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“Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra”

Il Teatro Fondamenta Nuove chiude la sua stagione con l’ultimo studio, quasi un’anteprima, di Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra. È il nuovo lavoro di Silvia Costa con Giacomo Garaffoni, Lauda Dondoli, Sergio Policicchio, che – dopo la messinscena – hanno incontrato il pubblico del teatro veneziano. L’occasione è quella – insieme alla compagnia – di approfondire il processo compositivo, le scelte artistiche, le modalità di sviluppo e trattamento drammaturgiche e sceniche alla base di questo spettacolo, finalista al Premio Scenario 2013 e al debutto a inizio giugno al Festival delle Colline.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Il titolo sembra quasi una domanda. Così, anche tutto lo spettacolo: è un mistero, sia in senso generale che nello specifico delle singole scene e azioni. Nelle note, si legge dell’ispirazione a un racconto di Carver: «è come se ci chiedessero di descrivere a un cieco com’è fatta una cattedrale». È una frase che racconta di una tensione asintotica, vibrante proprio anche della sua impossibilità di compiersi; che forse implica uno sforzo sempre più estremo, tanto quanto l’obiettivo si allontana.
C’è una condizione di mistero, di enigma, di latenza che impregna tutto lo scorrere dello spettacolo. I quattro performer sono sempre di spalle, i volti si vedono di rado. Agiscono su un quadrato bianco, fatto di pavimento e due pareti di fronte al pubblico, che accoglie pochissimi oggetti. Parlano di cose che ci sono e non ci sono; si muovono in modo naturale ed eccentrico, con azioni esplicitamente simboliche o altrettanto nettamente decontestualizzate; si riferiscono a fatti comprensibili o meno, cui lo spettatore può accedere secondo la propria capacità immaginativa.

Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra è incredibilmente concreto, fondato sulla materialità delle piccole cose, sulla matericità dei gesti, sulla quotidianità dei dialoghi, sulla normalità degli abiti. Poi, c’è qualche intrusione estrema (di senso, di figura, di suono). Queste, insieme alla tensione tanto insistita e vibrante alla (presunta) normalità del quotidiano, provocano un senso di indeterminatezza, di astrazione. Le tematizzazioni sono quelle consuete dell’immaginario narrativo moderno, a volte insistitamente borghesi e post-borghesi: gallerie d’arte (invisibili) e interni domestici, questioni di coppia e di amicizia, scontri e legami, malintesi e abbandoni. Si può pensare tanto alla drammaturgia nordica otto-novecentesca, alla sua dirompente irrequietezza verso i canoni sociali, quanto a tutto l’immaginario post-seriale e post-mediale che si ripropone in campo cinematografico e televisivo negli ultimi anni; a Ibsen e al teatro dell’assurdo come a Lynch.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Si respira un senso di inquietudine, come se ci fosse sempre qualcosa di predisposto a incrinare la delicatezza degli ambienti e la “normalità” degli equilibri; Silvia Costa, nell’incontro dopo lo spettacolo, parla dell’intenzione di lavorare su «una struttura geometrica e sfondarla dal di dentro». E, in effetti, è quello che accade in questo lavoro, sia al livello delle singole scene che in generale sul più ampio piano compositivo. La dialettica fra iperrealtà e surrealtà è una cifra di grande interesse drammaturgico, dal punto di vista tematico: questioni irriducibilmente umane, emotive, come l’amore, la morte, il tradimento, da un lato sono concretizzate nella minutezza dei dettagli, in gesti piccoli e netti, in dialoghi in un certo senso convenzionali, che accadono normalmente e usano spesso un linguaggio comune; dall’altro c’è un contrappunto di elementi stranianti, tanto a livello linguistico, quanto compositivo e visivo. A fianco di situazioni tutto sommato normali, temperature emotive, fragilità del vissuto, si stagliano elementi che debordano continuamente, a richiamare la potenza astratta della grande avanguardia (ad esempio Malevic).
Sembra una questione di proporzione. E dell’energia che si innesca nello scarto fra un livello e l’altro. L’artista, in un’intervista concessa al Tamburo di Kattrin l’anno scorso, in occasione del festival B.Motion (leggi l’articolo), parla in proposito di “realismo dell’immaginazione”.

Ma un punto di interesse di questo lavoro, oltre il piano scenico, si trova sicuramente sul livello della composizione drammaturgica. Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra è un lavoro costruito con precisione sul susseguirsi di una quindicina di scene distinte, apparentemente slegate fra loro. Fra l’una e l’altra si tessono dei fili netti e sottili, a partire da alcuni innesti che portano da un ambiente al dialogo successivo, da un personaggio alla prossima scena.

© Matteo de Mayda

© Matteo de Mayda

Entrano i performer, la situazione prende vita, a volte si innesca un dialogo o una qualche forma di contatto; poi un elemento s’incrina e tutto si scioglie. «È come se – constata Silvia Costa nell’incontro dopo lo spettacolo – quando si comincia a raccontare, la storia si sfaldasse fra le mani». C’è indubbiamente questo senso di sgretolamento permanente, che, insistito e approfondito di scena in scena, diventa una tensione alla compiutezza continuamente tradita. La fine (e il fine) rimane un orizzonte inavvicinabile, incombente ma impossibile da mettere a fuoco con esattezza.
L’artista parla di una logica “a matrioska”. C’è una struttura lineare cadenzata ritmicamente in modo piuttosto netto con le piccole scene; ma c’è anche la questione dei semi che le legano, degli innesti che si sviluppano, dei sentieri che si interrompono; e, più in generale, la linea appunto misteriosa della scatola che nasconde un’altra scatola, che ne cela un’altra, un’altra, e poi un’altra ancora: lo spettacolo si apre con un cubo che si rompe, il centro del fuoco prospettico è occupato quasi per l’intera durata da un’appuntita architettura suprematista, costruita e smontata dai performer stessi, e, a pensarci bene, c’è il grande (mezzo) cubo bianco che contiene tutte le azioni.

Anche qui, è una questione di proporzione o di scala. L’andamento compositivo possiede una modularità e una pluri-livellarità capace di tenere viva la netta geometria che ritma lo spettacolo, di mantenere insieme in una percezione unitaria la linearità del percorso narrativo e la profondità delle singole scene. Come del resto sul piano tematico e linguistico, dove convenzione e avanguardia, emozione e estetica, normalità e inquietudine lavorano insieme su piani diversi. Nel complesso, probabilmente, alla costruzione di un dispositivo e al suo tentativo di messa in crisi dall’interno, al continuo svelamento e rivelamento (sul piano emotivo e linguistico, drammaturgico e tematico, del senso e della scena).

Roberta Ferraresi

 

Il ricatto della bellezza, Marta Dalla Via racconta il suo teatro tra identità e comicità

Il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia

Il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia

Nata in un piccolo comune di montagna in provincia di Vicenza, Marta Dalla Via si è formata come attrice tra Bologna e Parigi. Le doti comiche e la capacità imitativa sono gli strumenti che maggiormente utilizza sul palco, spesso per parlare proprio della sua terra d’origine, quel Veneto da cui è andata via e a cui guarda con occhi nuovi.
Questa primavera, Marta Dalla Via è stata al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, per un progetto di residenza-spettacolo: una particolare combinazione fra messinscena, ricerca e incontro col pubblico che ha segnato la tenace attenzione al contemporaneo dello spazio lagunare e che ormai da anni ne distingue l’attività.

Il tuo viaggio narrativo sul Veneto è cominciato con Veneti Fair, proseguito con Piccolo mondo alpino e non ancora terminato, dato che stai lavorando assieme a tuo fratello Diego a un nuovo spettacolo che è ambientato sempre in questa terra. Perché hai deciso di raccontare la tua regione e a che punto è arrivato questo tuo percorso?
Non è stata una scelta. Non ho deciso un giorno di parlare di Veneto. È cominciato tutto con una risata, quando un amico ha confuso la rivista di moda con un periodico per veneti. In quel momento ho cominciato a pensare che una carrellata di personaggi veneti sarebbe stata divertente da portare in scena. Avevo voglia di usare le mie caratteristiche di attrice imitativa e comica, sapevo di poterle sfruttare bene e mi sono resa conto che, essendoci cresciuta, conoscevo benissimo la materia. Io credo che il luogo comune nord-est, un posto che nessuno sa bene cosa sia, un luogo che forse nemmeno esiste ma che è circondato da un notevole immaginario, sia un po’ come una città mitologica. Secondo me, la sua storia, soprattutto economico-sociale, vale la pena di essere studiata; e io possiedo alcuni strumenti, non ultimo la lingua e ovviamente l’esperienza. In Veneti Fair ho lavorato con la regista Angela Malfitano partendo esclusivamente da improvvisazioni e canovacci, scrivendo poco e solo in un secondo momento. Piccolo mondo alpino invece ha avuto un tempo di scrittura molto lento, fatto a quattro mani con Diego, mio fratello. Lo spettacolo che ne è nato è frutto di continuo confronto e talvolta dissenso tra diverse sensibilità ed è quindi più complesso e meno scanzonato rispetto a Veneti Fair. Il primo spettacolo era una serie di piccoli ritratti sociali, il secondo invece lo definirei un ritratto ambientale; il terzo, di cui ancora non posso parlare, è un punto di vista sul rapporto con l’economia, tema cruciale e identitario della nostra regione.

Procediamo a ritroso nel tempo, partendo dal presente. Al momento, stai anche costruendo uno spettacolo a partire dal testo di Tiziano Scarpa La cinghiala di Jesolo, che debutterà il 23 marzo in anteprima a Siena. La residenza al Teatro Fondamenta Nuove si concentra proprio su questo lavoro.
Avevo letto questo racconto di Scarpa e mi era piaciuto molto. Lo definisco uno Scarpa prima maniera, metropolitano, sexy e divertente. È la storia di un ragazzo appena uscito dal riformatorio che si ritrova a lavorare in una colonia per bambini a Jesolo, perennemente controllato da una figura imponente: la Cinghiala, appunto. La sua vicenda misteriosa si scopre col passare dei giorni che trascorre in questo luogo chiuso, con regole e dimensioni a misura di bambino. Credo mi abbiano attratto più cose in questo testo: la voglia di confrontarmi con un altro tipo di scrittura, non autobiografica, e la possibilità, allo stesso tempo, di ritrovare alcuni punti in comune con quello che ho fatto prima; c’è il Veneto ovviamente, ma soprattutto c’è un posto ristretto e circoscritto, legato alla stagionalità, com’era in Piccolo mondo alpino.

"Piccolo mondo alpino" - foto di Sara Rizzo

“Piccolo mondo alpino” – foto di Sara Rizzo

Hai definito Piccolo mondo alpino, spettacolo che porti in scena qui al Fondamenta Nuove, il ritratto di un luogo, di un ambiente.
Siamo tra Vicenza e il Trentino, in una piccola località di montagna in cui si parla il dialetto tipico del vicentino nord. Una zona quindi completamente delimitata, riconoscibile soprattutto per chi sa bene le mille sfumature linguistiche che in questa regione, come in gran parte d’Italia, variano con lo spostarsi di pochissimi chilometri. Siamo in un posto in cui teoricamente il rapporto tra uomo e natura è simbiotico, vitale e armonioso. Ma siamo anche in una località turistica in cui il tempo è scandito dalle stagioni e dai fuori-stagione – ed è proprio questa ciclicità che mi interessa. La stagione, sciistica o estiva che sia, è una messa in scena: è il momento in cui tutti recitano la parte del montanaro felice, con l’abito tipico, il cibo locale, la cortesia timida e la proverbiale riservatezza. Tutto viene fatto per l’occhio dello spettatore e, nel momento in cui la stagione finisce, le giornate perdono di senso. In questi posti, il rapporto con il turismo è di amore e odio, di dipendenza e di repulsione. Mi sono sempre interrogata sul perché non si sfruttino i fuori-stagione per migliorare questi luoghi e la vita di chi li abita, perché non si faccia qualcosa che sia indipendente dall’occhio dell’esterno. È un dato di fatto, però, che nulla si fa: semplicemente si aspetta che il tempo passi e arrivi la prossima stagione, senza riuscire mai a costruirsi davvero un’autonomia, un proprio senso di esistere. È stato per me illuminante il saggio Tristi montagne di Christian Arnoldi, che raccoglie molti fatti di cronaca avvenuti in tutto l’arco alpino: dall’incesto all’atto violento, dal diffuso abuso alcolico al suicidio. Arnoldi racconta di un senso di colpa diffuso tra chi vive in posti belli e questa a me sembra una chiave di lettura molto interessante. Tutti ti dicono che vivi in un paradiso, che è dunque ovvio che tu sia felice, eppure tu non stai bene e non ti senti in diritto di esprimere questo malessere. Volevo raccontare questa sensazione di ricatto della bellezza e dare voce a una difficoltà che si rende invisibile con l’arrivo della neve e dei turisti, ma che scandisce molta vita alpina.

"Piccolo mondo alpino" - foto di Sara Rizzo

“Piccolo mondo alpino” – foto di Sara Rizzo

Facciamo un passo indietro e torniamo a Veneti Fair, in cui porti in scena tanti personaggi, prototipi, luoghi comuni sul Veneto spesso chiuso, ignorante, razzista. Come reagisce il pubblico a teatro? Quali le differenze tra risate di veneti e non?
Tutti ridono e poi si sviluppa una dinamica che porta lo spettatore a discostarsi. Al sud pensano che i contenuti riguardino solo il nord, al nord pensano che si parli solo del Veneto, in Veneto si circoscrive la critica alla provincia di Vicenza e a Vicenza si additano i vicentini del nord. Spesso mi si chiede perché abbia scelto di usare il mio dialetto e io rispondo che è stata una decisione assolutamente naturale, conseguente ai miei intenti: volevo portare lo spettatore a vedere una parte della mia casa, una parte del posto che mi identifica, pur con tutte le sue contraddizioni. Certo i veneti ridono un po’ di più, perché la comprensione è più immediata, ma ho sfumato la lingua in modo da renderla intellegibile a tutti.

Approfondiamo questo aspetto dell’identificazione. Usare il prototipo e il pregiudizio consente al pubblico di non riconoscersi compiutamente, lo mette al sicuro, lo salva in partenza?
Nessuno vuole riconoscersi del tutto nei personaggi raccontati e mi rendo conto che questo spettacolo consenta di non farlo, proprio perché uso delle maschere, dei tipi. In fondo, questo lavoro parla dei veneti solo per caso, solo perché io sono veneta e conosco questo dialetto. Non l’ho costruito per insegnare qualcosa ai veneti, ma pensando alle mie capacità narrative e sfruttandole per raccontare esperienze che mi appartengono. Credo che, attraverso la risata, attraverso il cabaret, forse non si colgono a pieno la gravità e le sfumature drammatiche, ma qualcosa viene instillato, senza che, sul momento, lo spettatore se ne accorga. Ho voluto raccontare una storia, costruire dei personaggi e questo comporta necessariamente un punto di vista anche morale sull’oggetto raccontato.

Intervista a cura di Margherita Gallo

Un Macbeth freudiano e pulp per De Rosa

Recensione a Macbeth – regia di Andrea De Rosa

foto di Bepi Caroli

«Un classico – dichiarava Italo Calvino in un celebre articolo dell”81 – è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Esaltato come croce e delizia dall’avventura postmoderna, questo è il destino riservato in scena alle opere di Shakespeare, così come al suo Macbeth, opera che – soprattutto rifratta nei grandi traumi del “secolo breve” – ha fatto tremare (e riflettere) generazioni. Il re più nero dell’opera del Bardo riempie di sé, della propria ambizione e dei propri massacri la tragedia più breve dell’opera shakespeariana; storico come il Giulio Cesare ma rapito dagli incantesimi dell’individualità come le creature del Sogno, più tiranno di Riccardo III, più ambiguo di Amleto e più sanguinario delle figlie di Lear è stato il rovello d’eccellenza per i tanti pensatori e registi che vi si sono accostati: Visconti, Kurosawa, Orson Welles e Polanski; Jarry, Ionesco e Heiner Müller. C’è chi, naturalmente, c’ha visto una straziante premonizione delle dittature novecentesche e dell’inesorabilità della catena di delitti e sopraffazioni di cui è costituita la Storia: dal Grande Meccanismo di Jan Kott, fino a George Orwell, che identificava la potenzialità degenerativa del potere, più che con Hitler e Napoleone, con l’individuo comune, anche il più piccolo e anonimo, che, stuzzicato nella propria ambizione, non ci pensa due volte a commettere l’errore, pensando che poi la propria sete possa placarsi e tutto tornare come prima. C’è, invece, chi ne ha fatto una tragedia dell’individuo, tutta calibrata su dinamiche interiori: Strehler sicuramente, ma anche Antonio Gramsci e, naturalmente, Freud, che inquadra la tragedia nei termini di una frustrazione interna alla sterilità della coppia Macbeth. In tale pluralità di visioni e riferimenti, è questa l’interpretazione a cui si riferisce, con decisione, il nuovo allestimento di Andrea De Rosa, che già aveva frequentato Macbeth nella versione operistica verdiana.

È tutta una storia di questa coppia senza figli – mai nati o morti non è dato saperlo –, che, appunto per via della sterilità, è costretta a riversare la propria ambizione sull’avidità di potere, commettendo qualsiasi delitto efferato pur di riuscire. Grumi di nera e vivida tensione tornano a emergere – complice la stralunata interpretazione di Giuseppe Battiston nel ruolo del protagonista – in un crescendo che muove da un incipit piuttosto neutrale per riconvertirlo poi a una tensione tragica che arriva soltanto a singhiozzo: esaltata in alcuni passaggi – la scena che precede l’omicidio di Re Duncan, in cui Battiston dialoga con se stesso in un contrappunto di luce e buio – e alleggerita, quasi disinnescata, in altri. Perché c’è da dire che la cifra stilistica di questo spettacolo si risolve in una impostazione che ammicca al pop, passando dal pulp fino allo splatter: le streghe della profezia sono tre bambolotti parlanti (dal salotto di casa, non dai tuoni e lampi della brughiera), partorite – non è una novità – dal ventre stesso della Lady, in una scena in cui feti deformi e insanguinati vengono estratti dalle gambe della Regina; le loro pozioni sono composte da pezzi di pupazzi (il drago di plastica, il lupo di peluches, la biscia di gomma), gli arredi, man mano, si presentano sempre più piccini (le sedioline, le culle) e il tono dei dialoghi regredisce in uno sguaiato fanciullesco, carico di risatine e inciampi. «Se li avessi mostrati come sanguinari fin dall’inizio – dichiara il regista in un’intervista –, li avrei allontanati da noi»; ma se in alcuni momenti, soprattutto iniziali, il contrasto fra la truculenza dei contenuti e la leggerezza del linguaggio funziona, in certi altri passaggi, l’insistenza sulla dimensione ludica e bambinesca rischia di disinnescare la possenza del testo e delle azioni che si compiono. Mentre i personaggi sono tutti chiusi in se stessi, imprigionati in un’autarchia drammaturgica che ne spinge all’estremo i canoni consueti, sovracaricandoli e trasformandoli, con verve espressionista, in cliché di loro stessi.

foto di Bepi Caroli

In questo spettacolo gli schiaccianti contrasti di cui si satura il dramma shakespeariano – soprattutto la fertile opposizione uomo/natura (brughiera/castello, streghe/società, irrazionale/razionale), ma anche chiaro e scuro, realtà e fantasia – sono tutti compressi in un interno, un salotto borghese dai toni pastello (prima acquei, poi violacei e bruni, in un crescendo di buio) che occupa i primi metri di palcoscenico, incorniciato da un gigantesco portale semitrasparente che schiaccia l’ambiente verso la platea, evocando tutti gli altrove – come l’iniziale festa, un lounge dalle luci e musiche soffuse – di cui si nutre il testo shakespeariano. «Il bello è brutto, il brutto è bello» cantano le Streghe, nella loro celebre apertura. Realtà e finzione si mescolano, nella messinscena di un testo che, soprattutto, si inserisce proprio in quegli interstizi che uniscono e separano l’immaginazione, il desiderio, dalle loro ricadute sulla vita reale; e la regia funziona, fintanto che riesce a disegnare un delicato equilibrio fra questi – e altri, come individuo e società, conflitti interiori e dimensione politica – estremi. Non così quando, con qualche punta di visionario compiacimento, cede a calcare il pedale dell’impostazione freudiana e dell’immaginario horror, che attirano a sé tutte le aperture evocative e la pluralità, la sostanziale ambiguità, che ha permesso a generazioni di artisti e studiosi di lasciarsi sedurre, fra condanna e immedesimazione, dalla tragedia di Macbeth.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia

Roberta Ferraresi

contenuto originariamente pubblicato su Doppiozero

Stagione di Teatro Contemporaneo – Teatro Aurora di Marghera

Mamma, mi leggi una fiaba? E la mamma, al capezzale del letto, ci leggeva un racconto fantastico che ci consegnava al sonno. Poi siamo cresciuti e abbiamo capito che non tutte le fiabe sono poi così lontane dal reale. Che il mondo che ci raccontano è spesso un modello di quello che siamo costretti a vivere. Che a volte le fiabe sono crudeli, amare, nere. Che non tutte le fiabe finiscono bene, e che non tutti gli eroi sono positivi, né tutti gi eroi, alla fine, guadagnano una principessa o un reame…”. Una fiaba disillusa, specchio feroce della realtà, come spiegano le parole del direttore artistico Antonino Varvarà: torna, attorno a questo tema, la Stagione di Teatro Contemporaneo, edizione 2012-2013, del Teatro Aurora di Marghera.

La Stagione, organizzata dall’associazione Questa Nave e dall’Assessorato alle Attività Culturali del Comune di Venezia in collaborazione con la Municipalità di Marghera, dal 17 novembre a maggio inoltrato propone dodici spettacoli in dieci serate, più due appuntamenti speciali firmati da Questa Nave, per portare il teatro fuori dal palcoscenico: le incursioni poetiche negli ascensori del Centro Le Barche di Mestre, e una lettura con video animazioni che andrà in scena nelle case degli spettatori che vorranno ospitarla.

A personalizzare il tema della fiaba saranno chiamati i protagonisti del teatro nazionale e internazionale, da Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca con “PINOCCHIO” (in scena attori usciti dal coma), a Giuliana Musso con “LA FABBRICA DEI PRETI”, fino al drammaturgo argentino Rafael Spregelburd, premio Ubu 2010, autore delle fabule morali di “TUTTO” in prima regionale. Ma non mancheranno le compagnie da scoprire come i pugliesi VicoQuartoMazzini / Teatro Minimo (“IL SOGNO DEGLI ARTIGIANI”, per la prima volta in Veneto), e la collaborazione con l’Accademia Teatrale Veneta, che presenterà lo spettacolo di chiusura del percorso triennale degli allievi attori. E, per carnevale, non poteva mancare una fiaba vera e propria, tutta dedicata ai bambini: Francesca D’Este proporrà “La vera storia di Hansel e Gretel”.

Una sezione speciale della Stagione 2012-2013 è poi dedicata alle giovani compagnie del territorio, con il progetto SALA TRAVAGLIO. Il cartellone dell’Aurora ha sempre avuto una particolare attenzione verso i gruppi emergenti del territorio attraverso il percorso “Specie Protetta”; quest’anno, Questa Nave compie un passo ulteriore: “SALA: teatro, prove, riunioni; TRAVAGLIO: attesa, fatica, respiro, lavoro. Abbiamo offerto ai nuovi gruppi del territorio gli spazi che abbiamo in gestione” – spiega Francesca D’Este, dello staff artistico e organizzativo – Non è stata fatta nessuna selezione tra le compagnie; piuttosto, una richiesta: quella del lavoro insieme. Questi gruppi sono qui, sono nella pancia gravida di Venezia, disegneranno il futuro del territorio: abbiamo voluto aprire il Teatro Aurora come un luogo di ricerca di linguaggi, mettendo a disposizione lo staff di Questa Nave per approfondire una vocazione”. I gruppi protagonisti – Empusa Teatro, exvUoto Teatro, H2O non potabile, ItinerisTeatro, La Vanguardia Nonsensista – dallo scorso settembre abitano il Teatro Aurora in residenza, e saranno protagonisti della Stagione con gli spettacoli che essi stessi hanno ritenuto più rappresentativi della propria poetica e che il pubblico sarà chiamato a giudicare. Alcuni di questi gruppi, infine, creeranno insieme uno spettacolo ispirato non a caso al conflitto generazionale presente nel Re Lear di Shakespeare, e che sarà presentato a fine Stagione.

Ulteriore novità dell’edizione 2012-2013, il concorso fotografico “LA STAGIONE PER IMMAGINI”: in un’ottica di partecipazione sempre più condivisa con gli spettatori, il pubblico dell’Aurora è chiamato a reinterpretare il tema della fiaba inviando le sue fotografie alla mail info@questanave.com entro il 15 dicembre. In palio, due carnet per tutti gli spettacoli 2013 del cartellone al Premio del Pubblico e al Premio della Giuria, e le 20 immagini più votate dal pubblico saranno esposte nel foyer del Teatro a partire dal mese di febbraio.

PROGRAMMA

sabato 17 e domenica 18 novembre dalle 21 alle 23 / Centro Le Barche di Mestre
Questa Nave Il vaso di Pandora ovvero Incursioni poetiche di individui per ascensore in movimento
regia di Antonino Varvarà

mercoledì 5 dicembre ore 21
VicoQuartoMazzini – Teatro Minimo Il sogno degli artigiani
di Michele Santeramo regia Michele Sinisi

giovedì 31 gennaio ore 21
Evoè!Teatro Tutto
di Rafael Spregelburd regia Alessio Nardin

lunedì 11 febbraio ore 16 / Sala Consiliare della Municipalità di Marghera
Questa Nave La vera storia di Hansel e Gretel
di e con Francesca D’Este

sabato 16 marzo ore 21
H2O non potabile Comma 212

sabato 16 marzo ore 22
ItinerisTeatro Di doppio andare

giovedì 21 marzo ore 21
Babilonia Teatri – Gli Amici di Luca Pinocchio

sabato 13 aprile ore 21
La Vanguardia NonSensista L’Orazio di Heiner Müller

giovedì 18 aprile ore 21
Empusa Teatro Bersabea

giovedì 18 aprile ore 22.15
exvUoto Teatro Funi E Desideri Rapidamente Ammazzano (F.E.D.R.A.)

aprile e maggio / abitazioni private di Venezia e Mestre
Questa Nave Les Amants du quatriéme ètage – Gli amanti del quarto piano

4 maggio ore 21.00
Giuliana Musso La fabbrica dei preti

maggio – data da definire
Accademia Teatrale Veneta Spettacolo conclusivo del triennio di formazione professionale

maggio – data da definire
Lear o del conflitto generazionale (titolo provvisorio)
di e con Empusa Teatro, H2O non potabile, ItinerisTeatro

Voix sans paroles, lingue straniere e teatro universitario

Approfondimento a partire da Voix sans paroles – mise en espace di Nanténé Traoré

foto Andrea Maggiolo

Accanto alla programmazione teatrale per la stagione 2011/2012, il Teatro universitario G. Poli di Ca’ Foscari a Venezia ha organizzato una sezione speciale di approfondimento scenico rivolta a giovani e studenti, intitolata Molecole: esperienze, laboratori, spettacoli, letture. Cinque spettacoli e performance caratterizzati da una molteplicità di culture e lingue, assieme a quattro laboratori molto eterogenei. Si va dal progetto L’Università si mette in scena – laboratorio semestrale condotto da Elisabetta Brusa e finalizzato alla realizzazione scenica di Storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo – al workshop di Teodor Borisov che indaga l’universo marionettistico, concludendo il 18 e 19 aprile con Chiara Frigo e la sua ricerca di espressione corporea.

Giovedì 8 marzo è invece andato in scena il risultato finale del quarto esperimento: Voix sans paroles, laboratorio condotto dall’attrice francese Nanténé Traoré, con la partecipazione di dieci giovani studenti e appassionati di performing arts. Elemento centrale del lavoro è stata l’indagine sull’uso della voce, alla scoperta di timbri e colori vocali: «C’è in ognuno di noi una moltitudine di voci che nemmeno immaginiamo. Come riuscire a farle affiorare sul palcoscenico? Da dove vengono? Come richiamarle? Cercheremo di scavare in ogni piccola fenditura per far dischiudere tutte queste voci», spiega Traoré, già ospite del Poli nella passata stagione con lo spettacolo in prima nazionale Moi fardeau inhérent del regista e drammaturgo haitiano Guy Regis Jr.

Per indagare l’umanità della voce, i protagonisti del workshop si sono affidati al mito, alla dimensione tragica dei testi classici, da Antigone di Sofocle a Le Troiane di Seneca, passando per Femmes de Troie da Euripide nell’adattamento di Matthias Langhoff, fino a Enfonçures, Chimères et autres bestioles del regista e drammaturgo francese Didier-Georges Gabily. Il risultato è un montaggio non lineare che permette alla voce di indagare se stessa, calandosi pienamente nella dimensione rituale della declamazione. Nel più scarno e tradizionale semicerchio corale, dieci corpi guadagnano il silenzio e conquistano spazio sonoro sovrapponendosi e intersecandosi. Due lingue in scena francese e italiano  giocano a farsi eco l’un l’altra, passando dal monologo alla pluralità della phoné, quasi come se in scena si stesse giocando a lanciarsi un oggetto che non si vuol far cadere a terra. Le traiettorie sono inaspettate e confuse, non ci sono personaggi a cui aggrapparsi e nemmeno un’unica lingua familiare e scontata, ma frammenti da raccogliere e accostare. Contenuto manifesto di ogni stralcio drammaturgico è la donna oppressa, privata di dignità, stretta ma più ancora costretta nella drammaticità del conflitto e della distruzione. Una terra, una città, una madre, presenze femminili che non possono smettere di subire violenza e sopruso e che, cariche di consapevolezza, reggono sulle spalle il peso di un mondo in armi. Accanto a loro gli uomini, attori di distruzione, ma vittime anch’essi di un meccanismo logorante. Si racconta di donne e uomini del mito per parlare di guerra dall’antichità a oggi e arrivare a indagare l’essere uomini e donne nel presente contemporaneo. Il quadro finale vede i giovani attori danzare lentamente in coppia e una voce sussurrare: «Essere umani ancora fino a domani».

Niente costumi o scenografie, solo qualche sgabello, due microfoni calati dall’alto e l’intenzione di condividere con il pubblico il breve ma intenso lavoro svolto dal 5 all’8 marzo sul tema della moltitudine delle voci interiori. Un percorso che, per la sua componente multi-linguistica, ha costretto i partecipanti a recuperare il senso profondo della parola, dimenticando dizione ed esattezza, e concentrandosi sul suono sconosciuto. Il laboratorio non ha richiesto la conoscenza del francese e si è svolto gratuitamente, permettendo ai giovani attori, selezionati solo sulla base delle esperienze pregresse, di cogliere un’opportunità pensata come servizio. È infatti nelle intenzioni di Donatella Ventimiglia e del professor Carmelo Alberti, che curano la programmazione del Poli, rendere sempre più questo teatro un luogo di forte connessione tra la scena e l’università, uno spazio in cui riflettere sulla contemporaneità e continuare la ricerca quasi fosse un’aula in più, in cui sperimentare nuovi percorsi di formazione.

Visto al Teatro G. Poli, Venezia

Margherita Gallo

Sovvertire la cultura. Intervista a S.a.L.E. Docks

Da pochi giorni si è chiuso l’ennesimo carnevale veneziano, il periodo dell’anno in cui più di ogni altro la città si rivela inerme e stanca. Pochi giorni prima che l’appuntamento entrasse nella sua fase calda abbiamo incontrato, in una raccolta osteria di Campo Santa Margherita, Valeria Mancinelli e Roberta Da Soller, curatrici rispettivamente di arti visive e arti sceniche, entrambe attivamente impegnate nella programmazione di S.a.L.E Docks, realtà indipendente e ambiente creativamente critico del panorama culturale veneziano. Un’occasione per discutere di produzione culturale, di alternative metodologiche e di rapporto tra arte, cultura e città.

I nove Magazzini del Sale, edificati nel 1400 e adibiti a deposito dell’antico “oro bianco”, sono un luogo storico della città lagunare. Nel 2007 ne avete occupati due. Quali ragioni e desideri vi hanno spinto a scegliere questi spazi?
Valeria: L’esperienza di occupazione dei Magazzini del Sale è figlia di una lunga attività sociale e politica del Morion, il centro sociale di Venezia, da cui provenivano e provengono tuttora molti attivisti del S.a.L.E. Nel 2007 si è preso coscienza di un forte cambiamento che stava avvenendo all’interno della città e si è deciso di dar vita a una realtà che si occupasse esclusivamente di arte e creazione, secondo logiche del tutto differenti e in buona sostanza contrapposte a quelle che regolano comunemente il “mercato dell’arte” e i suoi lavoratori. Abbiamo scelto uno spazio inserito nel famosissimo “chilometro dell’arte”, un quartiere che ospita molti luoghi di cultura come l’Accademia di Belle Arti, la Fondazione Vedova e Punta della Dogana con la collezione Pinault e che registra una forte disgregazione del tessuto sociale e abitativo. Possiamo aggiungere un’ulteriore motivazione: abbiamo sempre riscontrato uno scarso dialogo tra le università e il mondo artistico che transita a Venezia. Bisogna considerare che gli studenti scelgono proprio questa città come luogo di formazione, risiedono qui per alcuni anni: non vi arrivano per pochi giorni attratti da specifiche manifestazioni, ma sono uno strato sociale e una componente essenziale della cittadinanza. Purtroppo però sono spesso costretti a spostarsi una volta terminati gli studi perché il sistema culturale cittadino non dà loro spazio. Noi per primi siamo attivisti che si sono formati in ambito artistico e che si occupano della programmazione e curatela degli eventi, seminari, pubblicazione dello spazio e abbiamo sempre pensato che il potenziale creativo studentesco fosse mal gestito e poco incentivato. Il S.a.L.E quindi, fin dalla sua fondazione, ha espresso la precisa volontà di coinvolgere e coltivare queste nuove energie.

Dopo le occupazioni del 2007, è stato trovato un accordo con il comune per la gestione di uno dei due magazzini, che è oggi la sede del S.a.L.E. Se doveste fare un bilancio di questi primi cinque anni, come descrivereste i cambiamenti avvenuti?
Valeria: Sono cambiati molto gli aspetti concreti del nostro lavoro. Nei primi anni, abbiamo svolto moltissime attività, per la necessità di farci conoscere e affermarci nella realtà cittadina, ma anche perché per un lungo periodo il comune ha confermato l’accordo di mese in mese. Questo non ci permetteva di programmare a lungo termine e ci costringeva a organizzare mostre e allestimenti di breve durata. Attualmente l’accordo viene confermato con scadenza annuale e possiamo dunque avere una progettualità più ponderata. Abbiamo ridotto in parte il numero di iniziative, ma possiamo curarle di più e renderle più stabili nel tempo.

Lo spazio è nato come luogo dedicato a mostre, incontri con artisti e molte altre iniziative legate alle arti visive. Come si è innestata la programmazione relativa al teatro e più in generale alle performing arts?
Roberta: È stata una conseguenza naturale. Fin dall’inizio il S.a.L.E ha guardato attentamente al mondo della performance e negli ultimi anni il teatro ha trovato molti nuovi spazi. Anche le arti sceniche godono di un buon “terriccio studentesco” in città e soffrono di una mancanza strutturale di finanziamenti e spazi adibiti. È quindi coerente e necessario che il S.a.L.E si occupi di arti performative.

Il flyer di "Creating activism before action", ciclo di laboratori di performing arts al SaLE

Quali sono le principali attività teatrali che avete organizzato in questi anni?
Roberta: Nel 2010 abbiamo costruito un laboratorio con Alessia Zabattino e Pierpaolo Comino, finalizzato alla creazione di uno spettacolo tratto da La mostra delle atrocità di James Ballard. Il lavoro è durato sette mesi ed è stato realizzato con un metodo di coproduzione dal basso. Si è chiesto a molti coproduttori di versare una quota di 12 euro, offrendo loro in cambio la possibilità di partecipare a tre prove aperte e di discutere con gli artisti le scelte e le soluzioni sceniche. (leggi l’articolo). Nel 2011 abbiamo tentato un primo festival “Al limite. Sul teatro imprevisto”, con Motus, Macelleria Ettore, Garten, Arearea e Margine Operativo. Volevamo indagare il rapporto tra la produzione teatrale e lo spazio urbano, concentrandoci in particolare su esperienze sceniche esterne ai grandi circuiti, che operano in semi clandestinità e appunto al limite. Replicheremo l’esperienza festivaliera anche quest’anno, in autunno, ma prima abbiamo organizzato una serie di laboratori con registi e coreografi che cominceranno a marzo (leggi l’articolo).

L’ultima mostra, tuttora in corso, organizzata al S.a.L.E, la collettiva Open 4, indaga il rapporto tra arte e lavoro. Lo scorso 31 gennaio avete ospitato un incontro con la Rete dei Lavoratori dell’Arte. Come avete costruito questo percorso all’interno del mondo lavorativo?
Valeria: Ci interessa indagare la contemporaneità e comprendere come l’arte ci si relaziona. La precarietà è uno dei pilastri del dibattito contemporaneo, attraversa le nostre vite e le condiziona. Il lavoro artistico è per eccellenza precario e spesso privato di diritti minimi che andrebbero garantiti. In questo senso conduciamo un’inchiesta. Cerchiamo di tenere monitorata la situazione degli artisti visivi e degli spazi, con occhio sempre vigile alla speculazione abitativa.

Roberta: Abbiamo un forte legame con tutte quelle realtà teatrali che in Italia protestano e propongono soluzioni ai problemi dei lavoratori dello spettacolo. Penso innanzitutto all’occupazione del Teatro Valle di Roma e al recupero di un teatro abbandonato al degrado come il Marinoni del Lido, operazione che è nata proprio da una collaborazione con gli occupanti del Valle. La realtà e le condizioni dei lavoratori dello spettacolo dal vivo sono indubbiamente critiche e cariche di problematiche. Seguiamo e partecipiamo attivamente al dibattito che si sta portando avanti con l’occupazione del Valle, e in particolare il tema del reddito base, che crediamo possa essere una proposta davvero valida. Ci tengo anche a sottolineare come l’occupazione del Teatro Marinoni abbia avviato un percorso di discussione e dibattito intorno ai temi della produzione culturale e dell’utilizzo degli spazi a Venezia, con la creazione di una mappatura degli spazi inutilizzati e delle compagnie in difficoltà.

Ritorniamo allora proprio alla dimensione locale. Cosa rimproverate maggiormente alle grandi istituzioni culturali veneziane?
Valeria: Prima di tutto il fatto che siano calate dall’alto! Il rapporto che un grande evento come Biennale ha con la città è culturalmente inesistente. Nulla è pensato per includere Venezia nel processo artistico e culturale: molto semplicemente la città viene usata, come vetrina, come prodotto, come spazio da riempire e poi svuotare nuovamente.
Non si può dire però che Biennale non abbia ricadute positive in termini economici sulla città. Il turismo culturale inoltre è considerato decisamente più rispettoso e proficuo rispetto al turismo definito “mordi e fuggi”.

Roberta: L’impatto economico è evidente, ma è un dato di fatto che le ricadute culturali, produttive e di arricchimento sociale sono inesistenti. Questo è un problema che pochi considerano, ma è centrale. Il tessuto sociale urbano non riesce a reggere il gigantesco problema degli affitti e l’aumento dei costi quotidiani che questo modo di produrre cultura ha indubbiamente incentivato. Non si tiene conto della città, dei suoi abitanti e delle sue esigenze. Pensiamo agli studenti, ingaggiati come volontari o mal retribuiti per qualche mese di lavoro a condizioni contrattuali più che discutibili. Questo è un ottimo esempio di come i grandi eventi utilizzino risorse cittadine senza inserirle in alcun tipo di processo positivo.

Quali alternative concretizza il S.a.L.E?
Valeria: Porto un semplice esempio che dimostra come ci voglia davvero pochissimo per sovvertire alcune logiche. Da anni ormai Biennale utilizza sempre più spazi cittadini per eventi paralleli e collaterali. Lo scorso anno ci è stato chiesto in affitto lo spazio del S.a.L.E, come sede del Padiglione Catalano. Abbiamo rifiutato i soldi dell’affitto e abbiamo invece proposto una serie di incontri seminariali da costruire in partnership. In altre parole, invece di ottenere un compenso economico immediato, abbiamo scelto di partecipare attivamente e costruire significato all’interno di una collaborazione.

Roberta: Da anni seguiamo un progetto di recupero che abbiamo chiamato Re-biennale. Raccogliamo e ricicliamo materiali e oggetti che andrebbero buttati alla chiusura dei padiglioni nazionali. Li mettiamo a disposizione di altri artisti e li riutilizziamo. Abbiamo da poco inaugurato il nuovo soppalco del S.a.L.E., creato dall’artista visivo Thomas Kilpper e realizzato proprio a partire da materiale di scarto di Biennale. Tutti gli allestimenti del nostro spazio sono stati costruiti con questo metodo.
Riutilizzare, ricercare ostinatamente spazi di produzione e riflessione, riconquistare territorio e dialogo con la cittadinanza. Da anni si dibatte di impatto economico e sociale delle iniziative culturali e spesso l’approccio al tema è ideologico e superficiale. È comprovato che la cultura, pur nelle sue logiche di anti-mercato, produce valore economico e ricchezza, ma Venezia rappresenta in modo emblematico l’ambiguità di questa affermazione che, se assunta a paradigma dogmatico, rischia di essere fuorviante e talvolta pericolosa. Come si inserisce la cultura nei tessuti sociali è il vero nodo da affrontare. Questo comporta un’apertura e un abbandono delle logiche autoreferenziali e un ascolto profondo delle necessità dei territori. Il S.a.L.E. Docks ha da poco deciso di riservare una parte del suo spazio alla cittadinanza, alle associazioni e ai progetti che richiedono aiuto concreto e un luogo fisico in cui incontrarsi. Che se ne continui a fare buon uso!

Margherita Gallo

Cani senza padroni oggi

foto di Diego Beltramo

Sono passati quasi otto anni da quando lo spettacolo di Motus Come un cane senza padrone ha debuttato all’interno dell’ex complesso Italsider di Bagnoli, nella periferia di Napoli. Un lavoro innovativo che mostrava la modernità del gruppo riminese nella forte connotazione cinematografica aggiunta a quel loro viaggio teatrale iniziato negli Anni ’90. Dopo la fascinazione per Fassbinder, Genet e De Lillo, Motus abbracciava per la prima volta un autore a noi molto più vicino, un personaggio scomodo che ha fatto molto parlare di sé negli anni ’70 e che continua come un fantasma ad essere presente e contemporaneo ancora oggi: Pier Paolo Pasolini. 2003-2011: a Venezia per il Festival Al Limite – curato e organizzato all’interno del S.a.L.E. Docks– si è avuta l’occasione di vedere una piccola perla di uno dei gruppi di ricerca teatrale più importante a livello nazionale e che poco gira in terra veneta. Come un cane senza padrone è uno spettacolo che non dimostra la sua età, è sempre attuale e graffiante; e soprattutto l’esperienza di Motus si adatta come un guanto alla situazione ricreata da Al Limite: uno spazio alternativo completamente autogestito per dare voce a ciò che sta al margine e che proprio per questa sua caratteristica ha un valore aggiunto. Il margine e, più propriamente parlando, la periferia sono protagoniste in questo lavoro che intreccia differenti proiezioni video alla lettura di alcuni frammenti tratti da Petrolio, il romanzo incompleto scritto da Pasolini. La voce profonda di Emanuela Villagrossi racconta un momento rivelatorio dell’esistenza di Carlo, un dipendente dell’Eni abituato a una vita borghese, che si ritrova immerso in un’esperienza di estrema rottura: l’incontro sessuale con Carmelo, un “ragazzo di vita”.

estratto dal video di Simona Diacci

Contemporaneamente alla calda tonalità dell’attrice uno schermo proietta le immagini sfocate di un film – realizzato da Simona Diacci proprio per questo spettacolo – in cui Carlo, interpretato da Danny Greggio, e Carmelo, un disinvolto Franck Provvedi, vivono la loro breve ma intensa storia. Intensa solo per lo stesso Carlo: se per Carmelo l‘incontro con uomini altolocati rappresenta un modo di sostentamento danaroso, il protagonista di Petrolio, abituato a una vita borghese e priva di stimoli, solamente con questa esperienza, che unisce incredulità, violenza e una lacerante vitalità, comprende il vuoto che lo abita. E questo vuoto diventa un grido urlato nel proprio silenzio, in un deserto in cui ci si ritrova nudi e soli con se stessi, metafora di un Io interiore privo di significato. È in questa zona arida che Carlo capisce di essere stato per tutta la vita circondato da un “pieno”, da un mondo in cui il centro non era altro che una falsa illusione; è la periferia, la zona dimenticata da tutti che in Petrolio, e soprattutto in Come un cane senza padrone acquista una bellezza ritrovata, dimenticata e boicottata in cambio di quella vita borghese in cui Carlo “dormiva il sonno del suo corpo”. Oltre la lettura della Villagrossi e lo schermo in cui il film sulla storia di Carlo e Carmelo è proiettato, su tre pannelli scorrono le immagini di strade, di baracche, carcasse di automobili: zone periferiche in cui Pasolini si ritrovava a vagare con la sua macchina e che hanno ispirato tutto il lavoro di Motus. L’immagine della periferia – estesa su un campo visivo che presenta tre diverse inquadrature sincronizzate – acquista il fascino dei vecchi ciclorama e aiuta lo spettatore ad entrare in un viaggio di pura poesia. Questa esperienza inizia ma non ci si sente accompagnati; piuttosto si è soli di fronte a ciò che terrorizza e non si conosce, e che d’altra parte invita a essere incontrato. Come Carlo prova una pulsione mai sperimentata prima verso Carmelo, si prova la stessa fascinazione nell’entrare in una zona che sembra deserta ma che forse ha molto più da offrire rispetto ad un’altra affollata e più nota. In periferia si possono incontrare dei cani che vagano senza padroni: sono abbandonati, sono soli; cercano ciò che li soddisfi immediatamente, senza essere fedeli a nessuno, neppure a loro stessi. Semplicemente vivono di eccessi: ecco Carlo che, attraverso quell’angelo impuro personificato in Carmelo, vive una frattura interna sentendosi “come una cagna senza padrone”. Comprendere il deserto della propria esistenza risulta sempre attuale, oggi come ieri: Pasolini continua a essere a noi contemporaneo.

Visto a Al Limite Festival, S.a.L.E. Docks, Venezia

Carlotta Tringali

Edipo: Il Lemming si fa in mille!

Quando si inizia un progetto non si sa bene quale sarà il percorso e soprattutto quando finirà; a maggior ragione  se si comincia a lavorare ad uno spettacolo teatrale. Quando Massimo Munaro si imbarcò nel viaggio dell’Edipo – ormai quindici anni fa – lo fece partendo da alcune semplici intuizioni: Edipo doveva essere bendato e – ancora più importante – doveva essere uno spettatore.
A partire da questa prima immagine (avuta già nel 1995 durante un laboratorio propedeutico) il regista veneto iniziò un percorso volto alla ricerca intorno al mito d’Edipo per uno spettacolo pensato per un unico spettatore. Un esperimento ardito, aperto a tutte le persone che volessero prendervi parte: attori e studenti anche senza esperienza. Il laboratorio aveva come titolo EDIPO – I cinque sensi del teatro; per tre mesi il gruppo formatosi sotto la guida di Munaro iniziò un percorso del tutto nuovo – anche per il regista stesso – che si basava su una sperimentazione continua del fare e del sentire dell’attore. Coinvolgere una s
ola persona voleva dire cominciare da una relazione personale e profonda, una relazione uno a uno, dove uno è lo spettatore e uno sono gli attori; se egli “impersonava” Edipo, loro – che agivano con lui e per lui – avrebbero dovuto essere una cosa sola, un coro. Ciò che interessava veramente a Massimo Munaro era cambiare la relazione attore-spettatore e riportarla al grado zero; affidare ai sensi e alle emozioni una drammaturgia che non era fatta dalle parole ma piuttosto dalle reazioni della persona coinvolta.  Far “vivere” il mito di Edipo – dall’uccisione del padre all’incesto con la madre – ad un unico interlocutore, completamente isolato dalla massa-pubblico che protegge e intorpidisce l’individualità, metteva a dura prova gli attori. Per questo il processo di lavoro e la creazione dello spettacolo si basarono su un principio di Ascolto-Adeguamento-Dialogo: una vera e propria tecnica che il gruppo andò imparando tentativo dopo tentativo, sperimentandola dapprima sul regista – che guidava gli attori da dentro l’azione – poi sugli attori stessi a turno.
Tre mesi di ricerca, confronto, dialogo e riflessione portarono alla nascita di uno degli spettacoli storici di Teatro del Lemming. Quindici anni fa era raro avere a che fare con spettacoli per un pubblico così ristretto – oggi ormai diffusi seppur molto lontani dall’esperienza di questo gruppo – e soprattutto era raro che il coinvolgimento fosse totale sia a livello sensoriale che fisico e psicologico; fu così che Edipo esplose e che la poetica della compagnia di Massimo Munaro si delineò e diede vita alla Tetralogia dello spettatore: una serie di spettacoli incentrati a rivalorizzare e approfondire questa prima esperienza. Edipo divenne lo spettacolo-manifesto della compagnia e continua ed essere rappresentato ogni anno fino ad oggi.

Ma il ciclo vitale di questo lavoro non finisce qui e con il 2011 la compagnia approda ad un nuovo traguardo: trasmettere l’esperienza e condividerla. Sostenuto dalla Fondazione di Venezia, nell’ambito del progetto Giovani a Teatro, il percorso si amplia e diviene l’Edipo dei mille. Tra febbraio e marzo sono stati selezionati trenta attori – a seguito di due laboratori propedeutici – che porteranno in scena Edipo in cinque luoghi differenti per dieci giorni consecutivi. Questo implicherà il coinvolgimento di circa 1000 spettatori in poco più di un mese (oltre a Venezia e Mestre saranno altre le città “occupate”). Tra i luoghi interessati: la Torre in piazza Ferretto, il Teatro Momo e il Teatro Poli a Santa Marta.
«L’azione di pochi è in grado di produrre grandi trasformazioni»,
sono le parole di Massimo Munaro: come per gli uomini di Garibaldi, anche ai giovani che parteciperanno spetta un’impresa altrettanto ardua, trasformare l’utopia di Edipo in un atto concreto. Nell’era della comunicazione di massa, dello spettatore passivo e narcotizzato, questa azione spettacolare si pone uno scopo preciso: portare il tragico e la catarsi di un atto teatrale – inequivocabilmente forte – ad un ampio numero di spettatori, coinvolgendoli con una partecipazione attiva e senza alcuna mediazione in un avvenimento che ha tutte le carte per essere considerato una prima scintilla per un’epidemia teatrale.

Camilla Toso

Babilonia affronta la fine

Recensione a The endBabilonia Teatri

“Non possiamo abituarci a crepare
/ neppure un asino che da noi si racconta l’ha potuto/ 
siamo gente paziente
/ non possiamo abituarci a morire/ 
noi vogliamo vivere/ 
perché la vita ci piace
/ abbiamo il gusto della vita/ 
con le mani che hanno tirato su tutto.”

Scriveva queste parole il poeta recentemente scomparso Luigi Di Ruscio nel suo Non possiamo abituarci a morire. Nello stesso giorno in cui si spegneva a Oslo, il gruppo veronese Babilonia Teatri andava in scena a Venezia con l’ultimo lavoro The end. Coincidenze della vita, o della morte. Proprio quest’ultimo è infatti il tema affrontato dall’ormai affermata compagnia veneta che per la prima volta vede sola sulla scena una sempre impeccabile Valeria Raimondi che, senza sosta, tratta con parole dirette e crude, senza alcun ricamo, quello che nessuno di noi può evitare. Se negli altri lavori la drammaturgia scritta dalla Raimondi e da Enrico Castellani era più affine a una sorta di blob teatrale, con l’accostamento di materiali diversi, schegge impazzite che lo spettatore aveva poi il compito di assemblare, con The end l’accusa alla società e alla realtà che ci circonda è ancora più diretta, esplicita. Con una veste laminata che ricorda una corazza, l’attrice sembra una paladina medievale dei nostri tempi che senza mezzi termini prende una posizione netta, precisa: “voglio il mio boia/ voglio affittarlo/ prenotarlo/ comprarlo ora/ voglio che viaggi con me/ sempre/ fedele al mio fianco/ voglio sia scritto nero su bianco/ sono il tuo boia/ sono il tuo boia”. Proprio in questi giorni al Parlamento si sta votando per una legge che apparentemente sembra regolare l’accanimento terapeutico e il biotestamento – ma che in realtà complica ancor di più la burocrazia che regola l’azione eventuale di “staccare la spina” o interrompere le cure. Babilonia Teatri con questo ultimo lavoro è più che attuale: passa dalla paradossale ironia pungente e critica nei confronti dell’occultamento della morte e della eterna giovinezza, alla ferma posizione per cui non si vuole vivere una volta che si è “morti” per la società e la propria famiglia. Alla vecchiaia e alla malattia spetta infatti un posto di marginalità, un parcheggio in carrozzina davanti alla sala tv di un ospizio, la condivisione di un’agonia infinita con gli altri ospiti della struttura deputata dove si attende la propria fine. Il testo dei Babilonia non chiama in causa la religione, ma la evoca: alle spalle di Valeria Raimondi un Cristo in croce incombe; dopotutto il cristianesimo fa parte del nostro retroterra culturale, coabita in noi: sarà il Padreterno a decidere quando chiamare a sé il nostro corpo, non è previsto un boia personale ed è difficile pensare a lui come a una soluzione finale. Se inizialmente l’attrice sciorina un’infinità di esempi grotteschi, che potrebbero sembraresurreali – tanto sono fantasiosi o assurdi – ma che sempre di più oggi si avvicinano alla realtà, successivamente arriva a un climax dove l’ironia lascia posto alla rabbia. Si va dall’agghiacciante “chiedo un decalogo per la morte/ per la vita ho tempo/ la imparo da sola” alla mitizzazione della giovinezza perenne, alla non vecchiaia, ai genitori che non si ammalano, al campo santo dove “si riposa”. Perfino sulla terminologia si ricama per trovare parole che rendano poetica quella fine così scomoda e lontana da noi che sembra non dover arrivare mai. Ma è lì, c’è sempre stata e ci sarà sempre: “non ci si può abituare a morire” è vero; ma non ci si può neanche abituare a vivere una volta che si dipende esclusivamente da una macchina artificiale.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Carlotta Tringali

Linguaggi artistici a confronto… in streaming!

Recensione a Art(h)emigra Satellite 1. In collegamento streaming con OT301, Amsterdam – di T(h)emigra Ensemble e formazione olandese curata da Manuela Tessi

Una lunga fila, principalmente di ragazzi, ha atteso l’apertura delle porte di Teatro Fondamenta Nuove. Tutto pieno, sold out! Ogni angolo del teatro è stato occupato e c’è stato perfino chi si è guadagnato spazio accostandosi alle pareti laterali, nel tentativo di oltrepassare con lo sguardo la persona che aveva davanti. L’evento che ha fatto incontrare così tante persone  nel teatro-fulcro della ricerca performativa veneziana è stato lo spettacolo Art(h)emigra Satellite 1 di T(h)emigra Ensemble, il collettivo di musicisti e danzatori raccolti attorno alla coreografa Laura Moro. Promotrice della serata e contraltare di un sistema teatrale sempre più chiuso ai giovani è la Fondazione di Venezia che, dopo “Il teatro in tasca!” (iniziativa che consente ai ragazzi fino ai 30 anni di acquistare un biglietto teatrale al prezzo di 2,50 euro), ha proposto in collaborazione con Teatro Fondamenta Nuove, la visione della pièce ad ingresso libero.

Art(h)emigra Satellite 1 - foto di Moria De Zen

Art(h)emigra Satellite 1 è il primo appuntamento che vede presente  il collettivo nella città di Venezia: nei prossimi mesi infatti Laura Moro – con il musicista Lorenzo Tomio – condurrà due laboratori sulla “composizione estemporanea”, il cui esito performativo sarà Art(h)emigra Satellite 2 (Teatro Fondamenta Nuove, 21 aprile).
A risaltare inizialmente sono le parole che costituiscono il sottotitolo dello spettacolo: “in collegamento streaming con OT301, Amsterdam”. Tralasciando solo per il momento la questione cruciale che riguarda l’interazione video come elemento costitutivo del lavoro, OT301 è un teatro – ex Accademia del cinema – e una piattaforma indipendente per le discipline culturali della capitale olandese con  la quale Laura Moro ha ideato e avviato il progetto fondato sulla relazione tra le due formazioni di musicisti e danzatori.  Dopo le tappe di Asolo e Bassano del Grappa (solo per citarne alcune), Venezia è divenuta il luogo dal quale avviare una comunicazione con la realtà di Amsterdam, nell’incontro di artisti che rintracciano nell’improvvisazione la parola chiave della propria composizione.

Consapevole di un sentire comune che connette il concetto di improvvisazione a termini quali “originalità”, “irripetibilità” o simili, la Moro sottolinea come ciò che si appresta a presentare con i suoi collaboratori si fonda sul metodo di composizione del musicista John Zorn e sui suoi Game Pieces – una serie di improvvisazioni strutturate secondo regole ideate di volta in volta dallo stesso Zorn. Come il compositore statunitense, Laura Moro e Lorenzo Tomio si alternano nell’assumere il ruolo di direttore d’orchestra: conquistano uno spazio semicircolare sul palco, volgono le spalle agli spettatori e dirigono i propri esecutori con “carte” zorniane. Questi cartelli differenziati da colori, simboli, numeri e lettere lasciano emergere il fascino di un oggetto che trasfigura il tradizionale spartito e diviene mezzo di trasmissione di un linguaggio sconosciuto in grado di organizzare e mettere regole sull’improvvisazione. L’ensemble presente a Fondamenta Nuove ha risposto a questa partitura ignota dando vita ad un dialogo tra corpo e suono generatore estemporaneo del fatto artistico. Riconosciuta storicamente la rilevanza della musica nella creazione coreografica, l’improvvisazione si struttura partendo da una consapevolezza personale, un vocabolario elementare di gesti da un lato, e suoni dall’altro, per giungere ad una coesione tra musica e danza unica nel suo svolgersi dal vivo. Art(h)emigra Satellite 1 ha presentato una sfaccettata visione delle possibilità comunicative tra i due linguaggi: molto più intima e intensa la relazione che ha visto fondersi il suono di un unico strumento con il corpo del danzatore, mentre più ironici e percettivamente precostituiti, alcuni dei pezzi corali che hanno coinvolto l’intera formazione di artisti fino a creare, in antitesi, forme danzanti stereotipate, figure didascaliche che non dovrebbero essere giustificate dall’improvvisazione.

Il collegamento streaming con Amsterdam rimane tuttora una questione aperta e rintracciabile parzialmente solo nelle parole dichiarate dal sottotitolo: ammirevole la tenacia di Laura Moro nel risolvere i problemi di comunicazione con OT301, ma l’ironia non è stata sufficiente a colmare i vuoti causati dall’altalenante connessione sulla quale sembrava doversi fondare l’evento, lasciando cogliere invece il fatto come mero pretesto per la creazione dell’incontro. La mancata interazione tra i due luoghi, pur evidenziando le caratteristiche di indeterminazione e sperimentazione del lavoro, ha affievolito conservando la proiezione fissa del desktop di Windows sul fondale alcuni dei momenti di maggiore intensità dell’azione sviluppata a Teatro Fondamenta Nuove. Ma a questa osservazione provocatoria, e nella prospettiva di una maturazione del progetto, sembrano rispondere le parole di Laura Moro riportate nel foglio di sala: «da un male nasce un bene… il male è sbaglio, errore o insuccesso di esecuzione di cui siamo responsabili, per incuria, disattenzione, stanchezza… perché siamo umani. Spesso lo sbaglio ci apre nuove porte, rendendoci consapevoli di un automatismo che l’errore interrompe, sviandoci così da una logica in cui niente di nuovo avrebbe trovato spazio per germogliare».

Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Elena Conti