La Biennale di Venezia – diretta per il sesto anno consecutivo dal competente e lungimirante Àlex Rigola – anche per quest’edizione ha rappresentato un appuntamento imperdibile grazie ai tanti maestri della regia e della drammaturgia invitati a presentare i propri lavori in laguna. I loro nomi – Castellucci, Jatahy, Koršunovas, Latella, Lauwers, Marthaler, Murgia, Ostermeier, Pasqual, Rambert, Rau, Ravenhill, Reza, Richter, Señor Serrano, La Zaranda – compongono lo stesso manifesto sobrio, privo di immagini, ma ben diretto: come a voler suggerire che niente può essere più accattivante e può parlare al pubblico, quando quelle personalità sono di fama e qualità indiscussa, riconosciute a livello mondiale. Inoltre quando si apre la rassegna con il genio elvetico Christoph Marthaler (Leone d’oro 2015) e il giorno successivo si assiste alla regia di Thomas Ostermeier (Leone d’oro 2011) si è già fatto centro. Con questo scritto ci vogliamo proprio soffermare sul lavoro di questi due artisti che hanno presentato degli spettacoli che continuano, anche a distanza di tempo, a insinuarsi nella mente. Eccolo il valore aggiunto dei grandi Maestri: non vi è un mero consumo spettacolare, ma l’opera continua ad agire in profondità, a riproporsi sotto una nuova veste. Quando succede, l’effetto (pare) è benefico.
Per introdurre Das Weisse vom Ei / Une île flottante di Marthaler ricorriamo alle motivazioni che si adducono per la consegna del Leone d’Oro a quest’uomo perché fungono da riassunto esemplare: «Per il suo lavoro musicale in spettacoli in cui apparentemente la musica non appare. Per il suo senso dell’umorismo sempre intelligente che permette di unire tragedia, dramma e commedia in un unico mondo. Perché ci fa sognare da svegli. Per la fantastica creazione di spazi scenici unici creati in collaborazione con l’immancabile Anna Viebrock, una delle migliori scenografe della storia del teatro. Per la sua capacità di porre davanti a uno specchio la società europea lasciando che osservi la miseria e la meschinità dell’umanità che ci caratterizza e che ci sa raccontare così bene.»
Nel titolo, ripetuto sia in tedesco che in francese, non si trovano appigli semantici – dato che si fa riferimento a un dolce – ma la duplice lingua utilizzata ci dice già molto: i personaggi in scena, appartenenti a due famiglie che si devono incontrare poiché i loro rispettivi figli si sono innamorati (così dicono, ma poi, nei fatti, i dubbi ci divorano) fanno una gran fatica a comprendersi tra loro. Lo sfasamento comunicativo non è causato solo dall’uso di lingue differenti, ma dai comportamenti stralunati, surreali, folli di questi otto strepitosi attori che danno vita a continui coup de théâtre e gag, fingendo di essere quello che non sono per gettare continuamente nel vicino la polvere negli occhi – titolo quest’ultimo di un’opera di Eugène Labiche da cui Marthaler trae qui ispirazione. Ma i “vicini” non sono solamente gli altri personaggi, sono gli stessi spettatori, continuamente spiazzati e sorpresi da situazioni al limite del paradossale, che non si spiegano se non pensando che tutto ciò può succedere solo in sogno, o in un incubo, come nei film di buñueliana memoria. La temperatura surreale si può calcolare sin dall’inizio grazie alla speciale ouverture, durante la quale gli otto attori – tutti in parata davanti al sipario – danno vita a una sorta di tavola dei personaggi in cui viene riassunta in maniera irresistibilmente divertente l’intera opera. E il non-sense si ritrova nella magnifica scenografia di Anna Viebrock, nei quadri appesi che riproducono i personaggi – seduti immobili sulle poltrone –, negli animali impagliati che il maggiordomo continua a introdurre, nell’arpa che viene suonata come fosse un pianoforte, nella misteriosa donna vestita di rosso che entra nelle cornici; lo sfasamento si palesa nella incredibile dilatazione temporale, dove non vi è abbastanza tempo per gli “a-parte” dei singoli personaggi che vengono continuamente interrotti, in cui i minuti sono scanditi da delle campane. Il ritmo è estremamente rallentato: una necessità per permettere all’ironia dissacrante di Marthaler di esistere, di fuoriuscire e portare lo spettacolo verso un crescendo irresistibilmente folle in cui si denuncia la paura dell’insuccesso, del fallimento dell’uomo borghese che è oggi vicino a noi più di quanto pensiamo, con la sua ipocrisia e le sue contraddizioni, incapace di comunicare con il resto del mondo.
Si respira tutt’altra atmosfera, più tesa e estremamente dura, in Die Ehe der Maria Braun diretto da Thomas Ostermeier e tratto dal film di Rainer Werner Fassbinder. Un lavoro dal sapore aspro che utilizza il recente passato della Germania del secondo dopoguerra per criticare un presente che continua a considerare il dio denaro come unico motore di una comunità altrimenti perduta. Dopo Il nemico del popolo visto alla Biennale 2013 e che molto ci aveva fatto riflettere sulla situazione politica e sociale dei nostri tempi (leggi la recensione), Ostermeier si conferma un regista attento all’oggi, un artista che vede nel teatro una possibilità, una lente di ingrandimento per leggere criticamente il presente.
Maria Braun – interpretata dalla bravissima Ursina Lardi – è infatti una donna che grazie alla sua bellezza utilizza il proprio corpo dapprima per sopravvivere e poi, a causa della sua sete di ricchezza, per salire avidamente la scala sociale. Sposatasi durante la guerra con il soldato tedesco Hermann – l’integro Sebastian Schwarz –, Maria si ritrova di lì a pochissimo vedova (così crede inizialmente, ma poi scoprirà che il suo uomo è ancora in vita, andando a complicare la situazione). La donna inizia il suo decadimento morale concedendosi a un soldato americano prima e a un uomo d’affari poi: vittima di un momento storico incomprensibile e malato, la protagonista vive uno spaesamento continuo che le fa commettere degli errori, dei passi falsi (è complice dell’assassinio del suo amante che costringe il marito in galera) che a poco a poco si trasformano in cinico arrivismo. Non scorre più sangue in lei ma la volontà di potenza, di denaro, di una donna che rimane “fredda perché i tempi non permettono di avere sentimenti” come chiosa il suo personaggio e che riesce a comprarsi una casa tutta sua perché “si è fatta valere”. Ma nonostante la sua freddezza, Maria Braun rimane una vittima del suo tempo perché non considera che lo stesso arrivismo di cui si è nutrita possa avere contagiato anche le persone intorno a lei: ed è proprio il marito, alla fine della pièce, a mostrarle come chi sia costretto a subire prima o poi si riscatterà facendo lo stesso identico gioco senza alcuna pietà.
Sul fondale di una scena che ricorda il salotto di un hotel, scorrono le immagini di quella maledetta guerra, delle donne tedesche innamorate di Hitler, ma anche le riprese fatte dalla telecamera in scena tenuta dagli stessi attori – splendidi e affiatatissimi: uno scenario che fonde la storia passata con l’egoismo presente in uno spettacolo metateatrale che interroga il nostro oggi, in cui dovremmo smettere di pensare egoisticamente “per fortuna non siamo mica greci”, come dicono ironicamente i personaggi durante le loro battute, per salvarci insieme, prima di arrivare al rumore assordante dell’esplosione finale che non risparmia nessuno.
Visti al Teatro alle Tese e al Teatro Goldoni, Venezia
Carlotta Tringali