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A Primavera dei Teatri: tra dialettica collettiva, Perrotta e Latini

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

C’è crisi, e necessità di rifondarsi. Di fare tabula rasa ricostruendo dal niente. Conservare purezza e pratiche sane; acidificare impurità. Il teatro, dunque, quale strumento di proselitismo. Per coscienze svuotate. Per spolverare un senso critico sotto sabbia. Una riflessione indotta, semplicemente incoraggiata, suggerita o accennata almeno. Se non è atto politico, non è detto non debba avere dignità o ragione d’essere l’esecuzione teatrale. Ma, il contesto attuale, storico, sociale, obbliga a delle prese di posizioni serrate, ferme, necessariamente osmotiche. E se le rivoluzioni nascono individualmente, una moltitudine di singoli, concentrati contemporaneamente sulla stessa rappresentazione (fenomeno), formano e amplificano una comprensione comune, potenzialmente esecutiva.

Nelle rassegne e nei festival, la materia vivida di fruizione asseconda lo scambio, la parola, il dibattito. Non solo tra spettatori ansiosi di commenti a fine scena o turisti in vacanza… Dialettica collettiva, invece, che semina o potrebbe seminare, per futuri raccolti. E cambi direzionali.

A Castrovillari, il festival di Primavera, è un evento speciale. Prima di tutto perché si percepisce la tensione (di volontà) nell’attuare un discorso sul teatro ché non sia esclusivamente panem et circernses. Poi, perché possibile in una terra impossibile. Perché una strana alchimia scandisce i giorni. Un’inconsueta unione empatica. Magari così in maschera da risultare verosimile (il teatro che si estende oltre se stesso); probabilmente ruffiana; sicuramente non disinteressata. Ma c’è. Un bene comune.
Succede a Castrovillari, che dopo 3 giorni di festival sembra siano passate settimane. Succede che una cittadina di provincia si emancipi e diventi un borgo europeo. Che un gruppo di studenti universitari alimentino la passione nel volere cibarsi di fatti teatrali ascoltando in un bistrot le parole di un critico, Giulio Baffi, la cui vita è scorsa tra palco e realtà. Succede che nelle segrete del Castello Aragonese, prigioni fino a vent’anni dopo l’Unità d’Italia, un musicista, Gianfranco De Franco (esecutore e compositore delle musiche di Dissonorata e La Borto), materializzi le percezioni degli uditori e li porti a compiere viaggi sensoriali. E l’umido dei sotterranei sembra diffondere tanfo di carni putride e angosciosi respiri.

Perrotta - foto di Angelo Maggio

Perrotta – foto di Angelo Maggio

Giovedì, terzo giorno di festival, giorno di prime. Mario Perrotta con Un bès. Antonio Ligabue in prima serata al teatro Sybaris e Roberto Latini in seconda nella Sala 14 con Noosfera Museum.
Il dualismo dell’artista-uomo nel lavoro inedito di Perrotta, di chi sa di “meritare un bacio, da artista, e elemosinarlo da pazzo”. Un’indagine in terra di confine (umana e cerebrale), in cosa è dentro e fuori; riflessione approfondita sulla libertà d’agire per proprio dettame e i condizionamenti di etichette altrui.
Perrotta arriva sul palco dalla platea, mendicando affetto, comprensione, gesti d’umanità. Il suo sguardo assente, stralunato, svela il timore (probabilmente) della prova davanti un pubblico “attento”. Davanti a un teatro gremito e una trentina di spettatori concentrati più sull’attesa della sbavatura, della stonatura, anziché mettere occhi e sensi sulla scena liberandosi da sovrastrutture di ruolo e mestiere…
Trapela l’emotività che non è solo del personaggio. Quella è calcata in maniera naturalistica, e tramite il linguaggio teatrale, metaforico, intuitivo, percepibile, s’incarna e si fa veicolo tra il pubblico al buio. Una dialettica ricercata, sperimentata a commistioni di poetiche inconsuete, codificate ma originali. Tre pannelli a grate, dei finestroni ingabbiati, come unico elemento scenografico che diventano, nel retro, lavagne cartacee in cui Perrotta tratteggia a carboncino. E rappresenta paesaggi (ambientazioni), personaggi, visioni d’una mente diversamente abile. Ricerca e sperimentazione. Padronanza attoriale e fisicità versatile a prodursi in elemento scenico. Assenza di sintesi e verticalismo pronunciato. Consuetudine dei lavori scritti e interpretati, la regia è postuma alle esigenze di attori e costruzione di scene. Che nel troncone finale dello spettacolo, assumono forme più familiari di narrazione e dialoghi con doppi indivisibili. Un leggero riverbero di caratterizzazione eguale a se stesso macchia leggermente la prova: l’incertezza della prima, il timore precedentemente accennato. Un moderno innestato a trame consolidate, emerso con la spettacolarizzazione del prodotto visivo. Il palco diventa camera oscura, in alcune scene, dove sono proiettate, a luce fantasmagorica, paesaggi, disegni, volti. Fantasmagorie, come attorno a uno scemo del villaggio. Artista. Bandito e ammirato. In eterno conflitto tra il fuori e il dentro. Ma senza maschere d’ordinanza. Se ne evince non un’attenzione epica su un accaduto, una biografia, nemmeno un tentativo catartico nell’osservare qualcosa per cui provare pietà e espiare. Piuttosto uno specchiarsi riaffiorando in superficie, da noi, da dentro, quella parte di follia stipata accuratamente sottovuoto.

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

Latini è un poeta del gesto. Scevro dal lirismo. Padrone in scena, del suo corpo e della sua voce. Padrone non egoista né autoreferenziale. Ma pasto per pubblico e oggetto di voyeurismo impalpabile. Di trasmissioni non immediate. Su cui tornare, con la riflessione, da diverse angolazioni di vista, di analisi. Il teatro che apre la mente. Di un linguaggio non intellegibile, diretto o esplicativo. Metaforico, ermetico, simbolico, immaginifico. Dopo Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic, il terzo movimento del progetto, Noosfera Museum, si propone suggerimento della semantica testuale, come esposizione di mutazioni fisiche e essenziali effetto del «disagio dell’attesa di un futuro che si è dimesso dalla nostre aspirazioni». Voci da rifugi, da corazze (o prigioni) di solitudini. In uno spazio (d’azione scenica) ipertecnologico e naturale (luci, effetti sonori, fumo artificiale, alberi e terra, sangue, vino), Latini incarna la gelatina umana ammassata come in una fossa comune di anonimati, di dispersione. Ambendo al calco della bellezza tenuta in serbo «dalla platea che l’ha custodita». Cinquanta minuti di mutismi materializzati visivamente; l’intromissione della parola sgranata dagli amplificatori (in fuori campo) poi modulata dalle corde vocali dell’attore. Senza troppo cenno d’impostazione, cruda, dal profondo, precisa e scandita, confidenziale. Museum, esposizione di corpi e interiorità in gabbia e in processione sistematica. Contrapposizione a sintassi dogmatizzata. Urgenza sensibile tradotta in linguaggi altri, liberi. Liberi dal confezionamento per cerimonie, liberi dagli unici sguardi possibili, da prospettive banali. Liberi come dovremmo essere dalla standardizzazione di ambizioni, volontà, atteggiamenti. Per partiture prese a sacrificio attoriale dell’espressione accurata. Per tensione teatrale tenuta chirurgicamente a ritmo costante e un talento, cibo per uditori non ipocriti.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari 

Emilio Nigro

 

Al via Primavera dei Teatri: tra Malosti e Maniaci d’Amore

Dalla XIV edizione del Festival Primavera dei Teatri, il nostro corrispondente Emilio Nigro ci manderà alcune pagine di diario, raccontandoci l’atmosfera che distingue il festival calabro diretto da Scena Verticale e alcuni spettacoli che lo animano.

Al via Primavera: tra Malosti e Maniaci d’Amore

castrovillariDopo del tempo al chiuso – una lunga stagione rigida piovosa e scura – riprendere la strada comporta una sorpresa continua. Come vedere per la prima volta le cose del mondo. Con lo stupore di un bambino curioso di tutto e cosciente di nulla. Le percezioni si dilatano, i sensi s’affinano; gesti, voci, volti, s’amplificano. Impressioni continue. Un groppo di ginestre su un colle sembra un’immagine dipinta. Un quartiere, medievale, che dice di dominazioni aragonesi, fatto e rifatto per giorni, mesi, anni, svela un dettaglio inedito, uno scorcio stucchevole, un dinamismo esotico. Un baretto d’un vicolo malandrino, sgrauso, con brutti cerri e l’atmosfera truce, assume contorni affascinanti. Suggestivi. Delle suggestioni che si avvertono nelle periferie criminali. Lo strano fascino del pericolo…

Bentornata Primavera. La fioritura è di stagione. L’habitat quello di sempre. A cui però non ci si abitua mai. E se ne ha sete e fame, quando tarda. Qui, in terra di Calabria, in una zona conservatasi testimonianza borbonica, tra le più intatte antropologicamente. Tra il Pollino e l’urbanizzazione del grosso centro di provincia, costumanze salvaguardate e innesti sociali digeriti appena. Dove sorrisi e maschere d’ordinanza, di convenzione, si acutizzano a un tale livello di finzione da sembrare sinceri. Dove si è poveri economicamente e culturalmente, arretrati e pieni di contraddizioni, ma ricchi d’integrità intellettiva e morale, di spirito, di senso, d’umanità. Quella ricchezza che il teatro dovrebbe diffondere, nelle varie trame in cui si dipana. Arrivando in sordina o di prepotenza, per metafora o realismo estremo. Una via di comunicazione ambigua, non necessariamente immediata, chiara, intellegibile. In ogni caso viva, senza possibilità di correzione subitanea, senza possibilità di replay. Un’azione collettiva. Che può diventare corale livellando comprensione e messaggio, ascolto e eseguito, gesto e visualizzato. Un gioco reciproco. Uno scambio diseguale ma uniforme. Incubatrice di emozioni.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Dovrebbe essere emozionante il teatro che vale. Al di là delle classificazioni o nomenclature di genere, tecnica, critica e resoconti di significato. E spiegare perché uno spettacolo lo è e un altro no. Facile a dirsi…
Emozionante lo è stato Lo stupro di Lucrezia di Valter Malosti. Shakespeare. La parola che incanta. L’incisività del verso che descrive moti, situazioni, congetture, a rimando, per metafora o allegoria, inarrivabile. E stupisce – dello stupore di un bimbo curioso di tutto e cosciente di nulla – da creare ipnosi.
Peccato che gli attori non sono stati sempre all’altezza, durante l’ora e mezza di spettacolo, di dare giusta grazia a questa dialettica celeste. Comprensibile, tuttavia, considerando la mole di lavoro fisico a cui sono sottoposti. Per vivificare lo stupro della moglie di Collatino, Lucrezia, l’allettante, la casta, la fedele. Una violenza di cui i due coniugi sono colpevoli, l’uno per aver fatto venire l’acquolina in bocca all’erotomane confidando virtù e virtuosismi dell’amata, l’altra rea di bellezza tentatrice. Giustificazioni per la superbia di Tarquinio carnefice e simbolo della cecità effetto della libidine, della presunzione indotta dal potere, dell’animalità dell’essere governati dall’istinto. Emblema primordiale, emblema del potere (il popolo romano insorge contro la monarchia portando il vessillo del suicidio di Lucrezia). E Lucrezia è vittima predestinata, ciò che in fenomenologia è indicato come movente, e nelle disquisizioni filosofiche astratte come episodio necessario al compimento del fato. Però Lucrezia è una donna. Una donna stuprata. Il palco diventa megafono del dolore. Dell’onore perduto. Della devastazione fisica e mentale. Malosti lo trasforma in un vuoto d’anima, con un parterre di luci a trasmettere (sensibilmente) un groviglio di angoscia e orrore, un duello di corpi nudi (padrone e sottoposto) sequenziale e crudo – l’asessualità, la mancanza di percezioni sensuali all’assistere a nudità sottoposte a violenza – un’estetica carica di semiotica audiovisiva e innesto di feticci contemporanei. Con il risultato, però, di non avere convinto il pubblico, poco soddisfatto da qualcosa ritenuta (ormai) di repertorio, di consumo, di codificabile e catalogabile. L’alterità del frigo, le postazioni microfonate, l’amplesso esplicito. Teatro moderno sintetizza un evolversi di tecniche o una ricerca raffinata nell’indagine della realtà, delle fonti, dell’eredità drammaturgica e teatrale?

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fertile e prorompente l’impronta registica allo spettacolo: fedeltà al verbo Scespiriano e costruzione sulle meccaniche attoriali, sul rappresentare altro da ciò che si vede e l’occhio legge a primo assorbimento, sul disegno visivo d’arte, sull’impostazione vocale adottata per il narratore. Umorale la prova d’attore, flebili nell’ attacco – probabilmente destabilizzati dall’ “ansia da prestazione” – più padroni nella seconda parte, con un punto a favore di Alice Spisa, sottotono Jacopo Squizzato, immaturo. Complessivamente, il suffragio del pubblico, è discorde. Per il rigore di movimenti troppo precisi, per un calo di climax delle scene successive all’amplesso violento, per un ipnotismo testuale distratto da inefficaci trasposti vocali; Per un disegno scenografico da cornice, poco sfruttato nella speculazione totale dello spazio; Spettacolo emozionante, avvertito, sudato, ma ancora distante, plastico.

Di diversa pasta lo spettacolo in seconda serata. Nella location inedita del Castello Aragonese. Il primo, si è visto al Teatro Sibarys.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fresca la sera incorniciata dallo scenario naturale del Castello. Muri e facciate lasciate all’identità austera del passaggio del tempo. Fresca l’esecuzione sul palco de Il nostro amore schifo del duo Maniaci d’Amore (Francesco D’amore, Luciana Maniàci). Meridionali approdati al teatro da strade di formazione altre (Scuola Holde – Torino) per cui evidente il tratto letterario nella partitura drammaturgica e l’intenzione scenica di veicolare il testo, la trovata prosaica, il gioco di parole. Perfetta dizione lui, naturalistica lei, con l’inflessione messinese e l’apertura vocale negli innumerevoli “per sempre” reiterati a totem di caratterizzazione. I “per sempre” di quell’amore pensato prima che vissuto. Adolescenziale. Intollerante nei confronti del qui e ora universale, matrice del lineare funzionamento delle manifestazioni vitali. Cliché di coppia, non stagionata per “verginità” anagrafica, ma mossa da normative di codificazione comune, dogmatica. Come s’avesse un libretto d’istruzioni per movimenti di sentimento. E fuori dai resoconti concettuali, il lavoro dei due – un frutto verde con pezzetti di rossa maturità – convince per la frizzantezza dell’approccio e della dimestichezza con le pratiche di messa in scena. Per la padronanza nell’intervenire chirurgicamente con la sicurezza del professionista, nonostante la poca esperienza. E le strutture troppo in vista (quelle di pianificazione, le idee adottate nella costruzione, gli ingranaggi dialogici) come in un cantiere con uno scheletro d’edificio, il lavoro attoriale ingenuo e semplicistico, l’autenticità spinta all’eccesso, sono piccoli nei su pelle candida, setosa. Stupore per i coup de theatre (ripetuti) nel finale. Intelligenti, di uno spettacolo intelligente.

Dal Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari

Emilio Nigro

 

 

Quattro vite possibili per Oscar De Summa: Chiusigliocchi debutta a Castrovillari

foto di Angelo Maggio

In scena un tavolo, quattro sedie e una porta. Quattro uomini, dall’aspetto anonimo e dimesso, fin dall’inizio travolgono lo spettatore con un fiume di parole, per confonderlo e arrivare ad attraversarlo.
Chiusigliocchi
, raffinato e minimalista lavoro teatrale di Oscar De Summa, in prima nazionale a Primavera dei Teatri a Castrovillari, è un interessante prova d’attore che si muove contemporaneamente su diversi piani di realtà, con dialoghi sincopati, accurati e finemente cesellati, capaci di lasciare intravedere il significato dell’esistenza tra storielle di quotidianità sconcertante.

«Tutto il lavoro prende le mosse da un’immagine – spiega Oscar De Summa durante un’intervista rilasciataci –; un giovane, ormai preso dalla disperazione, prepara una corda per impiccarsi. In quel momento penoso e tragico arrivano i genitori che lo vedono e gli dicono sarcastici “ma smettila di fare sempre stupidaggini”. Insomma, nemmeno nel suo ultimo istante di vita, quello di maggiore pathos, viene preso sul serio. I genitori sono vecchi e marci. Così come il potere che rappresentano. In fondo siamo tutti ragazzini che si confrontano con un potere».

Chiusigliocchi parla di suicidio e della disperazione della vita quotidiana, attingendo all’immaginario letterario dell’americano Raymond Carver, il grande maestro della short story statunitense.

«Sono partito – continua De Summa – da un pensiero che mi riguarda: non sono un depresso ma penso al suicidio ogni giorno, senza tragicità ma con serenità, come una via d’uscita alternativa. Ho individuato un territorio d’indagine e da lì è cominciato il lavoro, partendo proprio da uno spazio senza troppe indicazioni e da quattro vite possibili, per raccontare una storia su più livelli, su diversi piani di realtà. Quando abbiamo avuto bisogno di un substrato di vita reale abbiamo attinto a Carver, un autore capace di illustrare in cinque pagine tutta una vita, svelando la crudezza e cattiveria dentro la quotidianità».

I quattro personaggi di Chiusigliocchi, interpretati ottimamente dallo stesso De Summa con Armando Iovino, Francesco Rotelli e Tommaso Rotella, si agitano, piangono, litigano per conquistarsi la parola, ballano il valzer, cadono, confessano le loro debolezze e aspirazioni in un crescendo di architetture linguistiche surreali, ricordi rarefatti, muovendosi con estrema disinvoltura sulla scena.
Camminano, si siedono, arrivando a salire in piedi sul tavolo per un tanto agognato cambio di prospettiva, continuando a raccontare storie piccole e immense al tempo stesso in un gioco meta-teatrale forse di difficile fruibilità ma di sicuro fascino e stile.
Esilarante nel finale, l’entrata in scena di un ragazzo, interpretato da Vincenzo Nappi, in costume da bagno con un pallone sotto braccio che distribuisce fogli ai personaggi, sempre più convinti di dover farla finita mentre, chiaro omaggio alla poesia Lemonade, si piange un figlio che dopo un lieve incidente stradale si è addormentato per non svegliarsi più. Situazioni irreali, patetiche e tremendamente amare.

«Ognuno di noi – dichiara l’autore e regista – si è confrontato con quella che ho definito “perfettibilità”, quello che siamo e quello che vorremmo essere, un passo indietro e un passo avanti. Una volta chiusi gli occhi lo sguardo va verso l’interno: lì cosa vede? Chiusigliocchi è un lavoro nato in un particolare momento della mia vita, con sempre meno risorse, meno certezze, dove tutto sembra diventare più difficile. E allora perché non mettersi in gioco, anche senza soldi, senza date: così a Castrovillari ci siamo confrontati per la prima volta con il pubblico ben consapevoli che il lavoro necessitava di altro tempo di studio».

Senza dubbio Primavera dei Teatri è il posto giusto per mostrare un lavoro, anche se ancora in fase embrionale o poco rodato. Il pubblico appassionato e competente giudica con sensibilità e il festival diventa non soltanto vetrina teatrale ma terreno di confronto e riflessione.

«Il passaggio successivo sarebbe quello di raccogliere elementi di vita reale, di sentire la gente per dare al lavoro una connotazione nostrana. Da tempo credo che il teatro debba riguardare direttamente lo spettatore. Metterò per ora da parte questo lavoro della mia cosiddetta “natura autoriale” per continuare il lavoro di riscrittura sui classici. Magari tra un po’ fonderò una nuova etichetta. Chiusigliocchi potrebbe essere il titolo».

Intanto continuando la riscrittura dei classici, De Summa sta lavorando  a Un Otello altro, nuova produzione con la Corte Ospitale.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Maddalena Peluso

Siamo Figli ‘i Famigghia

foto di Angelo Maggio

Fondamento della propria esistenza, la famiglia diventa il nido dentro cui si cresce, si matura, con il naturale sviluppo e la costruzione di una nuova cellula vitale. Non sempre però questo accade: dentro quel nucleo a volte il tempo della storia scorre in maniera inversa a quello della propria vita. Succede che non si cresce, si rimane confinati nel proprio ruolo di figli e non si assumono quelle responsabilità che fanno diventare i bambini di una volta gli adulti di oggi.
Roberto Bonaventura, insieme al Teatro di Messina, mette in scena in maniera precisa e puntuale il testo di Dario Tomasello che parte proprio da una generazione rimasta bambina. In Patri ‘i famigghia tre cugini, Angelica, Rino e Nando, si ritrovano dopo molti anni in occasione del funerale del padre di quest’ultimo. Trasferitosi ormai al nord, Nando – interpretato da Angelo Campolo nei panni di un cinico milanese, è freddo e distaccato rispetto agli altri due rimasti a Messina; e questo suo distacco si nota immediatamente nel dialetto che non sente più come la propria lingua. Se i compagni Rino, un bravissimo Annibale Pavone, e Angelica, una impeccabile Adele Tirante, si esprimono in siculo, Nando sembra non riconoscere addirittura quelle radici meridionali da cui proviene. Solo rivivendo con i suoi compagni i ricordi di un’infanzia smarrita e divertita colui che aveva lasciato il proprio paese inizia a ritrovarsi e recuperare la propria lingua madre. Aprendo il baule di legno sul palco e giocando con le ombre ludiche del passato, i tre adulti si dimostrano non essere mai cresciuti: nessuno è capace di essere padre; solo Angelica guarda al domani, ma il suo sembra più che altro un tentativo di rivalsa su quegli uomini confinati in un’infanzia lontana. In una scenografia volutamente infantile, fatta di piccole sedie da bambini e un fondale disegnato, i protagonisti eseguono movimenti precisi e spazialmente ben definiti.

foto di Angelo Maggio

Tomasello scrive un testo semplice e leggero, continuando la tradizione di Scimone Sframeli, altri due autori e registi siciliani che ricreano atmosfere “sospese” per i propri lavori. Ma diversamente da questo duo non c’è in Patri i’famigghia il finale graffiante che lascia riflettere a posteriori su quello che è stato uno spettacolo sì piacevole, ma da uno sviluppo forse troppo in sordina e poco incisivo rispetto alle premesse. Il plauso alla piacevole pièce va comunque ricordato: con una recitazione a metà tra il surreale e reale, in un’atmosfera divertita e a tratti fortemente straniante, Bonaventura consegna una regia intelligente, aiutato anche dalla buonissima interpretazione dei suoi attori. Un tema, quello affrontato, che mostra come davanti alla morte si sia costretti a fare un consunto della propria vita: a volte solo di fronte alla Signora in nero si cresce. E sono gli stessi personaggi ad accorgersi: «non avemu patri, non semu patri! Sulu figghi sapemu esseri».

 

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Carlotta Tringali

10 Domande a… Flavio Ambrosini

Flavio Ambrosini

Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Flavio Ambrosini, presente a Primavera dei Teatri con Goethe schiatta.

1. Come definirebbe il suo teatro?
Storicamente è un teatro post-brechtiano. Il mio cominciare a fare teatro è stato all’insegna della rivisitazione critica del brechtismo, cioè di un teatro razionale capace di spiegare le cose, non legato strettamente alla forza evocativa delle immagini ma piuttosto al ragionamento.

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Da un certo punto di vista è il teatro stesso. Basti ricordare Vittorio Gassman che è stato uno degli attori più irrequieti, più bisognosi di cambiare, più bisognoso di cercare strade diverse; poi l’ombra del successo ha coperto la sua ricerca, e ha fatto spettacoli che corrispondevano a ciò che la gente si aspettava e questo capita a tutti i grandi divi. La ricerca è strutturalmente connaturata al teatro, il teatro non può non essere “di ricerca” perché si adatta e anticipa le tensioni e i desideri, la percezione estetica del mondo delle persone.

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Gli direi le stesse cose. Gli direi che il teatro cambia ogni giorno, deve cambiare perché le persone vogliono, desiderano qualche cosa di nuovo che aderisca e che le spinga a riflettere sul nuovo. Il teatro di ricerca viene spesso identificato con l’incomprensibile, con il criptico, con il non popolare, ma dipende. Il Bread and Puppet era un teatro di ricerca popolarissimo tra i giovani, era un modo di fare festa per le strade; credo che il Living Theatre non si potesse non definire come teatro di ricerca ma era un teatro di una semplicità assoluta. Quasi tutti i grandi fatti di ricerca sono facili, comprensibili, sono belli perché qualche volta c’è la bellezza che non ha bisogno di essere spiegata. Se invece per teatro di ricerca intendiamo il laboratorio in quella fase in cui non ha ancora costruito tutti i suoi protocolli, per cui ti fa vedere cose che non hanno senso e che significano qualcosa solo per coloro che lo stanno praticando allora sì, il teatro di ricerca è difficile.

4. Goethe schiatta in una frase.
Per me, per te, per il pubblico, per chi? Per me è la vera scoperta di un grande autore. Io capisco solo le cose che faccio. Quando avevo vent’anni era molto popolare nella mia generazione un detto di Mao Tse-tung che diceva: «Per conoscere la mela bisogna mangiarla». Io penso di conoscere bene solo gli spettacoli che ho fatto. Quindi per me è l’incontro con Bernhard, ma è anche l’incontro con Renato che conosco da 30 anni. Sentivo che lui aveva davvero voglia di recitare ed è stato importante vincere la sfida di farlo recitare perché il vero pubblico è meno prevenuto, il pubblico si diverte, gode, anche laddove non capisce. Portare Renato a recitare è convincerlo prima di tutto che ha i mezzi, aiutarlo tecnicamente a imparare i fondamentali, cioè come si respira, perché parlare per un’ora con quel ritmo, con quella tensione, è faticoso. E poi aiutarlo anche a scegliere la quantità di idee che lui aveva, che è poi quello che si fa con l’attore. Tu chiedi all’attore una cosa e lui te ne propone un’altra; dopodiché la mediazione tra il progetto e la soggettività, produce il risultato. Quindi tornando alla domanda: per me, conoscere Bernhard; per noi fare un’esperienza unica a questo punto della nostra vita, della nostra professionalità; per il pubblico, divertirsi.

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
Fino a ieri nulla, sapevo vagamente che c’era questa cosa perché me ne aveva parlato Renato, poi ho conosciuto a Milano Saverio e Dario; poi loro sono venuti a vedere il mio spettacolo. Non mi hanno neanche riconosciuto, parlavano solo con Renato; io mi sono offeso ma in maniera sportiva, diciamo.Adesso mi hanno detto che sono molto contenti di avermi conosciuto (sorride, ndr). Il festival è una situazione che mi appartiene. Penso che Primavera dei Teatri sia un’iniziativa degna, importante, ancora più importante perché nasce qui a Castrovillari, che non è Napoli, non è Palermo, non è Milano. Si scopre una dimensione che io tendo a privilegiare fortemente. L’idea che mi ha sempre affascinato, e che mi ha imposto anche delle scelte di un certo tipo, è che il teatro debba avere una realtà; io non riesco a sopportare il teatro recitato, non riesco a sopportare l’idea che il teatro sia un luogo in cui si adoperano soltanto le tecniche; allo stesso tempo non riesco a sopportare un teatro in cui c’è una focalizzazione eccessiva sul contenutismo. Il teatro può essere fatto da non-attori, può essere fatto da attori ma questi devono essere altrettanto reali dei non-attori. Il Bernhard (Il Presidente di Carlo Cerciello, ndr) è molto bello, Imma Villa è un’attrice straordinaria perché produce questo senso di realtà e tu l’ascolti e senti che sta succedendo, lei sta dicendo delle cose vere.

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Io

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Dovrei dire sicuramente il primo spettacolo che ho fatto (La grande paura-Torino 1921, ndr), però non è così perché il primo spettacolo che ho fatto, che era uno spettacolo politico di cui posso dire che la responsabilità della regia era mia, è stato fatto nel momento di nascita del Collettivo in forma anonima (Compagnia del Collettivo di Parma, fondata nel 1969, ndr). Usava questa brutta abitudine di scrivere i nomi in ordine alfabetico; a noi sembrava una cosa di avanzatissima visione democratica… Era una grandissima stupidata, era un sottrarsi alle responsabilità. Direi che lo spettacolo che mi ha cambiato veramente la vita è stato Don Giovanni di Mozar che ho fatto però cinque anni dopo il mio primo spettacolo; mi ha cambiato la vita perché mi ha fatto percepire la dimensione musicale del teatro come reale.

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Shakespeare. Mi piacerebbe molto dirgli: «Senti, perché non mi scrivi una cosa sul potere, oggi?» e lui mi risponderebbe: «ma no, l’ho già scritta, pigliati un Enrico IV, un Enrico V …».

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Ho vissuto intensamente tutte e due le esperienze. Mi sono battuto sempre per avere la sede, mi sono battuto perché quando abbiamo fatto la Compagnia del Collettivo la prima idea è stata quella di avere un teatro. Per anni abbiamo recitato dove capitava però, progressivamente, abbiamo voluto conquistare uno spazio esclusivo. La Piccola Commenda di Milano nella quale ho lavorato per 10 anni, dove ho potuto mettere in scena Müller e altri autori di oggi, era piccola e difficile da far vivere, però era una casa. I dieci anni più sereni dal punto di vista proprio della progettualità sono stati quelli del Teatro Stabile di Torino. Io sono stato a Torino dal ’73 all’ 83… C’erano tutti i problemi che ci sono in una struttura nella quale devi convincere persone, devi chiedere, non dipende tutto da te; ho fatto una serie di spettacoli più piccoli legati al territorio, spettacoli che sono serviti a entrare in contatto con le realtà territoriali, con la periferia. La stabilità consente tante cose; ad esempio, Primavera dei Teatri se non ci fosse Scena Verticale, che ha un radicamento forte qui, forse non avrebbe la vitalità che ha, ci sarebbe, ma sarebbe una cosa diversa.

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Una volta si diceva che il teatro è l’unica performing art che si fonda sul principio del tempo reale, della compresenza dell’attore e dello spettatore; questa è la ragione della sua vita. Oggi la tecnologia è in grado di fare delle cose che il teatro non si immagina neanche; tra poco riusciremo a fare il teatro virtuale, a creare attraverso sistemi di tipo elettronico una intercomunicazione, un’interrelazione tra le persone, basata sulla tecnologia. Tuttavia quello che stiamo facendo noi è difficile da sostituire ma l’idea propria dei network che la compresenza si possa simulare arriverà alla perfezione ma sarà pur sempre simulata, è una necessità della comunicazione. Non è pensabile che questa non travalichi tutto fino a diventare parte della nostra esistenza. Il teatro continuerà a conservare del principio di realtà lo scarto, l’inatteso, quello che tu non puoi prevedere, il black-out.

Biografia di Flavio Ambrosini
È nato a Padova nel 1946. Vive a Milano. Si è laureato a Parma in Storia del Teatro con Cesare Molinari. Ha fondato con G. Novara il “Teatro Studio” di Torino e successivamente la Cooperativa Nuove Parole che metterà in scena, alla Piccola Commenda di Milano, Müller, Bataille, Tennesy Williams, Duras. È regista d’opera del Teatro di Treviso, del Regio di Torino, del Comunale di Bologna, del Regio di Parma, del Teatro Nazionale di Sofia e del Gran Teatro del Liceu di Barcellona. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)


Ultima serata di festival

Un italiano a Macondo

Un italiano a Macondo

Si conclude, la serata del 5 giugno, il Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari giunto quest’anno alla sua XXII edizione. Dopo ben dodici spettacoli, incontri, concerti e aperitivi, il Protoconvento francescano, animato per una settimana da tanto pubblico, entusiasmo e frizzante energia, ospita gli ultimi due spettacoli della rassegna. Ma prima di entrare nella Sala 14 – dove ha luogo la prima messinscena – alle 18.00 è prevista la presentazione del libro Invisibili realtà di Pierfrancesco Giannangeli a cura di Piergiorgio Cinì: un volume che indaga la storia dei Teatri Invisibili e del laboratorio teatrale Re Nudo.

Mentre nel chiostro del Protoconvento si potrà gustare l’ultimo aperitivo offerto dall’azienda vitivinicola ‘A Vita, alle ore 19 nella Sala 14 Leonardo Gambardella mette in scena e dirige una sua drammaturgia ispirata a un calabrese emigrato in Colombia a cui lo scrittore Màrquez si è rifatto per il personaggio italiano presente in Cent’anni di solitudine. Interpretato da Chiara Cimmino, Elena Fazio e lo stesso regista, Un italiano a Macondo racconta la storia di un uomo partito dal suo piccolo paesino nella periferia mediterranea per fare fortuna e arrivare a Macondo, un luogo dell’anima in cui solo chi conosce la nostalgia può sostare. Con l’aiuto del Prof. Vittorio Cappelli esperto di emigrazione, le musiche originali di Guido Sodo, le scene e i costumi di Vittoria Gallori e Pasquale Lanzillotti, lo spettacolo di Gambardella restituisce valore a quella terra troppo spesso dimenticata ma che produce splendidi frutti che anche in luoghi lontani si possono “assaggiare”.

Ad andare in scena alle ore 20.30 al Teatro Sybaris è La brocca rotta a Ferramonti, un testo che parte dal capolavoro di Heinrich von Kleist e che viene qui riadattato dal drammaturgo Francesco Suriano, con l’aiuto di Franziska Van Elten, per diventare punto di partenza di uno spettacolo metateatrale. A Ferramonti, una località tra la Salerno-Reggio Calabria, un gruppo di internati, per lo più ebrei, mette in scena nel 1942 l’opera di Kleist. Questa diventa il principio di una tragedia ben più grande che va dalle persecuzioni razziali al mondo della menzogna, dall’inconsapevolezza del pericolo alla crudezza della realtà. Realtà e finzione si incontrano e si scontrano a teatro per mostrare come la tragedia sia nascosta dietro ogni angolo, soprattutto quando meno la si aspetta. Uno spettacolo che vede in scena diverse energie: Marilù Prati, Giuseppe Murdaca, Francesco Spinelli, Francesco Aiello, Marcello D’Angelo, Egizia Scopelliti, Lorenzo Praticò, Adele Rombolà e Maria Marino sono diretti da Francesco Suriano e da Renato Nicolini; le scene sono di Aldo Zucco, le musiche curate da Evelina Meghnagi, i costumi di Milly Basile Rognetta e da Simona Sicari, mentre le luci sono di Gennaro Dolce e Iris Balzano.

Carlotta Tringali

10 Domande a… Paolo Mazzarelli


Paolo Mazzarelli

Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Paolo Mazzarelli di Compagnia Musella/Mazzarelli presente a Primavera dei Teatri con Crack Machine.

 

 

 

 

 

1. Come definirebbe il suo teatro?
Intanto non è un mio teatro ma è un nostro teatro, perché siamo in due quindi posso parlare solo per il 50%. Il teatro che io e Lino Musella cerchiamo di fare è un teatro che parla della realtà contemporanea attraverso scritture originali però anche un teatro molto basato sull’attore. Gran parte del nostro lavoro nasce in scena, quindi è un teatro che ambisce ad essere semplice, efficace, diretto e possibilmente divertente

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Tutto e niente. Non lo so, una domanda difficilissima… Il teatro di ricerca diventa sempre il teatro di non-ricerca negli anni. I grandi registi classici come Ronconi, Castri, all’inizio erano considerati teatro di ricerca. Quindi forse è semplicemente il periodo in cui si indaga il proprio modo di fare teatro, quando si sperimentano delle vie meno battute e più personali

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Direi esattamente questo

4. Crack Machine in una frase.
Un gioco a quattro personaggi che finisce con un crollo liberatorio, una piccola macchina a orologeria

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
Intanto un bellissimo luogo. Poi uno dei pochi luoghi coraggiosi e liberi che ci sono in Italia, diretto da persone che godono della massima stima possibile. Purtroppo noi lo viviamo da fuggiaschi, però, da quello che abbiamo potuto “annusare”, è un luogo di incontro e di scambio di opinioni. E poi è un’opportunità per mostrare il proprio lavoro a tanti addetti ai lavori che possono aiutarti a farlo vivere

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
John Cassavetes

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
La vita no, la visione del teatro sì. È forse Tre sorelle di Nekrosius, per la prima volta ho visto che si potevano fare cose a teatro che non avrei mai immaginato. Poi Nekrosius, come tutti i geni, ha creato una serie di cloni che lo hanno distrutto e banalizzato. Però in luce c’era qualcosa che è rimasto nei suoi lavori, che io amo molto, uno spostamento del senso dell’immagine, da un naturalismo e da un realismo che rende le cose più profonde, più doppie. Io amo molto David Lynch; non dico che fanno le stesse cose ma cercano entrambi di creare delle piccole rotture di senso e di coerenza, dei piccoli abissi che si aprono qua e là durante il loro lavoro.

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Lino Musella! (sorride, ndr) Sicuramente è l’unico che ha la voglia e la capacità di farla

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Nomadismo

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Intanto è rimasto in assoluto il più libero tra i mezzi di comunicazione, insieme a internet, il meno controllato, il meno invaso da meccanismi di potere di politica e, quindi, di controllo. Il teatro è un luogo dove si può rischiare più che altrove. Si può essere più arditi attraverso la forma con la quale si prova a comunicare un senso: nel teatro vale un po’ tutto, il non senso, l’astratto, gli elefanti con le ali… Un po’ come nel fumetto. Sono poche le arti in cui vale tutto. Si entra in gioco in quanto esseri umani; è più eccitante, per me che lo faccio da dentro, è più eccitante. Essere in ballo con il proprio corpo, con le proprie idee, le proprie fragilità, lo rende ancora più eccitante

 

Biografia di Compagnia MusellaMazzarelli
Esiste ufficialmente dal 2009 e nasce dall’incontro tra Lino Musella (diplomatosi alla Paolo Grassi di Milano, ha lavorato tra gli altri con Marcello Cotugno, Michela Lucenti, Walter Malosti, Virginio Liberti, Serena Sinigaglia) e Paolo Mazzarelli (diplomatosi alla Paolo Grassi di Milano, ha lavorato tra gli altri con Pippo Del Bono, Fura dels Baus, Cesar Brie, Eimuntas Nekrosius, Peter Stein). Dal 2010 entra a far parte della compagnia anche Luca Marengo in qualità di organizzatore. Dal 2008 ad oggi la compagnia ha dato vita agli spettacoli Due cani – ovvero la tragica farsa di Sacco e Vanzetti e Figlidiunbruttodio (premio In Box 2010) presentato nella scorsa edizione di Primavera dei Teatri. Crack Machine è il terzo spettacolo della compagnia. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)

10 Domande a… Peppino Mazzotta

Peppino Mazzotta

Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Peppino Mazzotta presente a Primavera dei Teatri con Radio Argo.

 

 

 

1. Come definirebbe il suo teatro?
Faccio un teatro d’attore. Ho sempre inseguito il concetto di attore medium, dove lo stile, la tecnica fosse una minima parte e dove si cercasse di essere un’antenna per rendere leggibile quello che normalmente non lo è ma che c’è (se non c’è un’antenna che lo catalizza non si vede). Essendo legato alla tragedia greca, penso a questo famoso hypocrisys, colui che rispondeva e diceva “mostra il sogno, rendi visibile a una platea di uditori qualcosa che fino a quel momento non lo era”; ecco la funzione medianica di antenna; in questa ottica la figura del regista può essere anche un elemento di disturbo: il cerchio medianico è quello fatto da un medium e da tutti quelli che tengono le mani unite (il pubblico). Un individuo che si mette fuori da questo cerchio potrebbe essere utile o potrebbe essere non utile.

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Non lo so, io non so come definire il teatro di nessuno. Hanno cercato tanti nomi… Penso che alla fine ci sia una differenza che si fa per ragioni di database; bisogna dare dei nomi e allora c’è il teatro classico e il teatro contemporaneo, poi più di questo non direi perché è difficile andare oltre.

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Non lo spiegherei. Io penso che anche chi affronta un testo classico, come può essere Tartufo di Molière, deve porsi un problema con il proprio spirito di ricerca che si attiva con quel materiale. Ora, lo spirito di ricerca ce lo hanno tutti, gli attori, i registi e anche le persone che non fanno questo lavoro. È una specie di tendenza che ha l’essere umano che riesce a ragionare su di sé e avere coscienza di sé. Quindi, quando si attiva lo si esercita e nel nostro caso si attiva spesso perché abbiamo una cosa da mettere in scena o un testo o una scrittura scenica… Io la ricerca la intendo così, quanto profondo è lo spirito di ricerca in te come individuo e quanto vuoi andare a scavare in questo tuo bisogno.

4. Radio Argo in una frase.
È la riscrittura de L’Orestea da parte di un poeta vivente e anche giovane perché ha 35 anni. Prende in considerazione quasi tutti i personaggi che entrano nella vicenda anche se non ci sono ma se ne parla, come Elettra ed Elena; per il resto i personaggi ci sono tutti.

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
È una realtà talmente consolidata che è inutile fare commenti. È uno dei festival più importanti e anche appetibili per chiunque fa questo mestiere, soprattutto in ambito di linguaggio “contemporaneo”. Sicuramente è uno dei festival a cui uno pensa subito o per primo quando deve presentare qualcosa al pubblico o alla critica. Poi – io sono calabrese – il fatto che sia qui in Calabria mi fa particolarmente piacere: abbiamo bisogno che ci siano persone che si impegnino a fare festival del genere perché è l’unico modo di entrare in contatto intanto tra di noi, poi anche con il pubblico – a parte con la critica che si incontra anche da altre parti. Insomma è molto importante, poi è organizzato molto bene.

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Nessuno, io non amo molto i registi; ci lavoro spesso e ci lavoro anche bene, ma non amo quei registi che vogliono fare in qualche modo i medici, che vogliono convincerti che per entrare nella loro idea devi capire che in te c’è qualcosa di sbagliato. Poi spesso lavoro con registi molto capaci che diventano stimolatori di processi con gli attori e questo mi piace molto. Se fosse un regista cinematografico la mia vita filmata e gestita da Kubrick non mi dispiacerebbe.

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Tartufo di Molière con la regia di Toni Servillo al Teatro Argentina di Roma perché è stato il primo impatto vero con la grande responsabilità in scena. Io facevo Tartufo, Toni era Orgone e io ero abbastanza giovane, avevo 27 anni. Lì ho capito quanta forza ci voleva per sostenere un certo tipo di responsabilità quando stai in scena, soprattutto quando hai un personaggio come Tartufo nel Tartufo di Molière: devi funzionare perché sennò tutto il resto… Mi ha cambiato la vita anche perché ho incontrato Toni che già era una figura importante nel teatro, era una persona che incontravi e ti rendevi conto che aveva un talento, una dote, un’intelligenza teatrale straordinaria che poi si è sempre più dimostrata negli anni. Poi l’altro spettacolo è Arrobbafumu, testo di Francesco Suriano, con cui sono venuto anche qui (a Primavera dei Teatri, ndr) ed è uno spettacolo in dialetto calabrese che ha avuto tanta fortuna, un testo veramente bello; abbiamo girato 5 anni e facevo il ruolo di una vecchietta calabrese.

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Io ultimamente faccio solo drammaturghi contemporanei da qualche anno, quindi già è successo. Ho fatto Tomba di cani di Letizia Russo, autrice giovanissima che poi ci hanno rubato gli inglesi perché è andata a scrivere per la Royal Shakespeare Company e che aveva vinto premi Ubu – c’era Franco Quadri che la amava molto. Poi subito dopo ho fatto il testo di Francesco Suriano, che è un drammaturgo molto molto bravo. Poi ho fatto il testo di Mimmo Borrelli, anche lui pluripremiato, dal titolo ‘Nzularchia scritto in dialetto napoletano arcaico, complicatissimo, tutto in endecasillabi. E ora Radio Argo che è un testo di Igor Esposito, un poeta napoletano.
Un po’ è un caso e un po’ me li vado a cercare perché ci tengo a fare la drammaturgia contemporanea; al di là di tutto, se poi viene bene o male, è importante che una comunità si confronti con quelle persone che sono delle antenne e che riescono a essere uno strumento di presenza sul presente; lo scrittore è questo. Poi se mi è piaciuto o non mi è piaciuto, se lo spettacolo era scritto malino o benino non importa perché senti la voce del presente, senti uno che lo fa di lavoro e che con la sua sensibilità riflette su quello che succede a lui in quel momento. Una comunità, oltre aver bisogno dei classici, che sono sempre degli ottimi maestri, ha bisogno anche di sentire che cos’è il presente. Poi una cosa molto curiosa: ieri ho visto quello di Bernhard (Il Presidente per la regia di Carlo Cerciello, ndr) ed è un testo che ragiona di potere, ragiona su un presidente dittatore che fa dei discorsi a un’ipotetica platea di uditori in cui si esprime sinceramente, si manifesta per quello che è. Casualmente Igor Esposito scrive praticamente una cosa sugli stessi temi, c’è un dittatore che parla… Significa che quando si sta nel presente coloro che hanno il compito o la vocazione – come gli scrittori – di ascoltare il presente, poi bisogna fare in modo che la gente li senta perché sono la Presenza e una comunità ha bisogno anche di questo. Per questo me li vado a cercare.

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Il teatro come sede della compagnia a me non dispiacerebbe, è una cosa che si sta tentando da tanti anni; tutti dicono che bisogna cercare di creare luoghi dove avvengono delle cose piuttosto che andare in giro. Ma ciò non può accadere in Italia, c’è un impedimento, perché l’Italia è molto democratica per ciò che riguarda il teatro: in ogni paesino c’è un teatro; spostare tutto nei centri e fare in modo che poi il pubblico si sposti come succede in tutta Europa – perché in Europa non c’è il teatro di giro – rischia di fare in modo che una quantità di popolazione nonostante abbia il teatro lì non riesce a vedere nulla. Altro motivo per cui non si fa perché al teatro di giro è vincolata un’economia e quindi bloccare quell’economia significa subire le resistenze di chi quell’economia la vuole viva perché gli serve. Il Paese è abituato fortemente a un altro tipo di dinamica, anche del pubblico; in Germania per vedere Stein il pubblico si sposta, si fa anche 300 km perché è normale; in Italia il pubblico non è abituato, deve essere un evento altrimenti non si sposta.

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Io sono di quelli che pensa che il teatro è morto ma perché è nato morto. La cosa che ancora, sempre di più, renderà il teatro importantissimo è il fatto che è una seduta medianica, è una cosa che avviene in quel momento, non c’è più riproduzione dell’arte attraverso il video, la pellicola, la foto, il suono; è una cosa che ancora avviene solo lì, se stai lì mi senti, in quel momento il mio cuore batte e nello stesso momento batte anche il tuo, se io ho un incidente tu vivi il mio incidente insieme a me… Appena finisce, è finito; lo conserva la memoria che è un pessimo magazzino – si modifica troppo rapidamente ed è troppo legata alla soggettività di ognuno –; diventa un evento della memoria, inizia e finisce un’esperienza. Fare un ragionamento troppo elaborato sullo stile, sulla questione formale del teatro è una cosa secondaria; il ragionamento si deve fare su come far sì che ci sia quell’accadimento; se questa cosa dell’accadimento viene a mancare allora il teatro non serve più ed è meglio il cinema che ha un linguaggio legato al presente perché è giovane ed è nato nel presente.

 

Biografia di Peppino Mazzotta
Peppino Mazzotta è nato a Domanico, Cosenza. Dopo lo spettacolo Illuminato a morte,  è alla sua seconda regia teatrale. A teatro ha lavorato come attore con Toni Servillo, Francesco Saponaro, Carlo Cerciello, Francesco Suriano  ed altri. Per il cinema ha lavorato come attore in diversi film tra i quali: Noi credevamo di Mario Martone, Cado dalle nubi di Gennaro Nunziante, Il pugile e la ballerina di Francesco Suriano. Per la televisione è il volto dell’ispettore Fazio nei film Il commissario Montalbano. Ha vinto diversi premi come miglior attore, tra i quali: Prima Fila – Salvo Randone 2003, Film Lab Festival 2005, Corto Viterbo 2007. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)

 

 

 

10 Domande a… Rosario Mastrota

 

Rosario Mastrota

Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Rosario Mastrota presente a Primavera dei Teatri con Fine.

 

 

 

1. Come definirebbe il suo teatro?
Un teatro semplice che possa arrivare a tutti

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Una grande trovata pubblicitaria

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Non credere a tutto quello che ti raccontano

4. Fine in una frase.
Speriamo che quello che provo a raccontare non accada mai a una persona

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
Una culla che mi ha dondolato nel tempo e adesso mi dà una possibilità

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Io

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
L’Orlando Furioso di Motus e Macadamia Nut Brittle di Ricci/Forte

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Forse Fausto Paravidino

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Nomadismo

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Il teatro è assolutamente magico. Lo fa essere universale il fatto che lo spettatore – per quello che mi riguarda – deve entrare in simbiosi con quello che accade sul palcoscenico; se si verifica questo, accade la magia del teatro

 

Biografia di Rosario Mastrota
Si forma presso i Corsi di Formazione Teatrali di Scena Verticale. Rosario Mastrota scrive e dirige per la compagnia da lui fondata, la Compagnia Ragli: OtelloSugarfree, Nuovo Ordine Mondiale, Ragli, L’imperatore, Fine. Appartengono al gruppo i giovanissimi Mauro Conte, Dalila Cozzolino e Laura Garofoli. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)

10 Domande a… Antonio Tintis

 

Antonio Tintis

Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Antonio Tintis presente a Primavera dei Teatri con Il paese delle ombre.

 

 

 

 

 

 

1. Come definirebbe il suo teatro?
Presuntuosamente necessario

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Una categoria che ha stufato

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Per il luogo comune è: un teatro che non ha tempi produttivi dove si butta tanto materiale; realmente: il teatro di ricerca è un teatro che viene alimentato della propria necessità.

4. Il Paese delle ombre in una frase.
Il concetto di colpa

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
Una delle poche realtà che combatte, resiste ed è necessaria

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Nosferatu? Seriamente: Marthaler

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
La bottega del Caffè con Paolo Bonacelli, nel senso che ho capito quello non volevo fare

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Murakami

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Basta dare alibi a chi ci governa… Quindi un teatro dove poter lavorare. Il nomadismo è una scelta, non è un’imposizione democratica

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Vive sul momento quindi hic et nunc, vive sul respiro di un pubblico che non esiste più. Dico vive, ma non vive più, il teatro è appeso ad un filo, chi avrà la voglia e l’organizzazione mentale per portare avanti un mestiere andrà avanti.

 

Biografia di Antonio Tintis
Diplomato come attore presso l’Accademia “Silvio D’Amico” di Roma nel 2000, ha lavorato nella compagnia “La Fiera” allestendo diversi spettacoli in Italia e all’estero. Ha fatto parte della compagnia permanente del Teatro Stabile di Torino e dell’ensemble del Teatro Due di Parma. Ha lavorato con numerosi registi quali Longhi, Le Moli, Cavosi, Farau, Colavero, Dall’Aglio, Viktor Bodo e ha collaborato come assistente alla cattedra di regia presso l’Accademia “Silvio D’Amico”. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)