Il festival Contemporanea di Prato in questa edizione compie dieci anni: un lungo periodo in cui ha svolto un ruolo di rilievo tanto per il racconto dell’esistente – è il direttore stesso, Edoardo Donatini, nell’intervista curata da Massimo Marino con cui introduce il festival, a evidenziare come l’assenza di una linea tematica vada proprio incardinata in questo tipo di tentativo – quanto, di conseguenza, per l’individuazione delle direzioni di ricerca ancora in nuce e destinate, in tempi successivi, a segnare profondamente la scena. È il caso dell’ormai leggendario Alveare, in cui in questi anni si sono avvicendati tanti di quelli che poi si sono rivelati i gruppi del nuovo teatro dei nostri giorni; ma un simile ruolo, Contemporanea l’ha svolto anche rispetto a tanta performatività internazionale, che spesso ha trovato in quello di Prato il suo primo – a volte unico – palcoscenico italiano. E questa politica dell’ascolto, dell’attenzione, dell’affiancamento in questi dieci anni ha dato i propri frutti. Basta andare a scorrere i programmi delle edizioni precedenti per farsi un’idea. Così, sviluppando in pieno una linea in bilico fra racconto del presente e individuazione del futuro che ne ha decisamente distinto il lavoro, il festival 2012, può diventare occasione per fare i conti con quanto sia stato realizzato finora; e, naturalmente, per provare a indovinare quali saranno i prossimi nodi, pensieri, strategie. Riflette con lucidità sul “nuovo”, dalla necessità di accompagnamento alle sue più malsane degenerazioni che (tanto in teatro che fuori) sfiorano le follie del doping, e sull’organicità rispetto alla scena – «oggi c’è bisogno di guardare con occhio disincantato al processo artistico» – la bella intervista di Donatini. Oggi, in un’epoca in cui sembrano risolversi, in termini di ambizioni ricompositive, alcune dicotomie che hanno caratterizzato la cultura e la società del secondo Novecento – su tutte, quella che vede opporsi processo e prodotto – prova a fare i conti tanto con il grido del cigno di questo tardo capitalismo che, faticando a morire, continua a imporre l’innovazione come stile di vita e di consumo; quanto con gli esiti, tutti ancora da interrogare, di un’avanguardia che ormai si è fatta tradizione. «In un momento di crisi come questo proviamo l’esigenza di fermarci, di guardarci indietro per prendere un passo diverso, più riflessivo – continua il direttore artistico – ora è necessario osservare quello che è rimasto davvero. La crisi del sistema, evidente, può servirci per ripartire». Così, sviluppando in pieno una linea in bilico fra racconto del presente e individuazione del futuro che ne ha decisamente distinto il lavoro, il festival 2012, può diventare occasione per fare i conti con quanto sia stato realizzato finora; e, naturalmente, per provare a indovinare quali saranno i prossimi nodi e pensieri che andranno a scuotere la scena.
Estremamente legati alle croci e delizie della contemporaneità, fra vocazione alla partecipazione e seduzione della tecnologia, sembra che anche alcuni spettacoli di questa edizione osservino una simile collocazione temporale, in un presente che si riverbera fra passato e futuro, fra memoria e veggenza. È il caso del fortunato duo composto da Giuseppe Chico e Barbara Matjević, ospite sui palcoscenici dei più importanti festival internazionali: in Forecasting, ultimo capitolo di una trilogia che si concentra sulla perdita di senso della storia in epoca contemporanea, la performer interagisce con una sequenza di video estratti da YouTube, oggetto – ma forse soggetto, più ancora che strumento – capace forse oggi di aprire interrogazioni non banali sul modo tutto attuale di trattare le tradizionali categorie storiche.
E se la dimensione co-autoriale emerge con forza decisiva in quei progetti che privilegiano l’interazione con il pubblico – ben salda in Terra nova di Crew, spettacolo immersivo e virtuale posto a inaugurazione del festival – sembra invece trovare una collocazione più persistente in quei lavori, numerosi, che si interrogano profondamente sul linguaggio e, in particolare, sul legame tra segno e significato, a volte recidendolo o, più spesso, reinventandone i termini. È il caso dell’olandese Yan Duyvendak, ma anche del nuovo progetto di Kinkaleri, All!, qui a Prato con l’ulteriore capitolo di una ricerca legata all’invenzione di una vera e propria grammatica capace di far interferire fra loro dimensioni tradizionalmente separate come il linguaggio del corpo e quello della parola. Così come con You can speak you are an animal dello svizzero Massimo Furlan, in cui l’indagine fra natura e cultura, fra uomo e animale si sviluppa tramite l’esposizione di immagini tanto schiaccianti quanto criptiche. Frammenti, esplosioni, resti – gli elementi di una struttura narrativa allo stato residuale che vengono ricuciti e rimpastati, qui come altrove, secondo percorsi la cui creazione è quasi interamente delegata ai processi di fruizione individuali.
Uomo-macchina, uomo-animale, reale-virtuale, civiltà-cultura, senso-non senso sono alcune delle coppie concettuali che si ritrovano negli spettacoli di Contemporanea 2012, fra tentativi di riappropriazione della storia e utilizzo creativo delle tecnologie, vocazione partecipativa e invenzione di nuovi linguaggi. È forse significativo notare, in un’epoca di ancora non pacificata ottica ricompositiva, come le potenzialità legate alla dimensione co-autoriale restino piuttosto latenti nel momento in cui i termini di tali coppie vengono trattati secondo la propria tradizionale dinamica oppositiva. Le potenzialità legate alla partecipazione del pubblico vengono a volte marginalizzate da un presente che più che progettare nuove strade o ripercorrere i fili delle precedenti, più che di ideazione o ricostruzione, si avvolge di una dimensione sognante e nostalgica: come se, guardando se stesso, il presente si trattasse come quel futuro visto dal passato di Philip Dick, Matrix o Odissea nello spazio.
Diverso è quando i due poli solitamente opposti si incontrano, si confondono, cortocircuitano, in modo che il contributo dello spettatore diventi sostanziale, si attivi ed esploda: è il caso dei passaggi quasi comici – il potere sovversivo di tale dimensione, non a caso, è noto – di Forecasting in cui l’interazione fra performer e computer riesce a evocare una prospettiva ulteriore, “mista”, del rapporto fra uomo e macchina, quando l’uno diventa vicendevolmente la protesi dell’altro; o di alcune immagini particolarmente fosche e perturbanti dello spettacolo di Furlan, in cui viene coltivata un’ambiguità concreta, inquietante, fra uomo e animale. Si tratta di cortocircuiti che consentono l’apertura di varchi concreti fra scena e platea e, con essa, lasciano intravvedere in alcuni momenti una possibilità di ricomposizione fra i termini della coppia forse più discussa, quella composta da processo e prodotto – un pensiero che è quasi un augurio, nel caso l’ipotesi fosse fondata, per la scena a venire.
Roberta Ferraresi
Contenuto originariamente pubblicato su Doppiozero