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Indossando gli occhiali con Emma Dante

Recensione a La trilogia degli occhiali – regia di Emma Dante

Acquasanta - foto di Giuseppe Di Stefano

Strumento necessario per far vedere all’uomo ciò che lo circonda in maniera chiara e uniformata con il resto della società, gli occhiali si indossano per non essere esclusi da un mondo che deve essere esatto e, soprattutto, lo stesso per tutti. Ma delle volte questi due piccoli “specchi” portati sul naso cambiano la realtà trasformandola in qualcosa di altro, in un posto fantastico ed esclusivo, fatto di magia o di memoria. E ne La trilogia degli occhiali il mondo dei singolari personaggi creati da Emma Dante rimane una questione privata, una versione intima di una condizione esistenziale che gira intorno alla marginalità. Dopo la sanguigna “trilogia della famiglia siciliana” (composta da  mPalermu, Carnezzeria e Vita mia) che l’ha resa una delle registe più importanti in Italia, la drammaturga siciliana sceglie di tornare a una triade e di dedicare il suo nuovo lavoro – prodotto dalla sua stessa compagnia siciliana Sud Costa Occidentale, dal Teatro Stabile di Napoli e dal Crt di Milano, in collaborazione con il francese Théâtre du Rond-Point – alle due lenti indossate da tutti gli attori in scena. Tre capitoli/spettacoli autonomi, ma allo stesso tempo legati tra loro, costituiscono una trilogia che diventa un momento di evasione dalla realtà e una ricostruzione tenera e personale della propria esistenza. Il mezzo-mozzo o’Spicchiato, il palermitano Nicola e due anziani ballerini, – protagonisti rispettivamente di Acquasanta, Il castello della Zisa e Ballarini – vivono in un mondo che è privato, sorridono e si eccitano al ricordo di un amore che ha reso speciale le loro esistenze. Poco importa se agli occhi degli altri questa vita sembra marginale; il loro innamoramento, o meglio, il ricordo di esso, abita sì nell’angolo di un passato, ma riempie di senso la solitudine del loro presente. Guardando attraverso gli occhiali, i personaggi della Dante si rifugiano nella loro versione di verità che li fa sopravvivere all’abbandono, alla malattia e alla vecchiaia, rimanendo fermi nel loro sentimento – come recita la vecchia canzone napoletana cantata dal protagonista del primo capitolo – indifferentemente rispetto alle reazioni altrui.

Aspetta il ritorno della nave o’Spicchiato, il marinaio di Acquasanta che in dialetto napoletano rivive sulla prua immaginaria la sua vita passata in navigazione; abbandonato in terraferma e confinato in un tempo mentale, scandito da ticchettii di sveglie sospese sopra la sua testa, il protagonista urla il suo amore per quel mare infinito da cui è stato allontanato e con cui aveva «un rapporto privilegiato». Nei panni del mozzo un eccezionale Carmine Maringola che utilizza ogni muscolo del suo corpo per dar vita a un teatrino immaginario dove, legato a dei cavi-ancora che muove con estrema maestria, si trasforma inmarionette – il capitano della nave e la ciurma – che rievocano la sua storia. Le corde a vista e i movimenti meccanici del corpo di Maringola allontanano la sensazione che ci sia un uomo sul palco: sembra di vedere dei personaggi di legno che a turno prendono parte allo spettacolino entusiasmante di o’Spicchiato, circondandolo di un alone di purezza e semplicità disarmante.

Castello della Zisa – foto di Carmine Maringola

E questo alone ritorna anche ne Il castello della Zisa, secondo capitolo della trilogia in cui Nicola – interpretato da Onofrio Zummo – vive confinato dentro una bolla fantastica, guardiano di due principesse minacciate da draghi in cima a una torre. Tra croci sospese, bamboline e giocattolini, Nicola è un protagonista dapprima assente, seduto su una sedia e accudito da due suore – le bravissime Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, che si muovono con una precisione leggera e puntuale – per sprigionare poi tutta la sua energica vitalità. Piccolo gioiello completo e ben articolato, Il castello della Zisa attraversa diversi stati d’animo in cui gli attori si superano tra loro nel trasmettere eccitazione, ironia, gioia o stupore per raggiungere una delicatezza che sfiora momenti di infinita tenerezza. Il tema della malattia qui affrontato dalla Dante è affidato a uno Zummo che, con un’espressività facciale e corporea appartenente a bambini con problemi psichici e con l’ausilio del dialetto siciliano, mostra il suo mondo meraviglioso in cui si immerge e ritrova la vita, anche se solo per pochi istanti; o meglio, è il pubblico ad entrare nella realtà di Nicola, rinchiusa e rimasta a uno stadio infantile.

L’uso del corpo, nella maniera impeccabile con cui gli attori diretti dalla Dante si esprimono, prevale sulla parola in tutta la trilogia per raggiungere quasi la completa assenza verbale nella terza parte: Ballarini. Gli attori Sabino Civilleri ed Elena Borgogni, con indosso delle maschere invecchiate, rivivono nel ricordo di lei la loro storia d’amore a ritroso, riavvolgendo il nastro di una memoria scandita da una colonna sonora che ben distingue le varie decadi novecentesche; si passa così dalla crisi di coppia al primo figlio, dalla gravidanza al matrimonio, per arrivare alla dichiarazione d’amore, l’unica non completamente affidata al corpo ma anche alla voce, per poi tornare cronologicamente al tempo presente, dove la donna, ritornata anziana, chiude il baule epifanico che ha scatenato questo tuffo nel passato. La poeticità della tematica trova però un ostacolo nel suo sviluppo, per il suo dilatato reiterarsi di movimenti che diventano eccessivi; mentre risultano pacati e compunti ne Il castello della Zisa, in Ballarini perdono di quell’eleganza e sottigliezza che distingue il lavoro della Dante.

La vecchietta, interpretata appunto dalla Borgogni, che appare come una sorta di fatina durante gli intervalli tra un capitolo e l’altro, spostando oggetti o ballando teneramente abbracciata a suo marito nel foyer del teatro, restituisce alla fine della trilogia quella magia che in alcuni tratti si perde: è lei a spegnere le piccole luci sospese sul palco, un palcoscenico che diventa un angolo di mondo ai margini della realtà.

Visto al Teatro San Ferdinando, Napoli

Carlotta Tringali

Emozioni in ballo fra strappi e tenerezza

foto di Carmine Maringola

Il ballo di coppia è forse l’incarnazione più efficace della vita a due: ne materializza le fragilità e le tenerezze, l’empatia e la differenza, oltre naturalmente ai ritmi; la danza sa parlare di ricordi e di desideri, di come si è costruita (e di come si sarebbe potuta costruire) l’esistenza insieme. Emma Dante in Ballarini – secondo studio della Trilogia degli occhiali, nuovo progetto sulla condizione di marginalità (povertà, vecchiaia, malattia) che debutterà in forma completa a Napoli nel gennaio 2011 – si appropria di questa dimensione a due per raccontare una storia d’amore speciale: lui e lei sono due anziani che, con tutti gli acciacchi e le difficoltà del caso, donano ancora una quotidiana concretezza al loro amore. Interpretati dai bravissimi, sempre più abili e magnetici, Sabino Civilleri ed Emanuela Lo Sicco (attori ormai storici della Compagnia Sud Costa Occidentale), i due protagonisti ripercorrono la propria vita insieme ballando stretti sotto una ragnatela luminosa di piccole lampadine fitte che, sospese fino oltre l’arco di proscenio, sembrano tentare di invadere la platea e, con essa, anche altre vite.

 

È l’ennesimo capodanno e la coppia si appresta ai festeggiamenti di mezzanotte, con tanto di spumante, coriandoli e petardi. Poi un difficoltosissimo ballo a due, con lei, gobba, che si aggrappa alla giacca del compagno mentre lui si sostiene appoggiando la testa sulle spalle di lei; si baciano, si toccano, lui ha forse addirittura un orgasmo. Da qui parte un viaggio nella memoria o nell’immaginazione – è difficile stabilirlo con certezza – della vita della coppia, che balla a ritroso la propria storia d’amore, tutta giocata fra due bauli quasi identici, opposti a due estremità del palcoscenico. All’interno di un percorso di “smascheramento” del trucco teatrale (abbastanza inedito per la ricerca di Emma Dante) che vede il personaggio trasformarsi in altre variazioni di sé, gli anziani sono prima una coppia di mezz’età, poi alle prese con un figlio neonato, la gravidanza, il matrimonio e, infine la dichiarazione e il primo appuntamento – tutti passaggi delicatamente composti nel fluire di una drammaturgia costruita per contrasti fra esplosioni di energia e fatali momenti di silenzio, una narrazione molto fisica, danzata, urlata, e pochissimo parlata, che si sviluppa sulle note dei successi italiani di musica leggera. Ci sono I watussi e Parlami d’amore Mariù, Fatti mandare dalla mamma, Il ballo del mattone fino a Ba Ba Baciami Piccina, mentre in scena si srotolano le emozioni minuscole di una grande storia d’amore forse mai avvenuta, dall’ansia del primo amore alla solitudine costellata di acciacchi impossibili della vecchiaia.

foto di Carmine Maringola

Si odono solo brandelli di parole («Quanto sono felice amore mio!»), in una drammaturgia slabbrata la cui rarefazione è infrequente per la linea autoriale di Emma Dante. Nessun accumulo verbale e niente phoné che riverbera dalle carni degli attori: fatta eccezione per la proposta di matrimonio, le cui poche frasi sono espresse in uno dei rari momenti di silenzio dello spettacolo, tutta la narrazione e l’espressività è demandata alla dimensione fisica, al movimento e alla danza. E, naturalmente, agli emblemi, tratto distintivo della poetica dell’autrice e regista. Affastellate e sdrucite, incastonate in un contesto mai del tutto aderente, le allegorie di una vita sono trattate secondo un duplice approccio: la coscienza del potenziale rituale, prossima a un rispetto quasi magico o sacrale, si sprigiona dall’attenzione di cui tali oggetti sono investiti, mentre l’ironia amara che danza loro intorno, riesce, attraverso la caricatura, a sfondare i limiti imposti dall’intimità e a raggiungere l’immaginario e l’emozione collettivi. Gli oggetti si fanno, appunto, emblemi per il sovraccarico di sensualità e senso che racchiudono, creando una tensione magnetica del tutto particolare intorno a presenze minime (un velo da sposa, un pacchetto di caramelle, la musica di un carillon), in un equilibrio invocato e precario, sempre prossimo al cortocircuito e all’esplosione. Ma il coinvolgimento straniato – altra cifra dei primi lavori di Sud Costa Occidentale qui efficacemente riproposta – è tenuto e trattenuto, stuzzicato e a tratti torturato, attraverso lo sviluppo di questo dispositivo che immagina frantumi, lacerazioni, contraccolpi, ma nella realtà si mantiene sulle linee morbide di una affettuosità mai calcata, di un’autenticità solo sussurrata, di emozioni sbozzate con delicatezza e rispetto.

 

Con Ballarini, Emma Dante sembra tornare a una dimensione di intimità – a quella violenza contenuta nelle cose piccolissime, esplorata in mPalermu, Carnezzeria o Vita mia, che l’autrice sembra riuscire a liberare con precisione micidiale – che si dimostra più pregnante ed efficace della teatralità esposta negli ultimi allestimenti della Compagnia, come Cani di bancata o Le pulle.

Visto a Operaestate Festival Veneto

Roberta Ferraresi