggi e le forme attraverso cui si esprimono gli artisti d’oggi, tanto quanto le visioni che scaturiscono da opere create a partire da suggestioni individuali o ispirate a personaggi e teorie del passato. Immaginari evanescenti creati da artisti sull’orlo tra artigianato e scienza, costruiti per stupire l’occhio e far viaggiare la mente. Nella sezione Visioni di B.Motion, sei giovani compagnie percorrono strade altrettanto eterogenee.
Altre visioni quelle spinte da Anagoor con Tempesta, l’ormai noto lavoro intorno ai dipinti del Giorgione che è valso alla compagnia di Castelfranco Veneto la segnalazione al Premio Scenario 2009. In scena a B.Motion anche il terzo studio di Fortuny, progetto incentrato intorno ad un personaggio della società veneziana – Mariano Fortuny –, le cui prime due tappe sono state presentate ai festival Contemporanea e Drodesera durante l’estate. L’opera di Anagoor è fatta di immagini satinate, re-visioni dell’antichità nelle quali il video si sostituisce alla pittura. La tecnologia digitale si traduce in mezzo espressivo ed irrompe nella scena contemporanea aprendo nuovi orizzonti alle possibilità dell’artista. Se trent’anni fa il computer era lontanissimo dall’essere usato nella vita quotidiana, oggi gran parte delle attività dell’uomo moderno sono legate alle macchine: dal lavoro alle attività ricreative, ormai la vita è contaminata dalla tecnologia e anche le arti sceniche approfondiscono sempre più le ultime innovazioni della scienza per creare nuovi immaginari. Ne è un chiaro esempio la poetica virtuale del gruppo romano Santasangre che si snoda tra la video-arte e la manipolazione del suono in presa diretta, sperimentando loop sonori e sincronie ottiche che assorbono lo sguardo.
Pathosformel – La prima periferia
Sullo stesso filone si muove Barok ideato dal gruppo Barokthegreat, che lavora in particolare «sulla materialità del suono e sulla radice mentale del movimento», una ricerca che esplora diverse dimensioni della percezione svuotando l’intelletto e lasciando spazio all’immaginazione. Lo spettatore si trasforma così in scatola vuota dove si riversano le proiezioni fantastiche dell’artista pronto a stimolare in ogni modo la retina di chi lo guarda. Questi impulsi più o meno forti spingono l’intelletto a viaggiare e vedere ben al di là della scena. È questo il caso anche del lavoro che da qualche anno il gruppo Pathosformel porta avanti basandosi su alcune teorie riguardanti la percezione visiva e il completamento amodale. La compagnia nata a Venezia presenta La prima periferia, uno studio sul gesto umano e sul modo in cui l’inclinazione degli arti – composti da semplici e asettici modelli anatomici – conduce lo sguardo a percepire gesti e intenzioni quotidiani. La forza istintiva della mente nel creare storie e ricondurre forme a situazioni comuni è più radicata di qualunque tentativo di scardinare questo stesso processo. La scena contemporanea mira sempre più a stimolare la percezione visiva usando tecnologie e teorie compositive che non lasciano riposare né l’occhio né la mente dello spettatore – che si vede sempre più chiamato a usare la fantasia sovrapponendo il suo immaginario a quello dell’artista.