spettacoli festival 2010

Corto circuito fra parole, musica e un re

Recensione a Enrico 4 Michele Di Mauro

«Chi è l’autore? – di Enrico 4, di Enrico IV, dell’immaginario collettivo che ci si può costruire intorno – Son trecento!». È proprio Michele Di Mauro, autore e interprete di Enrico 4, ad indicare, dalla scena, la pluralità in agguato nel suo spettacolo. Nelle Scuderie del Palazzo Comunale di Radicondoli è andato in scena questo monologo musicale all’origine del quale si trova l’Enrico IV di Pirandello, ma che si sviluppa poi secondo un montaggio del tutto personale di brani (teatrali, ma anche letterari, cinematografici, musicali) intorno al tema della follia del re. Del testo pirandelliano è trattenuto soltanto lo spunto, a mo’ di innesco, la vicenda che conduce Enrico alla pazzia: il protagonista, invitato a una festa in maschera, si traveste come il re inglese; in seguito a una caduta da cavallo, batte la testa e, al risveglio, crede di essere proprio il mitico personaggio. Di questo evento rimangono, in scena, poche parole strappate, un cavallino a dondolo di legno e la corona dorata che a volte Di Mauro indossa; oltre, naturalmente, agli occhi allucinati del performer, fissati in una follia senza ritorno. Di qui, un incipit che incornicia la performance, il pubblico è trascinato in un viaggio fra letteratura drammatica e poesia, rivista, cinema e musica: brandelli di testo dalla provenienza più varia si inseguono nell’interpretazione di Di Mauro, che procede per scatti e variazioni improvvise, acrobazie di senso, di tono, di intensità.

Foto di Omar Padilla

Ci sono le canzoni di Petrolini e Sentimento nuevo di Battiato, la scrittura spezzata di Heiner Müller e quella micidialmente lucida di Raymond Carver, e poi la poesia di Leopardi, e poi ancora un affastellamento di citazioni e affondi (testuali, ma anche tonali ed emotivi) di cui non è interamente possibile (né necessario) individuare l’origine. Insieme alla performance vocale di Di Mauro, il delicatissimo lavoro musicale di G.U.P. Alcaro, compositore che propone una partitura di rumori, voci, musiche che inseguono e precedono la follia del re. Lontano dal porsi a semplice intermezzo o commento della narrazione scenica, il tessuto musicale di Enrico 4 è vero e proprio performer (nel duplice senso di personaggio e di presenza che agisce in scena), alla pari dell’interprete tout court. Il dispositivo compositivo sembra fondarsi più su sperimentazioni di avvicinamento al cortocircuito che secondo schemi di montaggio, sia per quanto riguarda i rapporti fra parola e musica, sia all’interno della struttura narrativa. I passaggi fra un testo e l’altro sono sempre meno segnati, in un’interpretazione magmatica che intreccia, in un unico frammento, anche tre o quattro registri differenti, mentre può recuperare, in seguito, lo stesso andamento per più passaggi testuali. Il lavoro sulle sperimentazioni fonetiche acquisisce qualità tattili che vanno oltre la dimensione acustica e si riversano su altri contesti percettivi, modificando, ad esempio, lo spazio (che, prima claustrofobico, a tratti sembra materializzare l’ampiezza di una cattedrale).

Progressivamente i limiti fra i diversi territori drammaturgici e i percorsi di senso si sfilacciano, fino ad andare a comporre un mormorio continuo e delirante, una lingua che è musica, fra paradossi e allitterazioni, onomatopee e colpi di scena. Lo scollamento fra senso della drammaturgia e natura dell’interpretazione è sempre sottolineato, invocato, giocato e rimescolato. Modulazioni di voce che procedono per strappi, esplorazioni intorno al potere della macchina attoriale, un lavoro sulle varietà possibili della phoné sono gli elementi che fanno della performance di Di Mauro un’esperienza – innanzitutto sonora – travolgente, nonostante lo spettacolo sia composto per affondi che rischiano a volte la dispersione e mettano in difficoltà l’attenzione dello spettatore. Certo è, infatti, che il viaggio vorticoso di Di Mauro non si può seguire appieno: si entra e ci si allontana, si sprofonda e poi si esce di nuovo, pena l’intrappolamento nella follia del re – e le volte che accade lo spettacolo è spaventosamente efficace.

Oltre il leitmotiv della scrittura intorno alla pazzia, la drammaturgia di Enrico 4 mantiene e sviluppa un’altra radice del testo pirandelliano. Scritto alla fine del 1921, nel periodo del “teatro nel teatro” e proprio a ridosso di capolavori come i Sei personaggi, Enrico IV è un esperimento magistrale sulle relazioni (e le possibilità di confusione) fra realtà e finzione. Ed è proprio in questo contesto che emerge il lavoro drammaturgico e scenico di Michele Di Mauro – innanzitutto performer, ma a volte anche personaggio, cantante, attore, autore e forse, in qualche momento, se stesso – che è davvero difficile incastonare in limiti o identità, attoriali, drammaturgiche o culturali che siano.

Visto a Estate a Radicondoli

Roberta Ferraresi

Avere trent’anni sì, ma solo se si è a Dro

foto di Samuele Stefani

Un manichino con la mano puntata alla testa, come se avesse una pistola, fa il segno di uccidersi: in realtà ha solo trent’anni, è ancora giovane. È questa la grande immagine appesa alle mura della suggestiva Centrale Fies di Dro, in provincia di Trento: il modello anatomico creato dal gruppo teatrale Pathosformel, per il suo ultimo lavoro La prima periferia, è rappresentativo del festival di arti performative arrivato quest’anno proprio al suo trentesimo anniversario. A trent’anni si entra in pieno diritto nell’età adulta, si dovrebbero avere delle responsabilità, ma soprattutto si dovrebbe avere chiarezza sulla propria esistenza, chi si è, che ruolo si ha nella società, dove si sta andando e porre delle basi, che siano stabili, per iniziare a costruire non il futuro, ma il proprio presente. Ma questo manichino non sembra essere felice della sua età, tutt’altro: forse proprio perché oggi a trent’anni si chiede di esser equilibrati, di portare alla svolta la propria vita. Ma con i tempi che corrono nel nostro presente, e i giovani lo sanno bene – ma sembrano saperlo solo loro –, è duro ritrovarsi nell’età in cui tutti si aspettano una stabilità, è duro ritrovarsi ad avere trent’anni.

Drodesera – come viene chiamato – ospita nella sua settimana di festival – che va dal 23 luglio al 1 agosto – diversi gruppi teatrali della nuova generazione, ossia artisti che sono in pieno attraversamento/avvicinamento/superamento dei trent’anni: una cifra che pone un marchio su dei prodotti, artistici, che parlano della realtà vista da un trentenne e quindi una realtà ancora da migliorare ma su cui soffermarsi a riflettere. Le compagnie presenti nel primo fine settimana di festival affrontano temi quali la ricerca di un contatto tra chi riesce a sopravvivere in un mondo post-umano che sembra abbandonato come in I will survive di Garten, l’evoluzione e quindi come saranno i nostri avi nel futuro con L’origine della specie di Teatro Sotterraneo, la comunicazione del nulla e il paradosso esistenziale in NO-SIGNALdi Teatrino Clandestino e il meraviglioso nei gesti quotidiani in Wunderkammern di Virgilio Sieni. Chi si allontana dal mondo dei giovanissimi è Romeo Castellucci che, con la sua Societas Raffaello Sanzio, mostra con lo studio Sul concetto di volto nel Figlio di Dio (Vol.1) un mondo dove Cristo guarda indifferente la sofferenza dell’uomo o il gruppo veneto Anagoor che con Wish me luck si addentra nella dorata esistenza di Fortuny e dei suoi tessuti veneziani.

La Centrale Fies – luogo raggiungibile solamente con una navetta che rende ancora più auratica e suggestiva tutta la sede – ospita questa rassegna tra le montagne, con sale attrezzate e perfette per assolvere il compito di spazi scenici. L’atmosfera è frizzante e lo dimostrano la grande affluenza di pubblico e la convivialità che unisce operatori, artisti e appassionati intorno ad un gustoso bicchiere di vino trentino o ad una crêpe: ci si ritrova dopo gli spettacoli, se ne discute, si commenta e si balla anche grazie ai diversi dj che ogni sera animano la notte. Dro punta ai giovani e ai trentenni che, ancora in fase di crescita, hanno possibilità di migliorare la propria ricerca, trovare un confronto presentando i loro studi o lavori artistici già completati ad un pubblico attento e critico. E allora il manichino può trovare una gestualità diversa: il suo dito puntato alla tempia potrebbe anche suggerire la sua intelligenza. Tutto dipende da che punto di vista lo si guarda.

Visto a Drodesera festival, Dro

Carlotta Tringali

Parole parole parole

Una tazza di mare in tempesta

La drammaturgia – intesa, in senso ampio, come scrittura per la performance – ha vissuto stagioni di declinazione estrema nella seconda metà del secolo scorso: prima rimossa e superata, ma anche discussa, ripercorsa, riproposta, ricontestualizzata, la scrittura per il teatro ha perso autonomia e, da allora, vive sempre aggettivata. Si incontrano infatti, oltre la celeberrima “scrittura scenica” che ha fatto scuola, teorie del testo che si propongono in relazione alla drammaturgia visiva e alla drammaturgia degli oggetti, drammaturgia d’attore, dello spettatore, dello spazio, di scena, e via così, come a comporre un panorama animato da singoli percorsi di scrittura ad hoc, indipendenti e completi. Tanti quanti sono gli elementi immaginabili che compongono uno spettacolo. Nelle sue tante declinazioni possibili, la pratica della scrittura teatrale si è dunque applicata, in modi differenti, alla scena degli ultimi cinquant’anni, mentre l’elemento testuale tout court perdeva progressivamente d’attenzione. A tutt’oggi è difficile saper dire quante versioni, aggettivate o meno, ne esistano e, soprattutto, in che modo coesistano nell’unicum della performance.
Da qualche tempo, invece, si assiste ad accenni di ritorno alla testualità teatrale intesa in senso “convenzionale” (si fa per dire, avendo la drammaturgia, appunto, attraversato e assorbito periodi di molteplice restaurazione e ricreazione). Artisti che si erano distinti per percorsi di negazione della composizione drammatica tout court si rivelano, in tempi recenti, attraverso una riscoperta e un riavvicinamento alla dimensione testuale; mentre le avanguardie della regia (o di quel che ne rimane) instaurano vivaci collaborazioni con autori contemporanei, teatrali e non, le giovani compagnie tentano percorsi di composizione autonoma che certo ha poco a che fare con la testualità tradizionalmente intesa, ma si distingue comunque per un’attenzione particolare ai paradigmi testuali, al discorso e al parlato. Il teatro di fine millennio, in Italia, è popolato dagli anni d’oro di In-Yer-Face-Theatre, dalla nuova scena iberica di Rodrigo Garcìa, Rafael Spregelburd, Juan Mayorga e dalla riscoperta della drammaturgia francese (Koltès e Lagarce, ma anche Camus e Genet). E per quanto riguarda le creazioni strettamente nazionali, è necessario ricordare che alcuni dei percorsi più interessanti e vivaci della scena degli ultimi vent’anni appartengono ad artisti che hanno fatto della ricerca testuale il nucleo del proprio lavoro. Certo i testi di Emma Dante, come quelli di tanti altri nuovi gruppi, incontrano le improvvisazioni degli attori e passano attraverso la centrifuga della messinscena, prima di approdare alla forma compiuta; e quelli di Ascanio Celestini, fra gli altri, rimbalzano nelle parole delle tante persone che l’autore-attore ha incontrato durante il suo percorso creativo. Ma, pur secondo modalità e passaggi differenti e originali, il risultato (sulla scena e sulla pagina) è quello di un ritorno di attenzione per la ricerca drammaturgica, un affondamento deciso nella strutturazione del discorso e nella potenza della parola, per lungo tempo marginalizzata dai palcoscenici d’Europa.

Gioco di mano

Tracce e Intrecci, titolo di questa edizione di Estate a Radicondoli, può diventare esemplare rispetto alla varietà che popola la scena contemporanea, ma anche delle principali modalità di approccio alla scrittura nel teatro d’oggi. Gli spettacoli in programma  si collocano all’interno di questo panorama di “rinascimento testuale”: ogni creazione si caratterizza per un differente approccio alla questione della composizione drammaturgica e può considerarsi rappresentativa di una linea di azione che scuote la teatralità nazionale. Si va – per citare soltanto i lavori che incontrerà Il Tamburo di Kattrin nei suoi giorni di permanenza radicondolese – da progetti che hanno origine da grandi classici della cultura occidentale e ne verificano, sulla scena, l’incontro con l’attore, con l’umano e con l’individuo (come Una tazza di mare in tempesta di Roberto Abbiati che è composto a partire da Moby Dick, Coco di Dario Marconcini dall’ultimo testo, incompiuto, di Koltès,  La stanza di Pinter proposto da Teatrino Giullare, il Doctor Frankenstein di Koreja e l’Enrico 4 di Michele di Mauro) a scritture che tentano di dare voce e volto all’Italia in cui si vive oggi, andandone a cercare origini e contesti (Quanto mi piace uccidere… di Virginio Liberti, Gesuino di Simone Nebbia, L’Italia s’è desta di Stefano Massini). Altre sperimentazioni drammaturgiche si sviluppano intorno all’esplorazione dell’elemento autobiografico, come momento sia d’innesco che di verifica della storia: Carrozzeria Orfeo, con Gioco di mano, si impegna nel recupero di piccoli frammenti di vita troppo spesso risucchiati dalla Grande Storia, portando così in luce le

Coco

strategie individuali che hanno costruito materialmente le vicende e i fatti che tutti conoscono soltanto per astrazioni; Alessandro Benvenuti sperimenta possibilità inedite per l’affondo biografico in scena: Me medesimo, in cui il protagonista è sospeso e ripreso nelle trame del se stesso attore, «non è uno spettacolo ma un pezzo di vita da vivere in palcoscenico»; Teatri Divaganti, nell’anno dei Mondiali, indaga l’umano attraverso il gioco del calcio, che è parte della biografia di Andrea Mitri, autore e protagonista dello spettacolo. Infine la presenza, di alcuni dei più interessanti autori teatrali italiani, come il già citato Stefano Massini, ma anche l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro (L’origine del mondo) e Passo di Ambra Senatore, autrice la cui scrittura per la danza si è rivelata uno dei percorsi creativi più interessanti della scena contemporanea. Le diverse strategie messe in atto e i percorsi di sperimentazione esplorati si esprimono in schemi compositivi (ma anche emotivi) differenti, che incarnano angolature personali, approcci, singole esperienze dei tentativi di dare forma al materiale di partenza. Nella varietà di forme, ragioni e impatti, si può accennare a una linea comune, che accoglie anche diversi linguaggi (prosa e narrazione, ma anche danza, musica, romanzo e, perché no, calcio) ed è fortemente rappresentativa di quello che sta accadendo oggi su (e dietro) i palcoscenici italiani: si tratta di esperimenti testuali che rivendicano un pregnante e particolare rapporto con la realtà (artistica e non) da cui provengono, esemplare nei tentativi di incastonare piccolissime biografie nei vortici e nei monumenti del panorama socio-politico contemporaneo. Sono scritture che generano spettacoli in cui il processo di creazione è reso concreto, materiale e percepibile e che trovano il proprio fine nel rapporto col pubblico, nell’esplorazione della comunità e nella costruzione di una prossimità o solidarietà umane. Nuovi percorsi di una scrittura, dunque, che torna alla ribalta, collocandosi con forza fra il mondo che la precede e la origina e la realtà della scena e della platea destinata a seguirla.

Roberta Ferraresi

Estate a Radicondoli

Il festival Estate a Radicondoli giunge alla sua ventiquattresima edizione, quest’anno con un programma dedicato alla figura di Nico Garrone, direttore storico della rassegna, scomparso l’anno passato. Il nuovo direttore artistico Gabriele Rizza e i suoi collaboratori, hanno intitolato il programma Tracce & intrecci due percorsi che si sviluppano intorno alle linee gettate in tanti anni dal critico militante e fuori dai canoni che era Garrone. Tracce sono quelle che ritroviamo in alcune compagnie che hanno incrociato il suo percorso e ora affermate, intrecci sono invece quegli incontri che si fanno con le nuove generazioni, percorso da sempre stato a cuore del grande intellettuale e scopritore di talenti che era Nico.

La nostra redazione assisterà all’avvio della rassegna e ne seguirà il percorso da uno spettacolo all’altro, andando a sondare quel territorio fertile che è la sperimentazione e la contaminazione tra le arti sceniche. È infatti molto vario il programma proposto da Rizza, a partire dalla serata d’apertura con il concerto Trails for celtic harp di Stefano Corsi, musicista ed esperto di arpa celtica che propone brani di autori del ‘700 come Turlough O’ Carolan e di metà del ‘900 come Sean O’Riada che ha dato suono a Barry Lindon di Stanley Kubrick. La musica accompagna un altro spettacolo, Gesuino, un cabaret esistenziale di Simone Nebbia. Artista e critico teatrale, Nebbia racconta cantando, attraverso il personaggio di Gesuino, la vita politica, le rivoluzioni, gli anni in cui appartenere  a un partito era una scelta di vita. Di intrecci di vite e personaggi al limite tra la morte e la vita parla Gioco di Mano, del giovane gruppo Carrozzeria Orfeo formatosi all’Accademia “Nico Pepe” di Udine solo tre anni fa e ora presente in molte rassegne estive e invernali.
Un programma fitto per queste prime sei giornate che vedranno sul palcoscenico del Teatro dei Risorti o in piazza della Collegiata sfilare molti testi: alcuni completamente inediti, altri frutto delle nuove drammaturgie che irrompono sulla scena contemporanea. Breve performance-spettacolo che si ripeterà tutto il pomeriggio di giovedì sarà Una tazza di mare in tempesta di Roberto Abbiati, tratto dal capolavoro di Melville, gli straordinari racconti di Moby Dick: lo spettacolo trascina il pubblico in un’esperienza sensoriale oltre che visiva calandolo nella stiva di una piccola nave. Tratti da altri testi importanti sono Doctor Frankenstein dei Cantieri Teatrali Koreja, Enrico 4 di Michele di Mauro, Coco di Alessio Pizzech. Sempre da un grande drammaturgo è tratto La Stanza di Harold Pinter, messo in scena da Teatrino Giullare, gli attori costretti a recitare nello spazio di una finestra, si alternano nell’interpretazione di personaggi quotidiani ma straniati dall’uso di maschere iperrealistiche einnaturali. Tra le nuove drammaturgie spiccano invece L’Italia s’è desta di Stefano Massini, Quanto mi piace uccidere di Virginio Liberti, Me medesimo di Alessandro Benvenuti, I° studio per l’origine del mondo di Lucia Calamaro e Fuori gioco di rientro di Andrea Mitri.

Un vero tour de force per questi primi giorni di spettacolo che la redazione si appresta a seguire con grande entusiasmo, il programma prosegue fino a metà agosto con molti altri spettacoli tra musica, danza e teatro.

Camilla Toso