Recensione a Roccu u’stortu – Teatro Studio Krypton, regia di Fulvio Cauteruccio
Ancora More. Ancora venerdì. Ancora al Teatro Morelli di Cosenza.
La rassegna di marca Scena Verticale sul contemporaneo riprende la rotta, a vele spiegate. Come l’anno scorso, di questi tempi. Chiuse Emma Dante. Apre il giro, Fulvio Cauteruccio. Un calabrese. Un cosentino. Inalterato nel dna nonostante trent’anni in Toscana. A Firenze. In cui l’abitudine al sentir parlare con la c aspirata, le t tronche e l’accento arrotolato, potrebbe far dimenticare incisività e l’asprezza gutturale. Oppure avrebbe potuto immedesimarsi nelle attitudini dei fiorentini, lui che è un attore: cortesia e falsità: riverenti finché non ti hanno fatto fesso. E invece no. A Cauteruccio la cosentinità non l’ha abbandonato. Smussandola, modellandola, facendone anche a meno presumibilmente in determinate occasioni, ma portata a spasso con fierezza e perché no, con vanità.
Fulvio Cauteruccio è un Attore. La fisiognomica lo svela, a prima vista. Lo sguardo trasformato dallo stare sulle tavole del palco e davanti al buio zeppo di uditori non visibili. Il corpo espressivo pure se immobile. Le posture di chi in teatro probabilmente ci passa le nottate. Non abbassa mai la testa, nemmeno quando non è a favore di platea. E quando ha da dare voce, e tono, e forma, e colore, a parole fitte che si azzuffano fra i denti, riesce a scandire anche la sillaba più delinquente.
Con Roccu u’ stortu si fece conoscere dal grande pubblico. La formula è essenziale: un gran testo di un gran drammaturgo, Francesco Suriano, e una sapiente e accorata guida registica sulla dialettica. Destinata a incorniciare il lavoro attoriale. Uno spettacolo di teatro d’attore. Il patto tacito tra palco e platea è soddisfatto nel momento in cui tra uomini, tra simili, ci si scambiano vettori invisibili. Empatie. Quando si osserva un altro uomo in scena e si gode del prodotto vivo, dei suoi respiri, delle sensazioni che vivifica trasmettendo. No, non è campanilismo di pancia. Nemmeno affetto per un talento calabrese che si fa valere sul panorama nazionale. Cauteruccio ammalia il pubblico, che a fine scena gli è grato scrosciante. Lo conquista prima di cominciare, lo tiene sulla corda, lo maltratta, lo diverte, lo possiede. Cosa altro deve fare un attore? Sì, l’allestimento è una vetrina. Una vetrina dove far brillare le doti. Il disegno costruttivo bontà del testo/bontà registico-interpretativa, regge le ossa dello stare in piedi in generale. Il susseguirsi di scene, vischiosità d’azione, costrutto audiovisivo, benché efficace, risulta retrodatato. Dodici anni fa, quando nacque lo spettacolo, non si poteva fare a meno, perché era prassi, delle proiezioni video. Come degli elementi naturali (luce, acqua, fuoco, terra, pelle, sangue) per creare l’effetto stucchevole. Nekrosius ci ha preso l’Europa, prima di cibarsi anche lui di commissioni. È strano e appassionante notare come il teatro, da millenni immodificabile nelle fondamenta, abbia un percorso evolutivo nelle maniere. Fatto sta che la chiave di lettura dello spettacolo prodotto da Krypton è la goduria provocata dall’attore. Capace di far trasudare il suo talento. Di spostare l’attenzione quando la vacuità dell’incastro potrebbe risultare approssimativa.
Cauteruccio diventa Rocco, e Rocco s’impossessa di Cauteruccio. Personaggio e autentico si assottigliano, favorendo un liberarsi verace, viscerale, di riverberi identitari tenuti assopiti. Attraverso l’abuso del dialetto, e delle sue caratteristiche eufoniche duttili a determinati stati d’animo. Il piagnisteo meridionale, la testardaggine, l’atteggiamento sboccato da sbruffone, il fare da malandrino, l’attaccamento ai legami di sangue, alla terra, alle origini. La storia, i racconti di battaglia in prima persona, la fotografia sulla guerra e le conseguenze – mai affrontata direttamente, piuttosto mostrata – sono relativi. All’attore. Mattatore. Tecnico e genuino. Materia calabra.
Visto al Teatro Morelli, Cosenza
Emilio Nigro