Recensione a Shakespeare/Venere e Adone – di Valter Malosti
Astrattismo e atemporalità. Una scena essenziale, che rimanda a nessun contesto, a nessun luogo. Due figure abbracciate dal fondo del palco si avvicinano, ma senza muoversi, al boccascena. Sono trasportate, traslate da una piccola pedana posta su un binario: passano da una condizione oscura, dal loro essere ombre al farsi uomini, al divenir carne. Ma non sono loro a governare questo meccanismo; è piuttosto il fato. E loro sono uomini, appunto. Con tutto quello che ne consegue: fisiche pulsioni, erotismo, passione, sangue, violenza e morte. Venere e Adone, poemetto erotico-pastorale scritto da William Shakespeare agli arbori della sua carriera nel 1593, viene restituito dal regista-attore – e anche traduttore in questo caso – Valter Malosti, che ne incarna l’essenza. Unico ad avere la parola durante tutto lo spettacolo, il regista – di recente vincitore del Premio Ubu per la migliore regia con Quattro atti profani – con pantaloni in pelle, camicia con tanto di volant in petto e trucco al volto è il narratore, ma anche la dea dell’amore, Venere, scissa e consumata da questa focosa passione per l’efebico Adone – il ballerino Daniele Trastu – che diventa un pupazzo tra le sue braccia. Colpita da una freccia di Cupido per sbaglio, questa dea imponente trattiene il suo amato, lo cinge e lo solleva, lo bacia e lo accarezza: e Adone silenzioso si fa manovrare, incapace di uscire dal vortice tumultuoso di una passione incontrollabile. Perché «Venere lo domina con la forza, non con il desiderio». Adone è un manichino, troppo fanciullo per esprimere un proprio volere: anche i suoi pochi movimenti – ben riuscita e suggestiva la coreografia di Michela Lucenti – risultano plastici e rigidi. Ma la storia vuole che Adone, spaventato da questo amore violento, scappi e durante una caccia venga ucciso da un cinghiale. Solo nella fuga il suo corpo si libra verso una scioltezza, in alcuni momenti rapsodica.
I versi di Shakespeare si trasformano nella traduzione di Malosti e acquistano, nonostante un contenuto pregnante, una tonalità che veicola leggerezza; ritrova negli accenti napoletani allo stesso tempo calzanti e delicati una musicalità che cattura lo spettatore fino alla fine dello spettacolo. Malosti offre un’interpretazione originale in cui mescola le lezioni di personalità rilevanti come Enzo Moscato, Pier Paolo Pasolini o Testori; il suo è un impasto ben amalgamato, avvolto in una delicatezza che sfiora. Una storia d’amore che anticipa la sua tragicità nel suono curato da GUP Alcaro e nelle musiche inquiete e di malinconico presagio: notevole la ricerca dello stesso Malosti che abbraccia esperienze sonore diverse come quelle barocche di Purcell e Blow, passando per Lynch e Ligeti fino ad arrivare alle melodie meccaniche-elettroniche di Nono, Stockhausen e Maderna solo per citarne alcuni. Anche la scena di Paolo Baroni fatta di semplici teli si carica di inquietudine con il potente gioco di luci di Francesco Dell’Elba. Una poesia che lascia malinconici e che stona nel finale, quando al momento degli applausi tutte le luci si accendono e una canzone dal ritmo frizzante ed energico sembra trasportare il pubblico lontano da quel binario iniziale sospeso e astratto, come se si ritrovasse piombato all’improvviso in una serata da music-hall.
Visto al Teatro Toniolo, Mestre
Carlotta Tringali