Recensione a Idoli – di Carrozzeria Orfeo
Vizi e pecche dell’umano sul palco del Teatro dell’Acquario nel recente fine settimana. In scena la compagnia Carrozzeria Orfeo con lo spettacolo Idoli, coprodotto dal centro R.A.T. e finalista (per il testo) al Premio Hystrio per la nuova drammaturgia. Vizi capitali vivificati in quadri di scena dalle tinte accese imbevuti di assurdo, concepiti in quell’incubatrice di deformità malsane che può diventare la famiglia. Espediente per ritrarre universalmente la condizione di un retrocedere sociale, avvertito nel quotidiano delle principali forme di comunità come nelle pieghe del soggettivo. Una commedia amara, speziata da paradossalità e accentuazione di cliché, volta a non cercare complicità con il pubblico distanziato dal proscenio da un invisibile muro invalicabile. Quasi un monito a non specchiarsi troppo, a misurarsi con qualcosa da far rimanere impalpabile. Da assumere quale presa di coscienza di sequenzialità nascoste dal dovere dell’apparenza. La riservatezza domestica è teatro di inammissibili barbarie. Covo di quella violenza che la scena traspone senza riguardi, cruda, senza troppo cenno interpretativo, da risultare aderente a realismi incipriati da surreale. Un codice espressivo volutamente cercato, come svela l’autore-attore Gabriele Di Luca (firma anche della regia con Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi) in scena con Setti, Tedeschi, Giulia Maulucci, Valentina Picello nelle scene di Claire Pasquier musicate da Setti. Espressività funzionante a calcare la spersonalizzazione che si diffonde endemica dagli interni di un appartamento di middle class ai resoconti abitudinari individuali e non. Senza spiegazioni e suggerimenti, non di meno istruzioni. Ma non si dice nulla di nuovo.
Una coppia giovane, una coppia matura e annoiata, un nonno, un nipote, la fidanzata “virtuale” di questo, sono i personaggi della stesura drammaturgica dell’allestimento. Personaggi senza nessun particolare tratto caratterizzante, nel costrutto scenico, se non quello dettato dalle azioni, patologiche, o dal serrato dialogico. Sagome accomunate da un sotteso senso di disadattamento, figurato dall’Alzheimer del nonno, dalla dipendenza virtuale del nipote impacciato e infantile, dall’esaurimento della mater familias ricorsa allo psicanalista, dall’accidia del padre pantofolaio e smidollato. Corali in alcune scene, come quella, mirabile, a confine tra teatro-danza e teatro acrobatico (impronta peculiare della compagnia), in cui non riescono a scollarsi da una sedia a rotelle pur ostinandosi nei tentativi. Chiara la metafora.
Una cartolina da casa, scenograficamente resa con un sofà e un albero di natale (feticcio di apparente decoro) montato a scena aperta. Un lavoro moderno, di e per il teatro attuale. Ricco di trovate e morfologie sceniche variabili. Lontano, tuttavia, dal suscitare un corposo coinvolgimento. E nemmeno sdegno per il proposto. Afono.
Visto al Teatro dell’Acquario, Cosenza
Emilio Nigro
Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria