La lingua di Quanto mi piace uccidere… all’inizio è quella sinuosa, liscia, insidiosa della politica, incarnata nei ringraziamenti di un giovane neo-eletto ai propri cittadini: in una parlata che alterna pacatezza e slanci passionari, ammiccamenti e scatti d’ira, si susseguono tanti cliché che caratterizzano la retorica politica contemporanea, dai classici richiami alla patria e alla famiglia, a stratagemmi che invocano ai valori tradizionali dell’amore e dell’uguaglianza. Parole che scivolano e fanno scivolare, incarnate nella precisa gestualità di Tommaso Taddei; convince, quasi, di essere una possibilità di riscatto o una svolta o almeno una speranza di miglioramento per i suoi elettori (e spettatori). Poi il linguaggio si fa più duro, più esatto nella sua tenerezza e atrocità – quando si scopre che l’acclamato e benvoluto giovane politico, ovviamente anche industriale di successo, è un efferato omicida, iniziato ai crimini più atroci in tenera età. Qui le tonalità morbide degli affetti d’infanzia (amore materno, giochi, animali domestici) sono sapientemente intrecciate con i dettagli più macabri, raffinatezze culinarie con immagini di una violenza inaudita. Da piccolo, il protagonista è stato iniziato alla violenza in famiglia, uccidendo prima i gattini di cui si era preso cura, poi arrostiti sotto la guida esperta della madre, poi cuocendo il cadavere della madre stessa e quello del padre, per passare infine al vero e proprio omicidio seriale, in un crescendo di violenza, orrore e follia.
Con il volto ormai deformato in una maschera di ferocia, la voce di Taddei tende lunghe frasi micidiali e incalzanti, quasi a restare senza fiato: lo spettacolo diventa un fiume di emozioni (docili, tremende, dolorose – tutte insieme), con momenti di straordinaria poesia che travolgono il senso inconcepibilmente crudo delle vicende.
Un progressivo crescendo (di lirismo e ferocia) rapisce lo spettatore attraverso la lingua poetica, travolgente, di Virginio Liberti (autore e regista di Quanto mi piace uccidere…) e l’interpretazione calibratissima di Tommaso Taddei che, insieme, tracciano un inquietante ritratto per contrasti, in cui è poi difficile andare ad identificare i propri limiti e le origini delle proprie prospettive. Carezze e perversione, vaporosità e sprofondamento, lirismo e follia sono elementi che accompagnano tutto lo sviluppo dello spettacolo: presenti fin dall’inizio – in cui sono lievemente imposti, con pacata eleganza, nella retorica politica più convenzionale – vengono poi assaporati ed esplorati per gradi nei primi momenti dei ricordi d’infanzia, attraverso mutamenti d’intensità minimi e progressivi, fino ad una lacerazione che fa a brandelli i confini dell’orrore, della presenza e dell’identità. La discesa nell’abisso è impostata secondo ritmi talmente lievi e impercettibili, attraverso contrasti così organici (di senso, di voce, di mimica) che si intrecciano, crescendo assieme, lungo tutto lo spettacolo che quando lo spettatore si rende conto di trovarsi di fronte non ad una promessa della politica ma ad uno spietato serial killer con la passione per il cannibalismo è troppo tardi per tirarsi indietro. Il coinvolgimento, che smuove al ripugnante e allo stesso tempo invoca all’immedesimazione, è magistralmente preparato dalla scrittura di Liberti e dall’interpretazione di Taddei, che colgono la partecipazione dello spettatore in un ambiguo sprofondamento individuale all’interno del tessuto dello spettacolo: quando si desidererebbe allontanarsi dalle efferatezze del protagonista, farsi da parte, fuggire forse, la trappola di parole e voce, di espressioni e immagini, è già scattata da un pezzo.
Roberta Ferraresi
Visto a Estate a Radicondoli