Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Rosario Mastrota presente a Primavera dei Teatri con Fine.
1. Come definirebbe il suo teatro? Un teatro semplice che possa arrivare a tutti
2. Che cos’è il teatro di ricerca? Una grande trovata pubblicitaria
3. Come lo spiegherebbe ad un profano? Non credere a tutto quello che ti raccontano
4. Fine in una frase. Speriamo che quello che provo a raccontare non accada mai a una persona
5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri? Una culla che mi ha dondolato nel tempo e adesso mi dà una possibilità
6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista? Io
7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita? L’Orlando Furioso di Motus e Macadamia Nut Brittle di Ricci/Forte
8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei? Forse Fausto Paravidino
9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo? Nomadismo
10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale? Il teatro è assolutamente magico. Lo fa essere universale il fatto che lo spettatore – per quello che mi riguarda – deve entrare in simbiosi con quello che accade sul palcoscenico; se si verifica questo, accade la magia del teatro
Biografia di Rosario Mastrota Si forma presso i Corsi di Formazione Teatrali di Scena Verticale. Rosario Mastrota scrive e dirige per la compagnia da lui fondata, la Compagnia Ragli: OtelloSugarfree, Nuovo Ordine Mondiale, Ragli, L’imperatore, Fine. Appartengono al gruppo i giovanissimi Mauro Conte, Dalila Cozzolino e Laura Garofoli. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)
Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Antonio Tintis presente a Primavera dei Teatri con Il paese delle ombre.
1. Come definirebbe il suo teatro? Presuntuosamente necessario
2. Che cos’è il teatro di ricerca? Una categoria che ha stufato
3. Come lo spiegherebbe ad un profano? Per il luogo comune è: un teatro che non ha tempi produttivi dove si butta tanto materiale; realmente: il teatro di ricerca è un teatro che viene alimentato della propria necessità.
4. Il Paese delle ombre in una frase. Il concetto di colpa
5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri? Una delle poche realtà che combatte, resiste ed è necessaria
6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista? Nosferatu? Seriamente: Marthaler
7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita? La bottega del Caffè con Paolo Bonacelli, nel senso che ho capito quello non volevo fare
8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei? Murakami
9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo? Basta dare alibi a chi ci governa… Quindi un teatro dove poter lavorare. Il nomadismo è una scelta, non è un’imposizione democratica
10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Vive sul momento quindi hic et nunc, vive sul respiro di un pubblico che non esiste più. Dico vive, ma non vive più, il teatro è appeso ad un filo, chi avrà la voglia e l’organizzazione mentale per portare avanti un mestiere andrà avanti.
Biografia di Antonio Tintis
Diplomato come attore presso l’Accademia “Silvio D’Amico” di Roma nel 2000, ha lavorato nella compagnia “La Fiera” allestendo diversi spettacoli in Italia e all’estero. Ha fatto parte della compagnia permanente del Teatro Stabile di Torino e dell’ensemble del Teatro Due di Parma. Ha lavorato con numerosi registi quali Longhi, Le Moli, Cavosi, Farau, Colavero, Dall’Aglio, Viktor Bodo e ha collaborato come assistente alla cattedra di regia presso l’Accademia “Silvio D’Amico”. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)
“Io, Sarah Bernhardt, resami conto di aver recitato in vesti maschili solo diciassette dei Grandi Ruoli tradizionalmente affidati a colleghi dell’altro sesso, qui decido e dichiaro che, post mortem tornerò ad incarnarmi in quanto uomo sulla nostra vecchia terra riprendendo la carriera teatrale”. La penultima serata di Primavera dei Teatri si apre così, a Villa Salvaggio alle ore 18.00, con Enrico Groppali che rende note le decisioni prese dall’attrice in questi ultimi cento anni. Con la conversazione-spettacolo Io sono Saro Bernardi l’autore – per l’occasione anche interprete – offre un quadro di ciò che si può compiere per ridar vita alla scena: sempre sul punto di soccombere e sempre miracolosamente viva e vegeta.
Grimmless di Ricci/Forte
Alle 20.30 al Teatro Sybaris, Stefano Ricci e Gianni Forte presentano Grimmless: una rappresentazione del mondo archetipico e sognante dell’infanzia. Se in Macadamia Nut Brittle, lavoro del 2009,erano già presenti personaggi dei cartoni animati – ricordiamo Wonder Woman e i Simpson tra le tante “maschere” del contemporaneo –, i due autori e registi romani partono ora dai fratelli Grimm per tornare alla fiaba, o a ciò che ne rimane nell’epoca attuale. La casa di marzapane di Hansel e Gretel si restituisce alla sua vocazione di scena di delitto, trasformata in un plastico da dimostrazione televisiva porta-a-porta, casa-giocattolo per i burattini della televisione del dolore. E poi in scena: Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Biancaneve, personaggi che popolano un bosco fatato privato oramai di candore dopo i troppi lavaggi televisivi e identificato da feticci tecnologici e sovrabbondanti orpelli di comunicazione.
Patri 'i famigghia
Al passaggio dall’infanzia all’età adulta guarda anche Roberto Bonaventura con lo spettacolo Patri ‘i famigghia; ma se il lavoro di Ricci/Forte porta in scena il contemporaneo – in un rovesciamento del quotidiano che diviene straniamento nell’attimo in cui si presenta all’interno della scatola teatrale –, il testo originale di Dario Tomasello descrive un viaggio a ritroso nella memoria, un rifugiarsi nel passato le cui ombre fanno meno paura dell’evidenza brutale della realtà odierna. Patri ‘i famigghia (in scena alle ore 22.15 nella Sala 14 del Protoconvento), è un apologo sul senso di desolazione e di sradicamento, vissuto da una generazione che non riesce ad assumersi la responsabilità più delicata: quella della cura paterna dei propri cari, del proprio tempo. In un gioco ambiguo di ricognizione memoriale, tramato in dialetto messinese, tre cugini (interpretati da Annibale Pavone, Angelo Campolo e Adele Tirante del Teatro di Messina), ritrovatisi per necessità alla morte del padre di uno di loro, tessono la tela, amara e divertita, dei ricordi di un’infanzia dolcissima, crudele e smarrita.
A riprova della molteplicità di espressioni artistiche proposte dal festival, alle ore 19.00 il cantante e pianista Luigi Negroni presenterà, con il suo ensemble, un tributo a Stevie Wonder: Wonder in my soul, al Chiostro del Protoconvento; un concerto realizzato in collaborazione con Peperoncino Jazz Festival.
Non solo vivere ma anche fare teatro è un atto di coraggio, oggi più che mai; soprattutto nella situazione critica in cui ci si ritrova tra fondi che mancano, spazi dedicati alla cultura che scemano e, ovviamente, nella difficoltà a “resistere” che ne consegue. È un immenso piacere trovare degli artisti che restituiscono al teatro una sua prerogativa come è appunto quella del coraggio; persone che scelgono di utilizzare quest’arte per denunciare ciò che spesso viene taciuto, o non ha la giusta rilevanza, vanno sostenuti; soprattutto se gli argomenti che trattano sono di solito affrontati in appena due minuti, tempo a disposizione durante il telegiornale tra una notizia di cronaca e l’altra. I servizi si susseguono rapidamente e con la stessa velocità si dimentica ciò di cui si è appena parlato; le notizie passano, in fondo le brutture caratterizzano ormai il nostro quotidiano. Ma ci sono alcuni temi, alcuni scandali, che non possono passare inosservati, non devono; dovrebbero essere approfonditi, discussi e non nascosti come è successo fino ad ora. Scritto e diretto da Vincenzo Pirrotta, Sacre-Stie trascina fuori da un tunnel oscuro una tra le scabrosità più violente che solo in questo ultimo periodo è stata messa in luce: la pedofilia all’interno della chiesa. I continui flashback di cui si serve il testo per narrare vicende lontane costituiscono il terreno di un presente doloroso: da un passato che riaffiora tra poesia, passionalità e impudicizia maniacale, un cardinale si ritrova a fare i conti con un suo diocesano tornato a vendicare la sua infanzia e la sua vita perduta per colpa dello stupro avvenuto tra le mura ecclesiastiche tanti anni prima.
foto di Angelo Maggio
Filippo Luna è uno strepitoso Principe di Dio posseduto da Satana: ma il diavolo non è che un abbaglio, come lo stesso Dio, dietro cui si nasconde l’ossessione schifosa che lo abita. La sua figura omosessuale si palesa sin dall’inizio, in un rapporto morboso che ha con il suo segretario, un accondiscendente Marcello Montalto, che esegue i suoi ordini. A poco a poco la perversione dilaga lasciando emergere i peccati di cui il cardinale si è macchiato: l’uomo viene legato a una sedia da un giovane prete che furente entra con una pistola nel suo studio. Interpretato da un convincente Alessandro Romano, il giovane diacono rivive l’incubo dei momenti passati in segreto nell’ufficio del cardinale – a suo tempo rettore dell’istituto dove studiava – e di quelli all’interno del confessionale dove, ancora bambino, perdeva la sua innocenza. Attraverso il racconto i due si spingono in un territorio impervio con un’estrema crudezza e allo stesso tempo una poesia carica di violenza verbale. Pirrotta con il suo testo si chiede perché la chiesa abbia cercato sempre di nascondere questi crimini; la rabbia nei confronti di coloro che abusano, in nome della religione, di ragazzini innocenti e puri è talmente alta che il regista fa anche i nomi di chi è rimasto a guardare, come lo stesso Papa Ratzinger, accusato di aver nascosto le prove che infangavano i sacerdoti della chiesa. La denuncia di Pirrotta è così diretta e senza mezzi termini che gli è valsa la scomunica. Il testo del drammaturgo e regista siciliano diventa ancor più un bellissimo atto di responsabilità che andrebbe sostenuto e abbracciato, a cominciare dagli operatori che potrebbero osare e dare spazio a uno spettacolo così spinoso ma necessario, prendendosi la loro parte di coraggio.
Ha debuttato a Primavera dei Teatri Il Presidente ovvero ambizione odio e nient’altro di Teatro Elicantropo, una tragicommedia sul potere scritta da Thomas Bernhard. La messinscena di Carlo Cerciello – fondatore nel 1996, a Napoli, dell’Elicantropo – segue la scansione drammaturgica dell’opera bernhardiana in cui viene presentata dapprima la Moglie, la bravissima Imma Villa che piange il suo cane morto, e, successivamente, il Presidente (interpretato da Paolo Coletta) in vacanza in Portogallo con la sua amante-attrice.
foto di Angelo Maggio
«In questo Stato oramai regna l’ambizione, l’odio e nient’altro», ripete con ritmo ossessivo la signoraa se stessa e alla governante, silenziosa figura che si prodiga per soddisfare le richieste della sua padrona. Silenziosa sì, ma interiormente ribelle nell’accelerazione di una corsa ai “piedi” della protagonista e dentro/fuori la scena. La donna è vestita a lutto, un abito che indossa ormai da tempo; appare nella sua magnificenza rialzata ad alcuni metri dal suolo, incastrata fino a metà corpo in una grande gonna: una struttura conica che rimanda al cumulo di sabbia che imprigiona Winnie in Giorni Felici di Bob Wilson e che viene celata da un leggero tessuto nero plissettato che scivola morbido su di essa. C’è stato un attentato e loro non dovevano trovarsi là, al Monumento ai Caduti, continua a ripetere la donna. Hanno sparato – gli anarchici! – e c’è mancato un pelo che non colpissero il Presidente. Nel delitto è stato ucciso il colonnello e l’adorato cane della signora, la sua suprema istanza, è morto di crepacuore quando ha sentito lo sparo. Un soliloquio logorroico e calzante, caratteristica compositiva di Bernhard, che restituisce tuttavia la lucidità di colei che si è ritrovata sposa di un dittatore che tormenta tutti, capo di uno Stato in cui oramai domina solo la paura, l’ambizione, l’odio e nient’altro.
foto di Angelo Maggio
Il passaggio alla seconda parte, in cui viene presentata la visione del protagonista maschile, avviene con un cambio scena: la struttura si priva del telo che l’ha finora ricoperta e al suo interno, in una lussuosa stanza d’albergo a forma di mausoleo, il Presidente si esibisce in un’autocelebrazione. Un monologo esplosivo di colui che «tutt’un tratto ha avuto l’idea di diventare un uomo politico», guida di «un Paese che non lo merita e in cui non può realizzare ciò che ha in testa». Il pensiero di un dittatore che ritiene che allentare i freni in politica generi anarchia e che i giornali siano la manifestazione di un complotto fatto di carta. L’incisività e la crudezza che caratterizza il soliloquio della Moglie trova riscontro solo in parte nella seconda metà dello spettacolo a causa dell’insistenza, non del tutto giustificata, sulla figura dell’amante-attrice, la “nuova Duse”, e di una forzatura vocale e gestuale del personaggio interpretato da Paolo Coletta.
Usciti dalla sala uno spettatore si domanda se l’opera sia stata scritta nel ’94. No, Bernhard l’ha composta nel 1975, il testo ha sullo sfondo i fatti della Banda Baader Meinhoff, ma le vicende sono così prossime alla nostra attualità da lasciarci credere che si stia parlando del nostro Paese. Si recepisce il noto, lo si interpreta e si lascia spesso che le verità che porta con sé si soggettivino nel nostro vissuto. Come dichiara il regista: «c’è un filo che collega l’opera con la nostra attualità molto forte, un filo che non riusciamo a non leggere, io non ho fatto niente, il testo è di Bernhard».
La prima serata del festival si apre con due spettacoli apparentemente slegati tra loro, una tragedia e una commedia, un testo russo e uno francese. Ma i collegamenti si scoprono pian piano vedendoli in scena e poi pensandoci il giorno seguente. Entrambi sono due riscritture in chiave contemporanea di testi classici; entrambi si riferiscono al presente con rimandi precisi alla condizione dell’individuo nella società.
Il signor di Pourceaugnac - foto di Angelo Maggio
Il signor di Pourceaugnac di Punta Corsara è la riscrittura del testo di Molière, un’opera decisamente poco nota e raramente messa in scena, ma che rispetta tutti i canoni della farsa dell’autore francese: primo tra tutti la critica alla società borghese. Un ricco proprietario proveniente dalla Slovacchia arriva a Napoli per sposare la figlia di un nobile (in totale crisi economica) ma la ragazza e i suoi compari fanno di tutto per impedire il matrimonio. La città intera si ribella allo straniero, che veste in modo inusuale e che ha usanze non comuni, caratteristiche che agli occhi della società lo fanno sembrare un pazzo, un malato.
La regia di Valenti è giovane e ritmata, cura l’attenzione al particolare e lavora sulla coordinazione e ascolto del gruppo. L’impianto del testo, basato sulla città di Napoli anziché quella di Parigi, ha permesso al regista di giocare con lazzi e rimandi della commedia dell’arte napoletana, trasponendo i personaggi grotteschi al giorno d’oggi.
Spogliato dalla leggerezza e freschezza interpretativa degli attori, dalle musiche da musical (scelte con gusto e allegria), ne rimane un interessantissimo lavoro di analisi sociologica dove la città esclude e imprigiona, al contempo, il povero malcapitato.
Emerge quindi una Napoli divisa in classi ma unita contro lo straniero, il foresto, l’estraneo che tenta di penetrare questo tessuto fitto fitto fatto di consuetudini e giochi di potere. Il diverso non ha scampo in una città che vive lasciando circolare solo ciò che è già parte di essa.
Che disgrazia l'intelligenza! foto di Angelo Maggio
Un’altra società è quella che accoglie Ciaskij, il protagonista di Che disgrazia l’intelligenza! di Alessio Pizzech. Al suo rientro a Mosca, dopo anni di vita all’estero, il personaggio di Griboedov ritrova una vita totalmente ribaltata: l’amore trasformato in interesse, la stima in disprezzo, l’intelligenza in stupidità. La famiglia che aveva lasciato, le amicizie, si sono trasformate o forse è lui ad essere cambiato e a vedere con occhi nuovi quello che lo circonda: una realtà che gli va stretta, un’esistenza votata all’apatia, alla noia, alla lussuria.
Pizzech presenta questo testo dopo un anno di lavoro, un processo lungo di alleggerimento dell’0pera che ha portato il regista e gli attori a confrontarsi a più riprese con i complessi personaggi dell’autore russo.
Il testo ridotto e compresso è stato riadattato per una regia incentrata tutta sulla parola e sulla presenza dell’attore; nello spazio vuoto gli interpreti si muovono, agendo su più piani di scena e controscena – una compresenza quasi cinematografica che sembra rifarsi alla condizione del personaggio di Ciaskij: completamente immerso, sommerso da una società che non riconosce e che non lo riconosce più, un fuori casta, accusato d’essere pazzo e rivoluzionario perché colto e intelligente. Proprio la compresenza degli attori tutti in scena, perennemente attivi o iperattivi in alcuni casi, rischia di saturare la visione dello spettatore che rimane spiazzato, quasi infastidito dall’esagerazione. Tra gli attori spicca l’ottima interpretazione di Demis Marin, che avevamo già incontrato in alcuni lavori a Venezia, e che stupisce nei panni di Fàmusov un padre-padrone vecchio, perfido e lussurioso. Un lavoro che necessita di essere approfondito, di trovare il giusto equilibrio per restituire ai suoi personaggi una falsità più vera e autentica.
Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Benedetto Sicca presente a Primavera dei Teatri con Frateme.
1. Come definirebbe il suo teatro? Linguistico
2. Che cos’è il teatro di ricerca? Non lo so
3. Come lo spiegherebbe ad un profano? Atto di conoscenza
4. Frateme in una frase. “Un binario sottile sottile”
5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri? Una bella opportunità
6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista? Io
7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita? Diversi… Il Nur du di Pina Bausch; Lolita di Luca Ronconi; Querelle di Antonio Latella; Colapesce che è il primo spettacolo in cui ho recitato quando ero bambino, l’Histoire du soldat con la regia di Roberto De Simone, quello mi ha decisamente cambiato la vita, e anche il Don Carlos che ho visto quando avevo 7 anni.
8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei? Rafael Spregelburd
9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo? Sede, casa
10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
È strutturale all’uomo
Biografia di Benedetto Sicca
Nel 2003 si diploma attore presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Lavora al cinema con Michele Placido, Abel Ferrara e Antonio Capuano, in radio su Radiodue e Radiotre, in televisione su La 7 e su Raitre, ma soprattutto in Teatro con Luca Ronconi, Massimo Castri, Mario Martone, Ninni Bruschetta. È vincitore del premio Charlot per comici radiofonici emergenti e finalista al Premio Riccione per la drammaturgia 2007 con il testo Quella scimmietta di mio figlio. La sua prima regia è stata E, ù carestia? Nel 2008 fonda l’Associazione Culturale LUDWIG – officina di linguaggi contemporanei – con cui porta avanti la sua ricerca di linguaggio in collaborazione con INTERNO 5. Ha debuttato a Luglio 2010 con lo studio Il principe Jorgos tratto da Katzelmacher di R.W. Fassbinder. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)
Una giornata ricca di appuntamenti quella del 3 giugno, dagli incontri pubblici dalla prima mattina con Gli stati generali del teatro in Calabria, al convegno Grandi Attrattori Culturali P.O.R. nel pomeriggio, fino ai tre spettacoli della sera. Un giorno all’insegna della concretezza e una serata segnata da storie vere. Si inizia alle 19.00 in Sala 14 con Fine scritto e diretto da Rosario Mastrota per la Compagnia Ragli Thesaurus un gruppo di giovani attori cresciuti proprio a Castrovillari sotto la guida di Scena Verticale e Luigi Iacuzio, attore principale, formatosi a Napoli. Racconta la storia di Gino, una storia che ci è familiare, un monologo, un’auto-analisi: voleva essere attore, artista, ma tutte le sue speranze sono rimaste bruciate, un provino dopo l’altro. Così la confessione di Gino si riversa sui social network; è l’autopsia di un fallimento in streaming, nessuno sembra rispondere, nessuno sembra ascoltare questo soliloquio che attraverso l’ironia e il sarcasmo dipinge un quadro della crisi e disperazione che moltissimi ragazzi vivono al giorno d’oggi.
figlidiunbruttodio – foto di Angelo Maggio
Di tutt’altra crisi parlano i due attori già incontrati l’anno scorso con Figlidiunbruttodio Paolo Mazzarelli e Lino Musella, saranno in scena al Teatro Sybaris alle ore 20.30. Crack Machine è ispirato a una delle più grandi truffe economiche degli ultimi anni: il caso di Jerome Kerviel, ex trader Societé Generale, un’importante banca francese, accusato di aver causato un buco di 4,9 miliardi di euro. Il protagonista Geremia Cervello (italianizzato) incontra in prigione altri tre personaggi che insieme svelano la faccia più sporca della medaglia dei potentati politico-finanziari. Già l’anno scorso, proprio a Primavera, Musella e Mazzarelli avevano dimostrato di saper giocare d’astuzia misurandosi in una performance attoriale a due che quest’anno si ripropone sviluppata e che gli ha valso il premio a INBOX2010.
Chiude la serata in Sala 14 alle ore 22.15 Il Paese delle ombre testo scaturito da un’inchiesta giornalistica su un fatto di cronaca nera. Lo scenario è un orfanotrofio nel quale si dice succedano fatti inimmaginabili. Un uomo apparentemente colpevole, una giornalista decisa ad indagare, un paese oscuro, una popolazione totalmente succube della zona grigia, la zona dell’osservazione. Maria Teresa Berardelli autrice del testo è diplomata all’Accademia Silvio d’Amico e nel 2009 ha vinto il premio Tondelli Riccione per il Teatro con il testo Sterili. A fianco a lei Antonio Tintis, che segue la regia dello spettacolo, è anche lui diplomato a Roma e lavora con registi di fama nazionale. Uno spettacolo enigmatico che indaga l’intimità, il conflitto interiore, chiude una giornata all’insegna della crisi e dell’ambiguità morale dell’essere umano.
Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Carlo Cerciello presente a Primavera dei Teatri con Il Presidente.
1. Come definirebbe il suo teatro?
Politico, come tutto il teatro. Penso che tutto il teatro sia politico, non facciamo adesso un’analisi storica del teatro per arrivare a questo, ma è chiaro che un teatro che non parli alla polis, all’uomo contemporaneo, anche con testi di tradizione, non ha nessun senso. È chiaro che la motivazione è sempre una motivazione fortemente politica, civile, sociale, non ha senso altrimenti parlare di teatro. Poi, si può parlare di spettacoli di evasione che hanno la loro dignità; però il teatro è un rituale e resta un rituale dell’uomo con l’uomo quindi l’uomo che parla all’uomo è preferibile che non dica troppe sciocchezze e che lo aiuti anche nella sua analisi esistenziale, nell’andare avanti, nel superare il dolore della morte. Anche questo è un modo politico di porsi.
2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Secondo me è una fesseria dire “teatro di ricerca”, nel senso che non c’è il teatro senza ricerca. La principale ricerca di chi fa teatro sono le motivazioni per parlare all’uomo contemporaneo. Siccome nessuno di noi ha la sfera magica per cui può sapere immediatamente quale sarà il risultato, tutto il suo lavoro è un lavoro forte di ricerca, del segno, del significato e del significante per arrivare a una comunicazione con/verso l’uomo contemporaneo, con un colpo al cuore e uno allo stomaco. È necessario sempre tener presente il fatto che di fronte a te c’è un pubblico e il pubblico è una variabile assoluta e indipendente dal teatro. Quindi la ricerca è fondamentale perché non ci si può accontentare; e poi ti sorprende continuamente, ti sorprende l’autore, ti sorprendono gli attori perché è l’ultima vicenda creativa umana, la più profonda ancora.
3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Il teatro di ricerca è una formuletta coniata per il Ministero, anche un po’ per stabilire che c’è un teatro di serie A e uno serie B; sono formule burocratiche. Si parla tanto di teatro borghese: il teatro borghese è un teatro di gran dignità; Strehler ha dimostrato che si può fare teatro borghese facendo ricerca sul teatro borghese. Nulla non ha l’interpretazione, la passione, le piccole perversioni di chi lo fa: nel teatro si rispecchia l’uomo, quindi credo che sia impossibile prescindere dalla ricerca che è interiore, creativa. Lascerei questa formuletta vuota ai burocrati
4. Il Presidente in una frase.
È un testo sul potere. È però una visione un po’ diversa del potere: le vicende de Il Presidente erano ambientate sullo sfondo dei fatti della Baader-Meinhof, momento storico in cui c’era un potere molto contestato, molto forte; ma allo stesso tempo incrocia molto il contemporaneo e penso a quello che sta succedendo dai Paesi arabi fino adesso in Europa dove il sistema potere è in crisi, non ha più nessun rapporto con le persone. C’è un surplus di valore, cioè il testo fotografa l’implosione del potere, l’auto-corrosione, il vuoto, il soliloquio del potere che non ha più rapporti con nessuno e non può prescindere dalla nichilista visione del teatro di Bernhard che vede l’uomo sconfitto dalla morte, e quindi anche ogni sua cosa: anche il potere deperisce, incancrenisce.
5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
È un festival di resistenza oggi in Italia; il teatro di resistenza è quello che ormai viene fatto sulla pelle degli artisti. La cultura è una parolina un po’ vuota se non è piena di contenuto e l’attenzione culturale reale in genere in questo Paese non è molto alta. Fare teatro non “commerciale”, cioè un teatro che non corrisponde al facile consumo, perché non ha dentro il tale cabarettista o il tale uomo della televisione, significa rischiare; per esempio un autore come Bernhard – che di per sé è già difficile in Germania –, non si può pensare che possa avere un grande ritorno di immagine per cui è difficile proporlo. Un festival, una vetrina, come Primavera dei Teatri consente ancora tutto questo e non so dove trovino la forza viste le difficoltà; sono dei coraggiosi e noi siamo qui anche perché sono delle persone molto care. Sono stato già qui con Quartett tanti anni fa e ci portò fortuna perché arrivammo quasi all’UBU; poi con Stanza 101 lo vincemmo, fu un momento magico e allora c’era Franco Quadri. Anche questa dedica del Festival a Franco è un po’ nostalgica, un po’ per persone come me che l’hanno conosciuto nella sua estrema dedizione, passione sfrenata per il teatro, senza nessun altro tipo di interesse… Questo è un momento di vuoto perché era una persona molto importante per il nostro lavoro perché era attentissimo, sempre.
6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Sono Io! (sorride, ndr) No… Mi piacerebbe che non ci fosse una regia involontaria, ma purtroppo c’è una regia involontaria che prescinde dalla mia; quindi non posso stabilire soprattutto i tempi e questa è una cosa che mi mancherà moltissimo, perché certo il tempo di fine cercherei di allungarlo.
7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Il contagio, la messinscena del romanzo Cecità di José Saramago col quale poi sono diventato amico; è stato un momento non soltanto di teatro ma di vita fortissimo. Per me José era un riferimento assoluto, proprio come uomo, scrittore, politico, un po’ per tutto. Mi ricordo una cosa che gli dissi, ve lo dico in napoletano: “mo’ posso pure morì”, nel senso che non capita spesso nella vita di incontrare un personaggio come questo – ancora non aveva vinto il Nobel, lo vinse in corso d’opera –. Mi ricordo che lui ci spronava continuamente e ci diceva “Io quando scrivevo non pensavo di vincere il Nobel con tutto quello che ho passato…; ci ha dato una forza incredibile per andare avanti e ci ha concesso i diritti per lo spettacolo, nonostante fossimo un piccolo teatro. Quello è stato un grande momento; l’altro è stato Quartett una sorta di esame di laurea: volevo affrontare un testo molto difficile e possibilmente cercare di non farne una sorta di masturbazione intellettuale perché non la amo; volevo che fosse diretto al pubblico, che il pubblico lo potesse apprezzare e potesse entrare nella magia di quel testo come vi ero entrato io. Pare che poi è andata bene ed è partita tutta la nostra avventura, molto contemporanea a Primavera – vincemmo il Premio Bartolucci come Teatro Elicantropo l’anno stesso di Primavera dei Teatri, nel 2001, insomma storie parallele molto vicine.
8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Non saprei rispondere perché sono così innamorato del teatro tedesco… Io non ne faccio una questione di autori, a volte leggo delle cose anche di giovanissimi che magari sono ancora un po’ acerbi ma interessantissimi. Certo, quando affronti i grandi testi, quando attraversi un grande autore, entri in un mondo e non finiresti mai di metterlo in scena; penso a Shakespeare, Pasolini o Brecht: ci vorrebbe una vita per lavorarli tutti e lavorarli bene come tu vuoi. Quindi è complicatissimo pensare un autore per farsi scrivere una drammaturgia; poi talvolta può succedere ma per progetti specifici, questo sì. Amo tanto i testi in genere, a prescindere dagli autori: dipende moltissimo da quanto mi appartiene la cosa che voglio fare perché è difficile altrimenti partire dall’autore.
9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Noi abbiamo un teatro che è sede della compagnia e secondo me tutti dovrebbero avere un minimo di spazio proprio; poi il nomadismo è necessario per l’incontro, però purtroppo da come è fatto adesso il teatro in Italia il nomadismo sta per tramontare perché le spese sono tantissime e si sta riducendo quella che era una delle prerogative del teatro italiano, ossia lo spostamento, la tournée che è diventata complicatissima. Sono poche le risorse e i pesci sono tanti. Dello spazio c’è bisogno, dell’incontro c’è bisogno, ci sarebbe bisogno anche di un po’ di aiuto: non parlo delle sovvenzioni nel senso che bisogna aiutare e ci dobbiamo soltanto basare su questo… Basterebbero anche delle sane leggi sulle sponsorizzazioni, qualcosa che vada ad aiutare l’artista o decisioni più per bandi pubblici e non soltanto egemonizzati come sempre dalla politica: queste cose qui alla fine ti impediscono di fare.
10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Principalmente il teatro è un rito uomo a uomo senza mediazioni che non si ripete perché ogni sera è diverso, perché si cancella, non resta: è proprio come un sogno, è come la vita e come la morte, finisce, non si ripete più; è un attimo: se tu sei stato partecipe di quell’attimo potresti essere stato partecipe di una magia infinita e quindi è come la vita. E poi ha un altro grande merito, almeno per noi: quello di dilatare il tempo della fine, perché sul palcoscenico ci illudiamo di fermare il tempo. Poi è cultura nel senso vero, tu conosci testi, gente, persone che lo fanno, sono orizzonti che si aprono. E poi metti in gioco te stesso: chi fa il mestiere dell’attore rasenta tutte le sere l’infarto e se traduci quella sofferenza in malanno perverso del quale proprio non puoi farne a meno allora diventa magia…
Biografia di Carlo Cerciello
Carlo Cerciello nasce a Napoli nel 1951. È attore in teatro, cinema, radio e televisione. Fonda nel 1996 il Teatro Elicantropo di Napoli, un piccolo spazio di 42 posti dedicato alla drammaturgia contemporanea, particolarmente connotato per il suo impegno politico e sociale, che nel 2007 è riconosciuto dal Ministero. Firma numerosi progetti e regie di successo, tra cui Il contagio, da Josè Saramago, Quartett di Heiner Müller, Stanza 101 da 1984 di G. Orwell e da Una storia italiana di S. Berlusconi, Guappo di Cartone di Raffaele Viviani con Nino D’Angelo, Genova 01 di Fausto Paravidino, ‘Nzularchia di Mimmo Borrelli. Numerosi i premi al suo attivo tra cui: il prestigioso Premio Giuseppe Bartolucci 2001, per l’attività del Teatro Elicantropo, una Nomination ai Premi UBU 2000 per la regia di Quartett, il Premio UBU 2002 per Stanza 101, il Premio ETI Olimpici del Teatro 2008 per Nzularchia, il Premio Hystrio 2009 per la regia, oltre ad una trentina di riconoscimenti per il teatro a Napoli. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)
Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Vincenzo Pirrotta, presente a Primavera dei Teatri con Sacre-Stie.
1. Come definirebbe il suo teatro?
Parto da un presupposto: oltre a tipi di teatro, come quello di intrattenimento, ce ne sono altri, come quello che ho deciso di fare, che vogliono creare delle piccole rivoluzioni; credo che siano maturi i tempi della rivoluzione. Essendo pacifista, la rivoluzione che intendo non è quella violenta, ma una rivoluzione delle coscienze. Quando inizio a scrivere e poi a lavorare alla regia di uno spettacolo mi pongo sempre questo problema: anche se in un unico spettatore avviene una piccola rivoluzione nella sua coscienza rispetto al tema trattato, credo che il teatro abbia raggiunto l’intento che si era prefisso. Il teatro è rivoluzionario.
2. Che cos’è il teatro di ricerca? È quello che, con linguaggi a volte anche forti e violenti, cerca di far comprendere cose sulle quali la gente non riflette a causa della quotidianità e dell’assuefazione a certi stili di vita
3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Il teatro di ricerca deve fare ridere, commuovere, emozionare esattamente come il teatro borghese e di intrattenimento ma l’importante è che faccia pensare
4. Sacre-Stie in una frase.
La frase è già in Sacre-Stie. Ho voluto rompere quel titolo perché c’è il momento sacro che è un grande prologo al momento delle stie in cui il personaggio costruito e affascinante del Cardinale viene fatto a pezzi seguendo quello che è un motto del Papa regnante “bisogna dire la verità”. Allora la verità vera va dominando l’ipocrisia della prima parte. Credo che il titolo spieghi tutto
5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
Primavera dei Teatri è un giardino dove ci sono dei fiori che sono dei boccioli. E questi boccioli sono gli spettacoli che arrivano qui, sempre al debutto, spettacoli che ti fanno emozionare, ti coinvolgono ma soprattutto ti fanno pensare. È un giardino nel quale è bello tuffarsi e questi giardini sono sempre più rari
6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Dio
7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Sono due spettacoli. Il primo è N’GNANZOU, il mio lavoro sula mattanza che mi ha fatto tornare al teatro. Mentre il secondo è Eumenidi, lo spettacolo che mi ha fatto conoscere a livello europeo; una bella avventura
8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Pasolini e, se dovessi dire il secondo, Goethe
9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Mi piace girare ma direi sede della compagnia, perché mi permetterebbe di riposarmi anche se io sono nato nomade
10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Il teatro possiede la grande forza della rivoluzione. È rivoluzionario per definizione
Biografia di Vincenzo Pirrotta
Allievo di Mimmo Cuticchio, erede della tradizione dei cuntisti, si diploma alla scuola di teatro dell’ I.N.D.A. (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Come attore ha lavorato con registi quali: Giancarlo Sbragia, Mimmo Cuticchio, Giancarlo Sepe, e con gli attori: Anna Proclemer, Piera Degli Esposti, Toni Servillo. Come autore il suo lavoro si inserisce nell’articolato tessuto dei grandi autori/attori monologhisti italiani. Nel 2004 riceve il premio E.T.I. per Malaluna e nel 2005 il premio della critica come miglior autore, attore e regista emergente assegnatogli dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Nel 2006 vince il Golden Graal come migliore regista ed è finalista ai Premi ETI e al Premio UBU. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)