Si è concluso il 41. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia e il clima teso che accompagnava la settimana di manifestazione non sembra essersi placato. Da un lato, le polemiche connesse alle condizioni di partecipazione imposte ai laboratoristi all’interno del progetto della Biennale Teatro che, in quest’edizione si è presentata parallelamente come rassegna di spettacoli riconosciuti a livello internazionale e come spazio laboratoriale. Dall’altro, gli scontri politici sul cambio di direzione della Biennale data la scadenza del mandato dell’attuale presidente Paolo Baratta alla fine di quest’anno. Buone notizie giungono intanto dalla parità di voto ottenuta − il 26 ottobre − in commissione Cultura della Camera per la nomina di Giulio Malgara, designato dal ministro Giancarlo Galan, risultato equiparato da alcuni a una bocciatura. Ma ciò che preoccupa maggiormente, al di là di incomprensibili maneggi politici, è l’instabilità che un simile sistema può alimentare all’interno di un ente culturale come la Biennale in cui il confine tra incarico e poltrona rischia di divenire particolarmente labile. Tornando alla presidenza Baratta, nello specifico per la sezione Teatro, con la direzione artistica di Àlex Rigola, il progetto per la 41ª edizione si è sviluppato nell’arco di un anno solare: è iniziato nell’ottobre 2010, quando sette Maestri sono stati chiamati a Venezia per tenere workshop intensivi con attori e si è concluso domenica 16 ottobre (2011) quando è stato reso pubblico, in un percorso itinerante tra splendidi − e non sempre accessibili − edifici veneziani, il lavoro laboratoriale ripreso dai registi durante la Biennale Teatro 2011. Tema: i 7 peccati capitali, sette riflessioni su cosa sia il peccato oggi.
"Attore, il tuo nome non è esatto" di Romeo Castellucci
Il primo incontro di quest’esperienza è stato con la poetica di Romeo Castellucci; una delle Sale Apollinee del Teatro La Fenice si è fatta spazio saturo di luce rossa per accogliere il peccato contemporaneo sul quale ha lavorato il regista: “il guardare”. Attore, il tuo nome non è esatto si presenta come esercizio e messa in discussione del ruolo attoriale per lasciare piombare la contraddizione direttamente sullo spettatore, voyeur per antonomasia. Il performer entra in scena con fare naturale, si avvicina al vecchio registratore dal quale parte la traccia audio di una possessione demoniaca mentre su uno schermo vengono proiettate didascalie che, riportando data e luogo dell’avvenimento, divengono asserzione del rappresentato. Questa è la struttura basica con la quale ogni ragazzo fa il proprio ingresso. Protagonista dell’evolversi del lavoro è il corpo che il performer presta a queste voci; si sottopone a contrazioni, convulsioni e scuotimenti in un atto privato di fronte al quale, tuttavia, è schierata una platea. A contrastare una messinscena didascalica e ripetitiva, come l’abuso dei performer di panna montata e del labbiale per seguire il registrato, sono succedute azioni che si sono aperte allo spazio, hanno sfruttato la sala in tutta la sua profondità e hanno mostrato una maggior libertà d’intervento dell’interprete. A segnare i limiti di ogni singolo pezzo (8 in totale), la reiterazione di un ghigno che, in chiusura, l’attore ha rivolto allo spettatore, come a dichiarare la complicità tra i due, prima di assumere nuovamente un’espressione neutra e abbandonare la stanza.
Schierati, immobili sui gradoni lignei della Sala Rossi, sempre alla Fenice, i ragazzi del laboratorio di Calixto Bieito attendono il gruppo di spettatori. Un cartello bianco attaccato sulla fronte di ognuno di loro dichiara il peccato: Envidia è il vizio capitale che Bieito sente contemporaneo. Una panoramica sul tema che soffre a volte di pressapochismo − come nell’analogia del peccato affrontato con l’invidia provata da un’attrice nei confronti di coloro che in cambio di una parte concedono prestazioni sessuali, che lascia tuttavia risaltare l’essenza stessa del progetto di Rigola per la Biennale Teatro 2011: il lavoro laboratoriale inteso come incontro tra diverse persone che, forse per la carenza di tempo, non è stato qui sviluppato drammaturgicamente. All’opposto è Death in Venice: un’estratto dell’opera di Mann in cui la regia di Thomas Ostermeier è precisa e preponderante, come costruita senza tenere presente il contesto di rappresentazione. La scenografia che accoglie lo spettatore nella sala dell’Istituto Veneto, con lo spazio scenico aggettante sul Canal Grande, lo porta a sbirciare tra i vuoti creati dalla barriera di piante che lo separano dall’azione. Il regista estrapola dall’opera la scena in cui l’anziano Aschenbach, solo, seduto al tavolo di un ristorante, si imbatte nella bellezza disarmante di Tadzio (interpretato da una giovane attrice) per trattare il peccato della “pedofilia”. Ostermeier riduce il lavoro laboratoriale ad una messinscena perfetta della sua regia. Sovrasta sui laboratoristi la presenza dell’attore tedesco Josef Bierbichler, convocato per l’occasione in laguna. Rilevato questo, Morte a Venezia non può che ridursi, nel percorso dei sette peccati ad una, per quanto splendida, fotografia.
Di tutt’altra poetica è The holy gangster di Jan Fabre (all’Ateneo Veneto), un ironico e disorientante affondo sulla figura del gangster. Cinque coppie, i cui ruoli sono stati invertiti − le donne sono travestite da uomini e viceversa − estremizzano sulla violenza esistente nel rapporto tra due persone, pongono accenti sulla sottomissione femminile fino a mandare in tilt il meccanismo relazionale, non tanto per rovesciarne le sorti o dichiarare passato il maschilismo, quanto per rilevare l’impossibilità di sottostare e definire nettamente tali dinamiche. La parola si intromette nel grande lavoro fisico dei performer solo nel finale in cui, dopo una carellata di citazioni (da San Francesco d’Assisi a Sant’Agostino) è l’aforisma di Gandhi a tirare le somme di questa breve, ma conturbante esperienza: «Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco». Agli applausi rivolti alla performance di Fabre si lega immediatamente il vociare di alcune persone che accompagnano il pubblico alla Biblioteca dell’Ateneo Veneto: «la biblioteca interamente dedicata ad Amleto!» come viene esclamato da un attore sulle scale del palazzo. Burocracia. Brazo armado de la política o Maquinaria Idiota di Ricardo Bartís è un’intelligente rilettura del testo shakespeariano, con sviluppo drammaturgico metateatrale. In un continuo slittare tra vita e recitazione, un gruppo di attori si confronta − e scontra − sulle battute dell’Amleto per mostrare le incongruenze esistenti tra il sentire e la pubblica amministrazione. Nel succedersi di sketch colpisce la scena in cui Ofelia ricorda l’uccisione di suo padre «morto lì come un cane, dietro una tenda. E poi tutte quelle carte… », quelle infinite e logoranti pratiche funerarie; o l’anziana che continua a suonare alla porta della biblioteca pur dovendo recarsi in banca, ma lei «è un’attrice e questa burocrazia la uccide».
"The Slow Lie" di Jan Lauwers
Nell’incoerenza di successione del percorso tra questo racconto e l’effettiva presentazione delle performance, piace il pensiero di lasciare i lettori in un altro edificio veneziano che ha ospitato l’esito dei laboratori di Jan Lauwers e Rodrigo García: il Conservatorio Benedetto Marcello. Sul palcoscenico della Sala Concerti un performer è seduto al pianoforte a suonare Mozart. Come specchiato, davanti a lui, è disposto un altro pianoforte. Un’attrice con fare ammaliante descrive la scena di The Slow Lie, parla delle splendide pareti circostanti dai colori pastello e presenta i performer che, con movimenti fluidi e armoniosi, si muovono tra le poltrone di velluto rosso per attraversare la platea. Poi c’è Meredith, la cui presenza è nuovamente doppiata: fisicamente seduta in prima fila con le spalle rivolte al pubblico e frontale a questo, grazie alla ripresa di una telecamera che proietta le immagini su uno schermo. Il lavoro di Jan Lauwers è una “lenta menzogna”, non solo per la traduzione letterale del titolo. L’armonia dell’inizio, dichiaratamente artefatta, viene progressivamente disintegrata dall’accrescere di un ritmo interno ai performer che, come in una graduale esplosione di energia, mira allo smascheramento di stereotipi. «Contro l’indifferenza − come si legge nel catalogo − si erge Needcompany»; The Slow Lie è un tentativo, riuscito, di scuotere dall’apatia e dall’indifferenza sempre più dilagante e incondizionata, è una denuncia sull’incapacità di ascolto della contemporaneità.
Attraversando il chiostro interno prima di lasciare il Conservatorio, si incontra il settimo e ultimo peccato: “la solitudine”. Di fughe e isolamenti, di vita e di morte parlano le parole che giungono amplificate nello spazio, testi scritti dagli attori che hanno preso parte al laboratorio di Rodrigo García. Desconocer nuestra propia naturaleza si è sviluppato nel corso della settimana, quando il regista ha lavorato con i performer lungo le strade della città. Riportando il lavoro al Conservatorio, García accetta la possibilità che lo spettatore possa cogliere questo solo come installazione da attraversare ma, data la presenza umana − e scossi dall’indifferenza di cui solo poco prima ha parlato Lauwers, è difficile non occupare lo sgabello vuoto posto di fronte a colui che è intento a giocare al solitario con un mazzo di carte. Identici l’uno all’altro, come dei cloni, i performer siedono singolarmente a dei piccoli tavoli rotondi, sparpagliati per la corte. Trapela una richiesta di aiuto da queste figure nascoste sotto bellissimi costumi-scultura che rimandano alle tuniche del Ku Klux Klan; ma è una richiesta solo apparente, ogni piccolo gesto o ipotesi di incontro viene immediatamente respinto e la figura disturbata dall’incursore torna a chiudersi nuovamente nella propria solitudine.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Appunti su An afternoon love – di Pathosformel e recensione a Alcune primavere cadono d’inverno – di Pathosformel e Port-Royal
Sono piccoli squarci nella penombra i due momenti che espone Pathosformel con An afternoon love e Alcune primavere cadono d’inverno. Presentati nel suggestivo spazio della Cavallerizza Reale di Torino per il Festival Prospettiva 150, la location ben si adatta ad accogliere due figure in lotta, appena illuminate sullo sfondo di istantanee urbane. Sulla scena, un giocatore di basket in prima, e un ballerino di break dance poi, danno vita a una temporalità dilatata, in grado di far sprofondare lo spettatore in un viaggio interiore alla riscoperta di una romantica solitudine. Ad un primo sguardo, si potrebbe dire che lo sport si faccia simbolo di una condizione esistenziale; eppure il discorso condotto da Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani si carica di impulsi e rimandi che vanno oltre il concettuale, recuperando un approccio teso a un’analisi delicata, che fa del corpo atletico il centro di riflessione.
"An afternoon love" - foto Andrea Macchia
Nello studio di An afternoon love un giocatore di basket si muove agile sulla scena, danzando in un assolo di scartaggi, e accompagnato dal solo pallone. Ciò che si palesa sin dall’inizio è il senso di uno sforzo e di una lotta contro qualcosa che abita la scena con il performer, ma invisibile. Non c’è nulla di trascendentale nella rappresentazione, eppure, attraverso i soli movimenti, Pathosformel riesce a suggerire il senso di un conflitto privato, di una relazione che a tratti ricorda una storia d’amore. Un rapporto tra l’atleta e lo sport che si viene a instaurare a un livello che oltrepassa la prestazione fisica e che si fa cifra di una tensione maggiore, verso qualcosa che travalica le manifestazioni e le competizioni. Chiunque abbia praticato sport a livello agonistico riconosce in quelle movenze il ritmo quotidiano di una pressione che nulla ha a che fare con i risultati e i riconoscimenti ottenuti. L’unica tensione che muove un atleta è quella verso la perfezione, verso la completa padronanza del proprio strumento, verso la piena consapevolezza di se stesso. Un percorso inevitabilmente solitario, e carico di malinconia.
In una coreografia orchestrata su “l’essere sotto i riflettori” e il muoversi nell’ombra, Joseph Kusendila gioca a richiamare alla mente immagini arcaiche e ritmi interiori: il rimbombo del pallone sulla pedana, come un tamburo, riecheggia nelle orecchie dello spettatore, nel tentativo di risvegliare il battito di qualcosa che pulsa all’interno, mentre le pose assunte durante esercizi di equilibrio rimandano a talune statue di atleti ed eroi greci. Questa temporalità incerta – che riesce a porre sullo stesso piano antiche civiltà e paesaggi urbani dal sapore statunitense – si muove su una melodia fatta di lirica tedesca e lunghe pause in cui tutto ciò che si sente è un respiro affannoso. Suggestioni fulminee, che necessitano ancora di una partitura e di una drammaturgia più solida per poter superare la forma della sola impressione, dispersa in tempi forse troppo dilatati.
"Alcune primavere cadono d'inverno" - foto Andrea Macchia
Il discorso acquista contorni più chiari nella mente dello spettatore che ha assistito anche ad Alcune primavere cadono d’inverno. In scena, questa volta, è una pedana metallica, sulla quale si muovono un ballerino di break dance e un sacchetto di plastica (che richiama la poesia della famosa scena di American Beauty e dell’immaginario ad essa collegato). Il lavoro – realizzato con i Port-Royal (formazione di rilievo nel panorama della musica indipendente italiana) – riesce a raggiungere picchi di estrema emotività ed empatia, coadiuvato da un live sound decisamente avvolgente. Lo sprofondamento nell’intimità del performer (Stefano Leone) e nel suo sfidare le leggi della fisica attraverso una pratica che porta la rottura (“break”) nel suo stesso nome, è infatti sostenuto da un tessuto di sonorità corpose frastagliato di glitch elettronici che sospingono lo sviluppo melodico della partitura musicale e coreografica. Attraverso questo accostamento semantico insolito (la cultura hip hop e la musica indietronica) Pathosformel e Port-Royal riescono a creare una temporalità bloccata, in cui protagonista e centro assoluto della rappresentazione è la lotta dell’atleta/performer: i limiti fisici imposti dalla propria struttura anatomica e da uno spazio ristretto in cui agire disegnano un perimetro all’interno del quale definire e tracciare se stesso. Al contrario di An afternoon love, in questa partitura gestuale la presenza umana si incontra e dialoga con un oggetto che non è un suo prolungamento, ma un vero e proprio interlocutore con il quale confrontarsi e da cui farsi ispirare. Ne scaturisce un’interessante contrapposizione tra ciò che è in grado di librarsi nell’aria e ciò che invece è ancorato al suolo dal peso della propria umanità. Sarebbe facile leggervi una metafora di una coscienza che anziché liberare, intrappola. Eppure, la bellezza della performance risiede proprio nell’abilità con cui si viene a creare un momento di sospensione, a partire dalla suggestione di un passo a due per corpo e oggetto: un raro momento di delicatezza non gratuita, in cui difficilmente si ha modo di immergersi a teatro.
Visto alla Cavallerizza Reale per Festival Prospettiva 150, Torino
Recensione a El Box – Ricardo Bartís /Sportivo Teatral
A Biennale ormai finita si fa i conti con i numeri di questa edizione, decisamente straordinari se rapportati agli anni passati: un tutto esaurito che colpisce soprattutto chi tra i più scettici pensava che il costo del biglietto (tra i 25-20 euro) avrebbe disarmato anche i più volenterosi. E invece no, le sale erano piene zeppe di pubblico e di operatori; a richiamarli sono grandi nomi, dal suono esotico, grandi maestri non ancora passati da Venezia o di difficile intercettazione… Ci voleva insomma un direttore artistico internazionale e un ben più giovane delle media italiana (il quarantenne regista catalano Àlex Rigola), per stuzzicare Venezia con grandi aspettative. Le stesse motivazioni spingono il pubblico a riempire la doppia replica di El Box (La Boxe) della compagnia argentina Sportivo Teatral diretta da Ricardo Bartís.
“Sgarrupato”, è il primo termine che viene in mente, una volta seduti in platea nella suggestiva cornice del Teatro alle Tese all’Arsenale di Venezia. La scena ritrae una vecchia palestra, che è anche casa e studio, una struttura importante che riproduce un ambiente logoro, dalle pareti sporche, saturo di cianfrusaglie sparse qua e là, di mobili usati e ormai retrò. Una scena insolita per il pubblico italiano, ma simile a molte altre dei teatri argentini: ovvero strutturata esattamente sull’architettura della sala – trasformata in teatrale – in cui la compagnia svolge la propria attività. È in un ex-deposito di ambulanze che ha sede lo Sportivo Teatral, nel quartiere Palermo, uno dei più antichi della città di Buenos Aires. È in questa città che si svolge gran parte dell’attività teatrale dell’intero Paese: dai grandi musical di Avenida Corrientes, ai teatrini indipendenti di Avenida Humahuaca; un panorama certamente altro, con una storia e una società lontane ma a cui in un certo modo ci si sente affini.
Già da questi piccoli indizi si riesce a intuire come l’impronta sia diversa da quella di gran parte del teatro europeo contemporaneo. Se infatti in Italia, ma anche all’estero, tecnologia e immagine sono all’ordine del giorno, in Argentina è la drammaturgia a caratterizzare la contemporaneità. Ricardo Bartìs insieme al suo collettivo, con cui lavora dal 1986, ha costruito la trilogia sullo sport che, iniziata con La Pesca, terminerà con El Fùtbol (“il calcio”). L’opera presentata a Venezia, seconda parte della trilogia, vede protagonista della vicenda María Amelia (Mirta Bogdasarian), una donna in un mondo di uomini, una “boxeur” che il giorno del suo cinquantesimo compleanno rivive nel ricordo tutta una vita di fatiche, umiliazioni, conquiste, vittorie e sconfitte. Nessun invitato si è presentato alla sua festa, tranne il Dottor Otamendi (Matías Scarvaci), una vecchia conoscenza che ha macchiato in modo irreversibile la vita della protagonista, svelando al mondo il di lei segreto: Amelia gareggiava travestita da uomo quando era solo una ragazzina. Questa scoperta fece di lei una pioniera, ma fu anche portatrice di grandi dolori. Sull’onda dei ricordi tra i partecipanti alla festa si scatena una rissa, l’intento sportivo svanisce, i ricordi amari non sembrano più legati a quelli della protagonista ma piuttosto a quelli dell’Argentina stessa: violenze, soprusi, falsità che hanno rovinato un Paese e il cui dolore ancora permea le vene del suo popolo.
La metafora nel testo non sembra arrivare così diretta al pubblico italiano: vuoi per i sottotitoli, vuoi per uno stile recitativo al quale non si è abituati, l’opera non colpisce e non coinvolge il pubblico. Il foglio di sala con riferimenti storici sull’Argentina non basta a colmare un vuoto dato dall’ignoranza – in senso letterale – di avvenimenti e fatti storici che sono marchiati a fuoco nella memoria di un qualunque spettatore sudamericano. Forse sono proprio queste distanze socioculturali, ma anche estetiche, a lasciare perplessi. Lo stile retrò della scena e della recitazione fa sembrare tutto uscito da un’Italia degli anni Sessanta/Settanta e questo pregiudizio puramente estetico e formale, crea un muro attraverso il quale è difficile passare.
Al di là del muro, però, va l’operazione del direttore artistico Àlex Rigola, il cui intento è esattamente quello di passare i confini geografici, mostrare altro, anche con il rischio che qui possa sembrare esotico o di un’altra epoca.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Recensione a Woyzeck ou l’Ébauche du vertige – di Josef Nadj
Si percepisce dall’applauso che fatica a partire – anche se poi si fa calorosissimo; dalla curiosità negli occhi degli spettatori che, terminato lo spettacolo, possono finalmente avvicinarsi al palcoscenico per osservare quegli oggetti che, come reperti o macerie di una tragedia, segnano la scena del Woyzeck di Josef Nadj: si è appena stati coinvolti in una magia e il riemergere da questo stato richiede una lenta ripresa di consapevolezza, come l’atto di oggettivare quegli elementi che si sono manifestati finora come apparizioni. Il lavoro del coreografo franco-ungherese – ora al CCNO di Orléans – è come una stupefacente macchina scenografica che opera nel piccolo spazio deputato all’azione. Nadj riprende l’opera incompiuta di Georg Büchner in tutte le sue sfaccettature; il manoscritto lasciato dall’autore si compone infatti di quattro versioni – o ébauches, bozze, da qui il sottotitolo – e il coreografo sembra non fare una scelta, ma presentare le diverse parti secondo una precisa formula di composizione che, per sovrapposizioni e ripetizioni, tende ad accennare più che dichiarare. Una struttura che se in parte nega allo spettatore una lettura lineare in cui rintracciare i punti cardine dell’opera, dall’altra lascia che la scenografia, con le sue variazioni, prenda il sopravvento e vada a comporre una drammaturgia visiva più affascinante della storia in sé. Nel Woyzeck di Nadj si ritrova il giovane soldato protagonista dell’opera, così come Marie, la sua compagna, ma il tradimento di questa viene presentato come violenza; non può esservi consenso perché la donna è una marionetta, il suo corpo viene passato di uomo in uomo e lei viene uccisa una, due, tre volte… O forse mai, essendo già morta. Il volto di Marie – così come quello degli altri danzatori – è stato infatti privato del colore rosato della pelle; i lineamenti sono stati coperti con uno strato di argilla a negare identità e vita.
La danza di Nadj è fortemente espressiva e a tratti caratterizzata da gestualità dal sapore circense; il movimento si fa esagerato là dove è raccontato lo scontro tra Woyzeck e i suoi antagonisti ma anche dettato da scelte artistiche, come dichiarato dalla presenza di costumi imbottiti che si contrappongono alla fisicità convenzionale del ballerino. Ma la partitura coreografica è ricca di sfumature e il gesto poetico e tragico si origina dalla povertà della scena: nella miseria di una vecchia e polverosa stanza, i sette danzatori occupano lo spazio insieme a qualche sedia, un tavolo e delle porte appoggiate alla parete-fondale; sfruttano gli oggetti scenografici – fatti di legno, terra, paglia e sabbia – per consegnare agli spettatori immagini di grande bellezza. La miseria che Nadj porta in scena varca la composizione büchneriana per approdare direttamente ai conflitti della ex-Jugoslavia – il Woyzeck ha debuttato infatti nel 1994 – con uomini che si proteggono dagli attacchi nemici dietro a dei massi (resi in scena con delle piccole pietre) e che allo stesso tempo, con un lieve movimento oscillatorio, assegnano a questo riparo la condizione di dimora stabile lontana dalla precarietà bellica. E poi c’è la fame provocata dalla guerra: il rumore di ceci crudi in una scodella di latta, le uova e le mele che non possono essere mangiate perché custodi di tesori come degli scrigni.
E come non c’è cibo, non c’è neppure acqua: bellissima l’allusione alla presenza-assenza di quest’ultima nella simulazione di una doccia, sequenza in cui, nuovamente, la scenografia ideata da Nadj genera stupore per la capacità del coreografo di lasciare emergere da elementi primari, o dalla loro stessa mancanza, quell’aspetto magico in cui l’eco della poetica di Kantor, ma anche del coetaneo Nekrosius, non tarda a manifestarsi.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Recensione a Die Nacht Kurz vor den Wäldern – di Antonio Latella
Antonio Latella e Clemens Schick - Ph. Daniele Fior
È una voce nell’oscurità quella che accoglie gli spettatori all’ingresso al Teatro Carignano di Torino, per l’inaugurazione della terza edizione del festival Prospettiva, che in onore dei 150 anni dell’Unità di Italia sottotitola “Stranieri in patria”. In scena, Clemens Schick –per la regia di Antonio Latella – interpreta il testo del francese Bernard-Marie Koltès Die Nacht Kurz vor den Wäldern (traduzione dal francese di Simon Werle). Un testo forte, in cui le parole sanno trafiggere e trapassare nonostante l’estraneità della lingua: la drammaturgia penetra per la forza della recitazione dell’attore tedesco, che usa la propria lingua madre, creando un distacco tra sè e il pubblico che assume connotazioni interessanti se si considerano i flussi migratori che caratterizzano la nostra epoca. La bravura di Latella risiede proprio nel saper gestire questo incontro polilinguistico e, di conseguenza, culturale, in modo da creare un impasto che sappia restituire il senso di un’indignazione forte e potente che coinvolge donne e uomini di ogni nazione, stato ed etnia. Ne siamo stati testimoni durante il fine settimana passato con le manifestazioni che si sono tenute in tutta Europa, e che in Italia hanno segnato un ulteriore passaggio di una storia che, ogni giorno, si fa più dolorosa. Le battaglie si inaspriscono perché le persone perdono fiducia: si sente il bisogno di saper ritrovare quel senso di appartenenza che sta svanendo sotto la spinta di classi politiche e categorie economiche egoiste e disinteressate nei confronti dei popoli di cui si trovano alla guida o di cui amministrano i beni. In questo senso (e in questo momento storico) è difficile analizzare la messa in scena della nuova compagnia di Antonio Latella senza tenere in considerazione il clima sociopolitico attuale, considerato nelle sue declinazioni più emotive. Il sentimento sociale sembra infatti coincidere sempre di più con lo stato d’animo del protagonista, che ricorre ad un linguaggio talvolta scurrile e crudo per riferirsi alla condizione in cui si ritrova ingabbiato a causa del suo essere “straniero” (basti pensare a quando afferma che «quelli che ce lo mettono in culo» sono ovunque, anche tra i politici, i poliziotti e i ministeri).
Antonio Latella - Ph. Anna Bertozzi
Il testo scelto da Antonio Latella ben esprime questo disagio, che non è più solo il malessere di una nazione isolata, ma di molte persone, legate le une alle altre dalla necessità di far sentire la propria voce e dalla speranza che questa venga raccolta ed ascoltata. Non importa da chi, basta uno sconosciuto. Ed è infatti ad un passante che parla il protagonista del testo di Koltès: uno straniero come tanti, dall’abbigliamento dismesso nel suo completo grigio indossato sopra un petto nudo. Il movimento continuo e la corsa sul posto a cui l’attore è costretto per quasi tutta la durata dello spettacolo, mettono alla prova fisicamente l’interprete tedesco che si ritrova a vomitare il proprio disagio politico, interiore ed emotivo. Una scelta dolorosa, ma che grazie all’interpretazione di Schick sa penetrare nel pubblico, lasciandosi alle spalle le differenze linguistiche: sono corpo e voce che, attraverso inclinazioni minime e millimetriche, riescono a scatenare quel senso di affanno che si prova quando tutto ciò che rimane è la speranza (unica prospettiva che si apre in un momento di disperazione, in seguito ad episodi di violenza e di delusioni). Attraverso le parole del protagonista – purtroppo filtrate da sopratitoli che non riescono a dare atto della complessità del testo, restituito attraverso un’interpretazione veloce e tagliente – si scivola all’interno di una città avvolta dal buio, in grado di abbracciare quell’oscurità che si accumula nelle viscere di chi ha avuto una vita di soprusi e felicità mancate. Koltès/Latella ci parla di una politica senza nazione, eppure reale e concreta, di un’umanità degradata che richiama alla mente i soggetti di Kirchner e di Grosz, di una sensualità che nasconde il marcio di una società (come non pensare alle nostre veline-ministre-parlamentari-assessori?). Ed è la bravura tecnica di Schick che riesce a rendere il senso di uno sprofondamento che dalla denuncia sociale passa ad un’intimità segretamente corrosa, senza mai ricorrere a passaggi bruschi e artificiosi. Eppure la voce lontana che si ode ancora prima che la rappresentazione abbia inizio, altro non è che la voce di un Signor Nessuno: un suono soffocato, che a malapena si riconosce nel brusio di una società che pare essere insofferente al dolore altrui. Un lamento che può essere inghiottito in qualsiasi momento, come testimoniano le pause che scandiscono le fasi del monologo. Latella sceglie infatti di far scomparire il protagonista – e con lui le sue parole – non nell’oscurità, bensì in una luce accecante, abbagliando così il pubblico in sala che del protagonista non riesce che a scorgere la sagoma. Una scelta che rivela la potenza di una società in cui l’equilibrio instabile passa attraverso la gestione dei mezzi di comunicazione di massa: televisione e radio si pongono come strumenti di controllo del potere, come ai tempi delle propagande dei vari nazismi e fascismi europei, ma non solo. Ed è infatti in questo clima che oscilla tra la situazione politica attuale e i tempi delle grandi dittature che si inseriscono le scelte registiche di Antonio Latella. L’intelligenza dell’interpretazione del testo si incarna proprio nell’abilità non solo di muoversi tra gli slittamenti emotivi e semantici legati agli episodi narrati, ma soprattutto di creare quell’incertezza temporale in grado di far vacillare la percezione dello spettatore: alternativamente ci si riconosce nelle parole del protagonista e, con la stessa intensità, nell’indifferenza di quel passante senza volto che è necessario rincorrere per trovare l’ascolto di cui si sente il bisogno nei momenti di sconforto.
Nonostante gli ostacoli imposti dalla fruizione di uno spettacolo in una lingua sconosciuta – che ben si adatta alla durezza del testo – Antonio Latella riesce a calibrare con precisione alchemica le giuste dosi di critica sociale e sconforto personale: la messa in scena lascia attanagliato lo spettatore in una morsa mista di dolore, desolazione e sconforto, senza mai far cadere Clemens Schick nel patetismo di una recitazione caricaturale dei diversi stati d’animo. Complici la drammaturgia di Catherine Schumann, le musiche di Franco Visioli, le luci di Simone De Angelis, i costumi di Graziella Pepe, i movimenti di Francesco Manetti e la traduzione italiana dei sopratitoli di Luca Scarlini. A fine rappresentazione, si rimane sconvolti dalla familiarità con cui si è stati in grado di seguire la vicenda di un tedesco (di dove? di quale nazione? e dove si trova?) che per una notte intera ha percorso l’oscurità, per poi scomparire urlante e tremante in quella luce che anziché portare chiarezza scatena quesiti che rimangono senza risposta, sulle note di un pianoforte che accompagnano la dissolvenza finale.
Visto al Teatro Carignano, Torino (Prospettiva 150)
Forte curiosità e alte aspettative per lo spagnolo Calixto Bieito, raramente presente su territorio nazionale: finalmente in Italia era possibile vedere uno tra i più intriganti Maestri dell’arte performativa, descritto come ‘il regista dello scandalo’ o il ‘Quentin Tarantino del teatro’ dalla duplice natura, acclamato sui palcoscenici internazionali per le sue regie liriche e noto per l’anima ribelle volta alla prosa. Come perdersi quello che si credeva potesse essere il rivoluzionario Desaparecer?
Presentato al Teatro Goldoni di Venezia durante la 41. edizione del Festival Internazionale del Teatro, il “poema per due voci perse nella nebbia”, come da sottotitolo, di scalpore non ne solleva; la sensazione più profusa è quella di essere al posto sbagliato, di fronte a un recital di stampo classicheggiante, ben interpretato, cantato, musicato e semplicemente costruito, secondo una struttura lineare di prosa, poesia, canzone e racconto. Le due presenze in scena, una donna e un uomo mai in dialogo tra loro – a cominciare dalla scelta di due lingue non comunicanti quali l’inglese per lei e lo spagnolo per lui – richiamano in modalità differenti i pensieri del solitario passeggiatore, vicino all’orlo del precipizio, Robert Walser, con il racconto horror de Il gatto nero e la poesia Il corvo di Edgar Allan Poe.
Maika Makovski, che ricorda a tratti Tori Amos e in altri PJ Harvey, dà prova di essere una bravissima compositrice seduta al pianoforte e davanti al microfono, ma ha una debole presenza scenica quando lascia lo strumento per vagare sul palco; il celebre attore Juan Echanove sembra invece vestire i panni troppo stretti di un rigido cantante lirico: piuttosto che muoversi, se ne sta per la maggior parte del tempo immobile, troppo concentrato a impostare i suoi monologhi, come fossero partiture musicali. L’impressione è che a mancare sia proprio la regia: i due protagonisti si annullano nel vuoto rarefatto dell’ambientazione, non giustificando le loro posizioni all’interno di questo spazio sospeso, che ricorda l’interno di un piano-bar di una nave.
Lo spettacolo si perde – non solo letteralmente – in un mare di nebbia. Forse il suo aspetto più fascinoso e interessante è proprio quello di far sentire lo stesso pubblico naufragato in un luogo non tangibile, sospeso nel magma bianco che lo assorbe completamente sin dall’inizio, suscitando dei risolini curiosi. Una pseudo-allegria che viene meno quando, dal nulla, proviene una voce, quella di Echanove, che necessita di sovratitoli per essere compresa (per quanti non capiscono lo spagnolo ovviamente); si alza la testa alla ricerca disperata di una traduzione, ma si rimane a bocca asciutta per buona parte di Desaparecer: anche le scritte proiettate sono impossibili da vedere per il troppo fumo che appanna la vista. A questo punto non rimane altro che far galoppare la fantasia dello spettatore, facile per le anime romantiche presenti in sala; ma a metà spettacolo, quando l’attore racconta il processo che l’ha portato a uccidere la moglie con un’accetta, l’immaginazione inizia a incespicare e la nebbia che invade il teatro sembra piuttosto diventare un gas soporifero.
Bieito consegna a questa Biennale uno spettacolo ingessato e ingabbiato in un teatro che ricorda più una lirica di retroguardia. Un recital ben confezionato, con una musica che strizza l’occhio allo spettatore, e che ottiene, nonostante tutto, diversi consensi da chi ha un’alta capacità di sognare e lasciarsi sommergere dall’astrazione.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Carlotta Tringali
Questo contenuto è parte del quotidiano “L’Ottavo Peccato”, e della sua versione web, per il 41. Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia.
Che il teatro sia, essenzialmente, un’esperienza creata dall’attore e dallo spettatore è ormai un cliché. Lanciato dalle battaglie estetiche e politiche di inizio Novecento, fra sperimentazioni di uno spazio altro e agitazione politica; riveduto dalle neoavanguardie degli Anni ’60 e ’70 oltre i propri limiti fino all’animazione e declinato in chiave voyeuristica dal quel “ritorno all’ordine” sociopolitico in cui si inserisce la co-autorialità (in vero più interpretativo-intimistica che partecipativa) dell’arte postmoderna di fine secolo, questo principio si può considerare oggi croce e delizia di qualsiasi creazione spettacolare. È vero, pensando al teatro che si fa di questi tempi, che la ricerca emergente ha dimostrato con grande precisione ed efficacia di volersi nuovamente far carico del proprio doppio, ovvero del pubblico che ogni sera decide di impegnare qualche ora per recarsi a teatro – scelta che, di questi tempi anestetizzati dalla fruizione più individualizzata che si ricordi, torna a mostrare tutto il suo implicito politico e civile. Ne sono segni il ritorno del comico come i tentativi di reinserirsi nei dibattiti d’attualità, il riferimento a linguaggi e lingue quotidiani così come la profonda dimensione d’umanità di cui alcune creazioni contemporanee sono intrise. Ma è anche vero che la dimensione strettamente partecipativa, quella che intende chiamare in causa lo spettatore, sottolineandone direttamente l’apporto nella costruzione del fatto teatrale, è un po’ in crisi. Al Festival Contemporanea di Prato entrambe queste linee – quella emergente che accarezza e supera i confini del proprio presente e l’altra, dichiaratamente collaborativa – vanno a comporre, forse, uno degli orientamenti sotterranei che tengono insieme, concettualmente e concretamente, le specificità che animano i diversi appuntamenti in programma.
Nella sezione “Alveare” si trovano lavori nuovi o ancora in progress, creati da alcune delle più interessanti realtà del nuovo panorama performativo nazionale. Nella prima settimana (“Vol. 1”), quindici-venti minuti di Compagnia dello Scompiglio e Azul Teatro (Atto semplice), Pathosformel (An afternoon love), inQuanto teatro (Monstrum), Yael Karavan (Flesh).
Katia Giuliani “iShow”
Ci soffermiamo qualche momento su An afternoon love, che fra le performance viste nella serata sembra il lavoro più maturo, nonché capace di rilanciare la questione del rapporto fra il teatro e il proprio pubblico. Pathosformel ormai si concentra sul contributo autoriale che il pubblico offre alla dimensione performativa: se con La timidezza delle ossa si tessevano relazioni fra porzioni di corpo impresse su un grande fondale e in La più piccola distanza si inventavano storie su incontri e abbandoni di un gruppo di quadrati in movimento, in questo ultimo spettacolo il nodo è l’insolita coreografia che si sprigiona fra un giocatore di basket e il suo pallone. Il lavoro della compagnia sull’intervento co-autoriale del pubblico, tuttavia, sembra più tornare alle sperimentazioni iniziali che sviluppare i limiti interessanti toccati con La prima periferia: lì tre performer muovevano altrettanti modelli anatomici, intarsiando dispositivi di sproporzione capaci di mettere in crisi le aspettative e le linearità narrative del pubblico; qui, pur mantenendo una attenzione similare per i passaggi che presiedono il movimento umano e per i momenti che lo precedono e lo seguono, fra concentrazione nell’organizzazione del gesto e fatalità della contingenza, la cornice performativa rischia spesso di andare in pezzi: la collocazione iperrealistica e quotidiana dello spettacolo (l’allenamento di basket) sembra mettere a repentaglio lo spazio immaginativo riservato al pubblico, che potrebbe abbandonarsi alla “danza” agonistica senza intervenire con la propria autorialità a riassettare il senso dell’azione. Ovvero, diversamente da quanto accade all’interno di partiture drammaturgiche più astratte, che invocano direttamente una partecipazione interpretativo-emotiva, lo spettatore potrebbe, percependo l’azione nella sua precisa concretezza, ricadere in una fruizione passivo-voyeuristica, e seguirla appunto per quello che è: una sorta di allenamento sportivo. È evidente che la compagnia sta sviluppando, con coerenza e coraggio, una ricerca di tutto rilievo, il cui segno esemplare qui si trova, forse, nell’immissione della fatalità che il gesto subisce e nella rinuncia a dispositivi di protezione (protesi, si potrebbe dire) che, pur nell’affascinante magia teatrale che utilizzavano, hanno saputo indirizzare e guidare forse eccessivamente il processo interpretativo dello spettatore. Qui, in quello che si potrebbe considerare sì un esito spettacolare modesto rispetto ai precedenti lavori della compagnia, ma anche un’occasione interessante per rintracciare i nodi di una ricerca tutta in divenire, non c’è più nessun “paracadute” o protesi di sorta, ma quella che sembra un’ulteriore assunzione di responsabilità da parte della dimensione autoriale. Che fa sì un passo indietro, ritirandosi ancora di più dal controllo interpretativo del proprio lavoro; ma che allo stesso tempo implica e invoca, anche, estrema libertà di fruizione.
Ci sono poi in programma, tutti i giorni, eventi performativi che si concentrano sul coinvolgimento diretto del pubblico: il lavoro di Cuocolo-Bosetti (in programma con lo spettacolo-cena The secret room, in una casa privata, e la performance telefonica Theatre on a line) e i-Show di Katia Giuliani. In entrambi i casi non è possibile (né corretto) rivelare molto dello sviluppo drammaturgico, onde rovinare l’esperienza che gioca innanzitutto sull’effetto sorpresa. Diciamo che lavori come questi si impegnano a sottolineare, portandola sotto gli occhi di tutti, la necessità partecipativa di cui si costituisce l’evento teatrale, un’esperienza che coinvolge e trasforma parimenti – e non solo in lavori “estremi” come questi – tanto l’attore quanto lo spettatore, in un curioso specchio (e qui anche contaminazione) di ruoli inteso a far luce sui dispositivi fondanti il fatto teatrale.
Andare a conoscere il pubblico, per farlo interagire, partecipare e renderlo vero protagonista del fatto teatrale è una delle strategie d’azione di Contemporanea 2011 – Festival, si potrebbe pensare, la cui frequentazione si impone come appello civile, la cui idea si mostra nella quotidiana e minimale occasione di riscrittura del modo di fare cultura e di ricostruzione della comunità. Certo, intorno “soltanto” a un evento teatrale; ma in questi tempi di ristrettezza ed emarginazione, di gioco al ribasso e sopravvivenze a rischio, forse proprio dal teatro può ripartire non solo una denuncia ma soprattutto l’invenzione e la proposta di formule originali per fare e vivere in tutt’altro modo.
Roberta Ferraresi
ma scusa hai mai preso soldi per quello che fai? per scrivere di teatro?
Iniziato l’autunno, finisce l’estate dei festival di teatro che ha fatto spostare, senza sosta, appassionati, operatori e artisti per tutta la penisola italiana. Ma se ci si guarda bene intorno ci si accorge di quanto questo ottobre voglia continuare ad essere caldo e non ne voglia sapere del cambio di stagione: come lo stesso tempo atmosferico, ci sono dei festival che fanno rimanere la temperatura alta anche nel mondo teatrale; temperatura che invece di diminuire va aumentando, soprattutto per l’accavallamento di eventi a cui si vorrebbe assistere contemporaneamente, andando contro ogni regola fisica (e logica?). Ci si mette il cuore in pace, l’ubiquità ancora non è stata inventata.
A ottobre prendono il via rassegne di ampio interesse, con cartelloni ricchi di appuntamenti tra spettacoli, incontri e performance. Mentre a Milano è già iniziata la XXV edizione della rassegna di danza Milanoltre, a Torino partirà a breve Prospettiva, a Modena Vie Scena Contemporanea e nella capitale Romaeuropa Festival, lunedì 10 ottobre si apre a Venezia il 41. Festival Internazionale del Teatro diretto da Alex Rígola: fino al 16, una settimana che prevede ogni giorno non solo spettacoli, ma anche laboratori, incontri con gli artisti e scenografi di importanza internazionale. Vi proponiamo qui il calendario con gli appuntamenti che, a chi si trova in laguna, consigliamo di non perdere.
BIENNALE TEATRO: SPETTACOLI 10>16 ottobre 2011 – VENEZIA
Lunedì 10 ottobre
ORE 20 al Teatro Goldoni in prima italiana
Schaubühne Berlin (Germania) Hamlet
di William Shakespeare
regia di Thomas Ostermeier
Martedì 11 ottobre
ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove Santasangre Sei gradi. Concerto per voci e musiche sintetiche
ORE 19al Teatro Piccolo Arsenale in prima italiana
Troubleyn/Jan Fabre (Belgio) Prometheus Landscape II
regia di Jan Fabre
ORE 21 al Teatro alle Tese
Needcompany (Olanda/Belgio) Isabella’s room
regia di Jan Lauwers e Needcompany
Mercoledì 12 ottobre
ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove Teatropersona AURE
ORE 19 e 21.30 al Teatro alle Tese in prima italiana
Sportivo Teatral (Argentina) El Box
regia di Ricardo Bartís
Giovedì 13 ottobre
ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove
Anagoor FORTUNY
ORE 19 al Teatro Piccolo Arsenale
Socìetas Raffaello Sanzio (Italia)
Sul concetto di volto nel Figlio di Dio
regia di Romeo Castellucci
ORE 21 al Teatro alle Tese
La Carniceria Teatro (Spagna) Muerte y reencarnación en un cowboy
regia di Rodrigo Garcia
Venerdì 14 ottobre
ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove Muta Imago Displace#1 La rabbia rossa
ORE 21 al Teatro Goldoni in prima italiana
Barcelona International Theater (BIT) (Spagna) Desaparecer
Poema-concerto per due voci perse nella nebbia
regia di Calixto Bieito
Sabato 15 ottobre
ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove ricci/forte Grimmless
ORE 20 al Teatro Piccolo Arsenale in prima italiana
Stefan Kaegi (Rimini Protokoll) (Germania) Bodenprobe Kasachstan
regia di Stefan Kaegi
ORE 22 al Teatro alle Tese
CCNO / Josef Nadj (Francia) Woyzeck, ou l’Ébauche du vertige
regia di Josef Nadj
Domenica 16 ottobre
ORE 11 > 22 alle Sale Apollinee e Sala Rossi del Teatro la Fenice/ Aula Magna e Sala Tommaseo dell’Ateneo Veneto/ Sala Concerti e Sala Prove del Conservatorio B. Marcello/ Sala del Portego dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti in prima assoluta Sette peccati
Percorso in sette spettacoli brevi di Ricardo Bartís, Calixto Bieito, Romeo Castellucci, Jan Fabre, Rodrigo Garcia, Jan Lauwers, Thomas Ostermeier
ORE 20 e 21.15 alla Fondazione Giorgio Cini (Isola di San Giorgio)
Compagnia Virgilio Sieni (Italia) Osso
regia di Virgilio Sieni
Venerdì 14, sabato 15 e domenica 16 ottobre
Ca’ Giustinian – Laboratorio delle Arti e spazi urbani di Venezia in prima assoluta
Rimini Protokoll /Stefan Kaegi (Germania) Video Walking Venice
regia di Stefan Kaegi
Caffé dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.
Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.
Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone: Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità… F.R.: …di fragilità e di umanità… A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.
Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.: “C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola… F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro. A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale. G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia… F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo. A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…
S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto… A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena. F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa. A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione… G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…
R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum... A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento? A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum, c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare. G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento… F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare… A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.
R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera… G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate. F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica… A.F.: …da perfezionare. G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci. A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile… F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è. A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e… F.R.: …una cifra estetica che… G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina… F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente… A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa… F.R.: Le tracce che vengono lasciate… A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…
Roberta Ferraresi / Simone Nebbia
Andrea Falcone: Accade così, come un colpo di fortuna, te ne accorgi così, a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… E noi siccome è molto che parliamo tra di noi, ci incrociamo – non tutti assieme: due a due, tre, quattro – e di conseguenza quando alla fine arriviamo tutti e 4 sulla stessa idea c’è stato un lavoro lungo prima di arrivare a quel punto. Anche perché questo ha influenzato il nostro modo nostro di lavorare, che è sì in scena un collettivo, quindi ognuno si mette in gioco e cerca di proporre agli altri qualcosa su cui incontrarsi, delle sfide… Ma queste sfide che ci lanciamo sono già articolate quando arriviamo alla scena, perché ci arriviamo dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi pensa, parla, ricerca… Alla fine il lavoro che facciamo è quasi combinatorio… Come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente si era portato Giacomo Bogani: Diciamo che di solito le idee che portiamo sono grandiose, sono enormi. Le presentiamo in sala e lì ci guardiamo negli occhi spesso e viene subito il no. Floor Robert: E questo è un modo in cui lavoriamo spesso molto volentieri. Però poi si presenta anche quello invece dell’improvvisazione, che lì per lì in sala non si sa perché, che siamo magari stanchissimi o anche nel cazzeggio… però lì viene a galla qualcosa che ci convince tutti moltissimo A.F.: Da momenti anche ludici, ma di ludismo scelto e consapevole, tante cose poi si sono unite a un’idea più pensata
Simone Nebbia: Quindi lo spazio scenico è giudice, nel bene o nel male: accoglie o respinge… A.F.: Sì, noi arriviamo come supplicanti con carovane di cose sulla scena – che per lungo tempo è stata una stanzetta privata, poi una palestra di Rifredi… F.R: Siamo stati al Garage Nardini che non era male G.B.: Al Teatro Astra F.R.: E ora andremo Prato che è un po’ più vicino A.F.: Per rimanere ancora sui nostri punti di partenza, che è una cosa che in questi giorni ci è stata chiesta più volte e che ci mette quasi in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine di cui non avevamo idea ma che ci parlava. E questo in qualche modo è quello che facciamo anche in scena per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità… F.R.: Di fragilità e di umanità… A.F.: E questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che essendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene in scena; ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca ma non era il suo obiettivo: non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.
S. N.: Un po’ una messa in campo di elementi su cui volete lavorare. Quello che percepivo come impronta collettiva di alcune esperienze di questi giorni e anche nel vostro caso è di una macchinazione drammaturgica un po’ farraginosa di costruzione. Anche perché non vi credevo completamente: avevo l’impressione che dobbiate diventare ineccepibili tecnicamente… A.F.: Questo è un fatto difficile da affrontare, perché quello che ci interessa è mantenere un senso straniante… F.R.: E forse è quello che non vogliamo A.F: Però dobbiamo essere certi nel non volerlo: c’è una tecnica, un’abilità che dobbiamo maturare. Però il fatto di stare ricercando una qualità che ci permetta di non ignorare l’equivoco, anzi, di accompagnarlo verso lo spettatore. È quello che facciamo portando in scena oggetti ingombranti, anacronistici rispetto a quello che diciamo; utopie che sono storie esagerate, anche quelle in qualche modo ingombranti… non fingendo neanche noi che sia tutto naturale e scontato, perché è una chiave di lettura che cerchiamo di maturare rispetto alla realtà che ci circonda, che è piena di cose che sembrano le più naturali del mondo ma non lo sono. F.R.: Anche semplicemente osservarlo: metterlo lì e poi osservarlo A.F.: E forse questo richiede ancora più tecnica di quella che ci vorrebbe a fare una cosa in modo perfetto. Quindi, sì, ci vuole parecchio lavoro.
R.F.: Un passo indietro, ci volete svelare qual è l’immagine… A.F.: Addirittura nei cinque minuti iniziavamo dicendola a grandi line: “c’è una stanza vuota…” F.R.: Ma nella creazione poi è anche bello quando perdi gli elementi forti ma per te rimane e diventa altro A.F.: È una fotografia di un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti, con una calma innaturale. Addirittura ci siamo ispirati ad un’immagine in cui si intravvede anche qualcosa di umano, un corpo, ma ha una consistenza che non sembra più umano. E da questa immagine… G.B.: Una fotografia con un senso: non cattura il frammento, il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì che galleggia A.F.: La fotografia è ferma, ma rappresenta una realtà che è anch’essa ferma… F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e partire da lì, che è come noi siamo. Noi che veniamo da un passato, da Firenze, dai ricordi, da un desiderio di volersi identificare con il tempo di ora, ma ci si accorge che magari non gli basta, non gli piace… A.F.: Fantasticando da questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a conoscere dei materiali che ci permettessero di farlo, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi via via lavorando ci siamo accorti che questa immagine la stavamo facendo vivere senza bisogno di realizzarla. Quindi il fatto che ci fosse una finestra è ritornato con una specie di schermo che invece di aprire, ci blocca l’orizzonte riflette la nostra ombra e noi stessi quando ci muoviamo. L’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è cambiata con questa superficie che trancia, che copre il palcoscenico, che sembra forse un liquido in cui forse si può entrare ma che noi continuiamo ad attraversare.
S.N.: Cosa v’ha fatto il passato? F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto… A.F.: È molto presente. Sovvertendo la sentenza conosciuta “Io sono il mio passato”, che era Sartre: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato nel momento in cui ci siamo. A livello culturale, noi che godiamo della vita in città d’arte meravigliose, anche Bassano, viviamo di questo. (portano il caffè)
Vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali dove ormai non ce n’è più traccia, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena. F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… però ci spaventa. A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione… G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia… A.F.: Aver parlato con Claudio Angelini di Città di Ebla ci ha molto aiutato perché erano argomenti su cui stavamo pensando e sentirli espressi così bene ci ha permesso di riformulare alcune cose. F.R.: Si diceva che il passato era parte attiva A.F.: Sì, Mauro Petruzziello diceva che il ricordo è qualcosa che incombe e minaccia e cambia la realtà. Questo è anche per noi; mentre nel lavoro di Città di Ebla c’era una fotografia che bloccava una realtà in corso nello stesso momento in cui la realtà c’era e costituiva una sorta di doppio mostruoso della realtà stessa, perché era qualcosa di immobile. Era una specie di presenza che rendeva la cosa inquietante. Cerchiamo di indagare con Monstrum questa possibilità di sdoppiarci e di avere una memoria fittizia di noi con cui avere un conflitto.
R.F.: Modo di lavorare, quello che fate… G.B.: Decidiamo giorno per giorno come lavoriamo, anche rispetto a come ci sentiamo. F.R.: Lavoriamo insieme da un anno e possiamo dire che ora finalmente stiamo capendo un po’ com’è fatto l’altro e come fare per lavorare con l’altro. Ci siamo spaventati molto, ci siamo agitati tanto e così ci siamo anche dati dei limiti. A.F.: In realtà ci diamo un tempo e uno spazio per lavorare su delle cose che però non sono spesso discorsi o idee. Ma molto spesso oggetti o esercizi anche meccanici che sono alla base di una improvvisazione o di una sperimentazione. Ad esempio ieri abbiamo avuto questa enorme gonna di vinile e abbiamo iniziato a lavorarci, creando delle figure mostruose, multiple… E da lì è iniziato un lavoro sul testo e sulla voce… F.R.: …che Andrea aveva preparato. Perché c’è sempre la preparazione del testo. G.B.: Andrea fa una ricerca sul testo, su delle cose che possono entrare… F.R.: …che vengono introdotte, vengono lette insieme, vengono capite fino a un certo punto e poi nella prova – dove può esserci l’elemento della gonna o dello sparavento, che stiamo semplicemente esplorando… E poi scopri che sopra questo ci può anche entrare il testo. Capiamo come… G.B.: Un testo che è già stato pensato e scritto in una forma da Andrea. A.F.: Con i testi abbiamo per ora questa modalità, che credo poi cambierà ed è già cambiata: li usiamo come risorsa, io li preparo solo di riferimento, di ispirazione… A volte sono brevi biografie, descrizioni per avvicinarci alle immagini o all’argomento che vogliamo lavorare. O a volte diventano poi parte dello spettacolo. Dipende da quello che succede nella combinazione.
R.F.: In che modo è cambiata? A.F.: Quello che abbiamo deciso di richiedere al mio lavoro è più di scrivere apposta per una scena, cioè dei testi che già da soli portano l’elemento centrale, il perno di una scena, perché sono testi da dire al pubblico, come ce ne sono stati tanti esempi in questo B.Motion… Un testo di Babilonia Teatri, un testo di…
F.R.: Luca Scarlini! G.B.: Come mai hai detto Luca Scarlini? F.R.: Perché mi stavo ricordando anche che a volte entra anche nella nostra giornata di prove degli esercizi che abbiamo appreso da altri. Ed è super utile, perché così il gruppo lavora su un ascolto maggiore, su una consapevolezza maggiore dell’altro e di se stesso. G.B.: Ci sono dei giorni che lavoriamo molto su cose fisiche F.R.: E altri che ci concentriamo sulla voce G.B.: e sull’ascolto. Anche senza dirci niente: qualcuno di noi comincia a cantare e andiamo avanti così. Ad esempio la canzone che c’è in scena è nata così… Anche se lì in verità eravamo in macchina… abbiamo cominciato a cantare e non ci siamo fermati per quattro ore. A.F.: La macchina è un luogo creativo molto importante… G.B.: Per eccellenza F.R.: Perché facciamo molte residenze lontane… A.F.: E andiamo a vedere tanti spettacoli… È uno di quei momenti che ci costringe a stare insieme, concentrati a sopportarci completamente per 3 o 4 ore. E quindi si deve per passare il tempo parlare, affrontare le idee, confrontarci… Magari dopo un mese che ognuno ha degli impegni paralleli che l’hanno distratto, distolto o portato lontano.
R.F.: E invece dove state cercando di andare? F.R.: Vogliamo fare uno spettacolo di due ore… G.B.: Due ore no, però più di un’ora di sicuro: vogliamo un pochino sovvertire o un po’ cambiare questa cosa che c’è, che sono sempre tutti piccoli spettacoli, 50 minuti – 45… Ci piace anche la possibilità che a teatro le persone possano stare lì, anche un po’ annoiarsi F.R.: Secondo me uno spettacolo è bello… A.F.: …quando ha una vita… F.R.: Sì, quando mi dà la possibilità di potermi staccare…
R.F.: È una qualità del tempo, un trattamento, più che una durata… A.F.: Sì, una qualità che nella lunga durata è più facile o più giusto realizzare a pieno. Comunque la varietà, la qualità, la sovrapposizione, il tempo del tempo sono nodi che ci interessano molto, sia come tema che come caratteristica del linguaggio.
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum... A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento? G.B.: Nil Admirari è il nome del progetto… F.R.: …che abbiamo dovuto presentare a Scenario in 20 minuti… A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo frammento. Anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare. C’è una realtà di noi, noi 4, giovani che aspettano e si preparano per il loro presente e invece ripescano, vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… Anzi vere e proprie scorie che non sanno come gestire e alla fine scompaiono lasciando solo questo agglomerato di cose ed effetti che rimangono con lo spettatore. Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe gli elementi separati: in uno, Monstrum, l’apparizione di questo passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimanere soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi, vogliamo scoprire dove può portare. Abbiamo già alcune idee ma va lavorato bene in una residenza ad hoc futura. Perché se per Monstrum abbiamo già fissato sia i giorni di lavoro (che sono già iniziati qui a OperaEstate e poi continueranno allo Spazio K agli Ex Macelli a Prato) sia il momento d’apertura, che sarà durante Contemporanea di Prato e Fermenti di Parma; per Tabula rasa abbiamo il progetto aperto, ma non abbiamo ancora stabilito… G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento… F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. Avendo la possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare… A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo, non si sa ancora dove e quando Nil Admirari completo.
R.F.: Voi dite mettiamo dfei mateirali e vediamo se funzionano; ma siete tutti in scena. Come si fa? Invitare qualcuno a vedere le prove? F.R.: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera… G.B.: Che usiamo però poco… Solo quando abbiamo già tante cose montate. F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica A.F.: da perfezionare G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci A.F.: Infatti, in questa forma da perfezionare di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna, abbiamo diverse cose in mente per migliorarlo. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo iniziato a mettere le condizioni per farlo è intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile… F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è. A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e… F.R.: …una cifra estetica che… G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina… F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente… A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa… F.R.: Le tracce che vengono lasciate… A.F.: Questo ci piace molto, ma c’è anche in lavori di altri gruppi importanti, come Motus o Anagoor. E però OperaEstate questo offre: uno spazio quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, la possibilità di uno scambio abbastanza continuo e naturale fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin… F.R.: …che abbiamo seguito dai loro cinque minuti a Vicenza…
Fondamento della propria esistenza, la famiglia diventa il nido dentro cui si cresce, si matura, con il naturale sviluppo e la costruzione di una nuova cellula vitale. Non sempre però questo accade: dentro quel nucleo a volte il tempo della storia scorre in maniera inversa a quello della propria vita. Succede che non si cresce, si rimane confinati nel proprio ruolo di figli e non si assumono quelle responsabilità che fanno diventare i bambini di una volta gli adulti di oggi. Roberto Bonaventura, insieme al Teatro di Messina, mette in scena in maniera precisa e puntuale il testo di Dario Tomasello che parte proprio da una generazione rimasta bambina. In Patri ‘i famigghia tre cugini, Angelica, Rino e Nando, si ritrovano dopo molti anni in occasione del funerale del padre di quest’ultimo. Trasferitosi ormai al nord, Nando – interpretato da Angelo Campolo nei panni di un cinico milanese, è freddo e distaccato rispetto agli altri due rimasti a Messina; e questo suo distacco si nota immediatamente nel dialetto che non sente più come la propria lingua. Se i compagni Rino, un bravissimo Annibale Pavone, e Angelica, una impeccabile Adele Tirante, si esprimono in siculo, Nando sembra non riconoscere addirittura quelle radici meridionali da cui proviene. Solo rivivendo con i suoi compagni i ricordi di un’infanzia smarrita e divertita colui che aveva lasciato il proprio paese inizia a ritrovarsi e recuperare la propria lingua madre. Aprendo il baule di legno sul palco e giocando con le ombre ludiche del passato, i tre adulti si dimostrano non essere mai cresciuti: nessuno è capace di essere padre; solo Angelica guarda al domani, ma il suo sembra più che altro un tentativo di rivalsa su quegli uomini confinati in un’infanzia lontana. In una scenografia volutamente infantile, fatta di piccole sedie da bambini e un fondale disegnato, i protagonisti eseguono movimenti precisi e spazialmente ben definiti.
foto di Angelo Maggio
Tomasello scrive un testo semplice e leggero, continuando la tradizione di Scimone Sframeli, altri due autori e registi siciliani che ricreano atmosfere “sospese” per i propri lavori. Ma diversamente da questo duo non c’è in Patri i’famigghia il finale graffiante che lascia riflettere a posteriori su quello che è stato uno spettacolo sì piacevole, ma da uno sviluppo forse troppo in sordina e poco incisivo rispetto alle premesse. Il plauso alla piacevole pièce va comunque ricordato: con una recitazione a metà tra il surreale e reale, in un’atmosfera divertita e a tratti fortemente straniante, Bonaventura consegna una regia intelligente, aiutato anche dalla buonissima interpretazione dei suoi attori. Un tema, quello affrontato, che mostra come davanti alla morte si sia costretti a fare un consunto della propria vita: a volte solo di fronte alla Signora in nero si cresce. E sono gli stessi personaggi ad accorgersi: «non avemu patri, non semu patri! Sulu figghi sapemu esseri».