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Be Normal! O forse no?

Recensione a Be Normal! – di Teatro Sotterraneo

foto B-Fies (Alessandro Sala)

foto B-Fies (Alessandro Sala)

“Nella società c’è posto solo per uno dei due: voi o il vostro demone. A voi la scelta”. E la scelta pare che Teatro Sotterraneo l’abbia fatta con una certa chiarezza, in questo Be Normal!, spettacolo – parte del più ampio Daimon Project – tutto orientato alla devastazione del proprio daimon, cioè le proprie ambizioni, sogni, destini.
Però, come in quasi tutti i lavori di questo gruppo, le cose non sono così semplici come sembrano. Perché, da un lato, tutti i micro-episodi di cui è composto Be Normal! si fondano sulla messa in discussione, in ridicolo e alla porta dei daimon (voglio fare l’artista, sogno di fare l’astronauta…), che non possono sopravvivere in tempi di crisi come questi, in cui appunto si fa già fatica a sopravvivere in senso stretto; dall’altro, è proprio attraverso l’arte che Teatro Sotterraneo sceglie di raccontarlo. Come se il punto di equilibrio fra l’influenza del proprio daimon e le condizioni reali, fra le proprie ambizioni e la sopravvivenza fosse invece un punto di disequilibrio che vibra della tensione che si innesca fra i due poli.

È qualcosa di fortemente identitario, radicato, determinante. L’esito è quello di un autoritratto generazionale spietatissimo. Dove i giovani sono costretti ai lavori più umili, mentre i potenti li rapinano del loro presente e del loro futuro; dove la gerontocrazia impera a scapito delle nuove generazioni; dove queste ultime si trovano spiazzate, bloccate in un eterno presente che non consente possibilità di crescita; e dove l’aspirazione alla realizzazione dei propri sogni e ambizioni viene esclusa a priori (c’è addirittura il corso, supportato da vignette videoproiettate, su come uccidere il proprio daimon fin da bambini).

L’esagerazione è la norma in questo spettacolo. Ma se sembra grottesca la scena del colloquio di lavoro gestita da una voce computerizzata che, alla fine, per la “prova pratica” ordina al candidato di uccidere un ostaggio, la cosa non risulta poi così surreale, se si pensa che ai colloqui vengono richieste le competenze e disponibilità più impensabili, anche oltre ogni ragionevolezza, buon senso e magari anche limite di legalità. E se può parere eccessivo che i rappresentanti della gerontocrazia imperante vengano scelti fra Paperon de’ Paperoni e la regina Elisabetta (pannelli presto abbattuti dalle palline scagliate dal pubblico), sarà forse utile fermarsi un attimo a riflettere che si tratta di un potere che domina in concreto, ma anche e soprattutto nell’immaginario (da Sophia Loren a Babbo Natale).

Ad ogni replica, lo spettacolo coinvolge un artista come “ospite speciale”. Gli vengono poste alcune domande-chiave: che lavoro fai? quanto guadagni? riesci a mantenerti col teatro? È un’indagine sociologica di un certo interesse. Ma, dopo, la situazione si ribalta: siamo in troppi – constata Sara Bonaventura – possiamo risolvere il problema facendo qualcosa insieme; ma non nel senso comune del termine: l’ospite di turno deve sfidare uno degli attori alla roulette russa, ne rimarrà uno soltanto e forse così, nel piccolo e incrinato mondo dell’arte e del teatro, ci sarà più spazio per gli altri.
E sembrerà atroce il passaggio in cui una giovane figlia stressata ingozza di fretta la povera madre, ormai scheletro in carrozzina, o troppo caricata la storia dello stuntman licenziato che sfascia una sedia; ma a pensarci bene non sono situazioni poi così distanti dalla realtà, e nemmeno troppo “deformate” o rimesse in forma ai fini del teatro.

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foto B-Fies (Alessandro Sala)

Be Normal! intreccia immagini e azioni surreali, così spietatamente eccessive fino a sfumare amaramente nel grottesco (e dunque nel reale, più che nella finzione), sorta di ready-made atroci che si rivoltano contro la realtà che li ha creati; riflessioni di un certo respiro socio-culturale, frammenti di indagini statistiche con tanto di grafici e proiezioni e anche qualche momento di rara poeticità. C’è altrettanta disarmante potenza nella mappa che descrive con un’animazione video l’invecchiamento della popolazione mondiale, prima del corso che istruisce su come affrontarla, quanto nel dialogo fra due casse che si chiedono come sarebbe lavorare al concerto dei Rolling Stones invece che al Teatro TaTà, e si preoccupano del futuro, del rischio perenne di non essere all’altezza e di venire sostituite (ma “non servono pezzi di ultima generazione – constata una delle due – perché siamo noi l’ultima generazione”).

Be Normal! è soltanto una giornata come le altre, con un orologio che ogni tanto ricorda il passare del tempo, il sunto di  un’Apocalisse quotidiana che bene o male ci si trova ad affrontare tutti i giorni per davvero. Comincia con un messaggio in segreteria lasciato da Shakespeare, che con forte accento inglese consiglia ai Sotterraneo di smettere di fare teatro; finisce con una coppia che sclera (apparentemente) perché non ha i soldi per ordinare la pizza a casa e con Perfect day di Lou Reed.

foto B-Fies (Alessandro Sala)

foto B-Fies (Alessandro Sala)

Quello di Teatro Sotterraneo sembra quasi prendere le forme di un teatro-inchiesta costruito per con il pubblico. Però è un teatro che non rinuncia allo spettacolo, ma che piuttosto ne usa gli strumenti per indagare la realtà e allo stesso tempo usa la realtà per fare spettacolo. Insieme alla scelta di un tema caldo a livello politico e socio-culturale, è presente con evidenza una ricerca linguistica di tutto rilievo, visibile ad esempio al livello drammaturgico.
Il testo esplode in ogni direzione oltre quelle consuete e si appropria di qualsiasi supporto espressivo. Non ci sono solo le parole da dire, espresse dagli attori; ci sono quelle delle canzoni, cantate o meno; i sopratitoli e le didascalie, quindi su un piano visivo; ci sono le voci registrate, computerizzate, automatizzate; e poi, quella potente del pubblico, su cui ultimamente sembra concentrarsi molto il lavoro Sotterraneo (non tanto nella direzione ormai trita e vana della libertà co-autoriale, ma ragionandoci proprio – sembrerebbe – come elemento drammaturgico in senso stretto). È una parola totale quella con cui sono scritti e rappresentati i testi di questo gruppo, che invade ogni livello della scena, attinge stimoli dal mezzo con cui viene veicolata e assume nuova forza dalla sua declinazione in luoghi e supporti altri rispetto alla parola detta (su cui comunque viene fatto un lavoro di spessore).

E se pure – per la scelta di un tema così caldo, così noto, oppure per i linguaggi di un certo disincanto post-pop con cui lo si affronta – qua e là si possa cogliere qualche rischio, c’è da rilevare il coraggio con cui questi artisti scelgono di parlare apertamente di questioni del genere, in maniera profondamente irriducibile, senza scampo e senza scrupoli (anche per se stessi). Alcuni diranno che è un discorso triste e amaro, magari già sentito; oppure, al contrario, si può pensare che è uno sguardo cinico e spietato; forse la ricchezza di questo approccio al teatro sta nel mezzo, fra l’irriducibilità con cui si guarda al mondo in cui si vive (quindi anche a se stessi, a noi stessi) e la necessità di raccontarla in scena (anche correndo il rischio di toccare nervi scoperti, temi caldi, questioni all’ordine del giorno su cui tanto è stato detto). In ogni caso, quello di Teatro Sotterraneo è un teatro che si assume la responsabilità di affrontare il proprio tempo, dentro e fuori dal teatro e dai suoi linguaggi. E di parlarne in pubblico senza mezze misure, in tutta la sua complessità. Il che, in questi anni, è già qualcosa di importante, che fa di molto la differenza.

Visto e rivisto a Meinherz – Drodesera 2013 e StartUp 2014, Taranto

Roberta Ferraresi

 

 

 

 

Per approfondimenti:

Daimon Project: intervista a Teatro Sotterraneo a cura di Elena Conti e Carlotta Tringali

#survival la pagina dedicata a Be Normal! su Dreamcatcher (progetto realizzato dal Tamburo con WorkOfOthers per Meinherz – Drodesera 2013, festival di Centrale Fies)

Darwin e la visionarietà di Teatro Sotterraneo

Recensione a L’origine della specieTeatro Sotterraneo

La Terra, l’unico corpo planetario del sistema solare adatto a sostenere la vita, vacilla. Lo dicono media, profezie e tesi catastrofiste. Lo lasciano intendere le relazioni della Commissione Europea e l’attenzione che viene posta al problema dell’ambiente. Ma non solo. Vi sono stragi, devastazioni, uomini che uccidono altri uomini. Vi sono correnti scientifiche, artistiche e filosofiche che hanno posto al centro delle loro riflessioni l’involuzione dell’uomo. In fondo lo stesso naturalista Charles Darwin parlava diuna lotta continua per la sopravvivenza all’interno della stessa specie. In un percorso a ritroso, dalla fine all’origine, Teatro Sotterraneo si confronta con il trattato darwiniano, ponendo l’attenzione sulla finitezza dell’uomo e, di rimbalzo, sulla società contemporanea.

Il dittico creato dalla compagnia, a partire da Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie e conclusosi con L’origine della specie, lancia l’ennesima sfida allo spettatore e alla sua libertà interpretativa, approfondendo ulteriormente la ricerca perseguita dal collettivo nella sfera della ricezione. L’opera di Darwin viene riletta, elaborata e ricontestualizzata dalla drammaturgia originale di Daniele Villa con uno slittamento temporale che catapulta lo stesso Darwin nella nostra epoca. Il lavoro, coprodotto dallo Stabile della Toscana, prende avvio da una simulazione, da una riproposizione dell’accaduto sulla quale si era già soffermata la compagnia con Dies irae e in cui la storiografia veniva esplicata nella sua fallacia e parzialità. Ciò che diede inizio all’Universo, il Big Bang, non viene rappresentato nell’illusoria prima esplosione, bensì l’accaduto è ricercato e ricreato in laboratorio da un gruppo di scienziati. Tramite l’ausilio di proiezioni e altre tecnologie, come quella di un programma informatico che adotta il meccanismo dei videogiochi, Sara Bonaventura, Iacopo Braca e Claudio Cirri procedono alla creazione della Terra. Dapprima viene introdotta la specie vegetale, poi animale, via via fino all’intelligente e curiosa apparizione dell’uomo in cui creazionismo ed evoluzionismo si incontrano e sembrano sopravvivere entrambe allo scontro. Adamo ed Eva attraversano l’evoluzione dell’uomo, dalla scimmia all’homo erectus, fino alla conoscenza e all’uso del linguaggio. I presupposti fondamentali della teoria evoluzionistica si susseguono. La mutazione e la selezione si sviluppano nella figura di un panda, un enorme peluche. L’ultimo Panda sulla Terra, vittima impotente della selezione, vuole porre fine alla sua vita. A dissuaderlo da questo suicidio, giunge Mickey Mouse mostrandogli come lui si sia adattato alla selezione naturale modificando il suo aspetto con il passare del tempo. In questa divertente ma acuta lettura dell’umanità, la figura di Darwin approda in scena con la sua barba bianca, in un’iconografia riconoscibile e popolare. Come figura mistica la sua presenza si limita all’apparizione, nessuna parola gli è concessa, solo un confronto con altre figure di epoche successive che hanno convissuto e si sono scontrate con le sue teorie come Marx, Hitler, Papa Wojtyla o Andy Warhol. Esposto tutto questo si può procedere alla distruzione della Terra, una fine che con coerenza drammaturgica e storica viene determinata dall’uomo, dalla sua presa di coscienza che la vita non può essere eterna. Gli scheletri umani vengono sostituiti da altre forme di vita e che queste siano aliene o meno, l’evoluzione continua.

Anche se sono stati sperimentati nuovi linguaggi più o meno funzionali (come nel caso del video in cui appaiono forse eccessivi gli accostamenti e le proposte, dal videogioco all’animazione fino al documentario), la visione de L’origine della specie è un’immersione totale nella poetica di Teatro Sotterraneo. L’importante incontro con la “stabilità” teatrale sembra avere trattenuto parte dell’ironia caratteristica del gruppo ma la scena è stata comunque invasa dalla loro energia. Riproduzione, mutazione e selezione delle componenti artistiche di Teatro Sotterraneo.

Visto al Teatro Fabbricone, Prato

Elena Conti