Recensione a Ubu roi – regia di Roberto Latini/ Fortebraccio Teatro
Sembra di stare a una gran festa, con palloncini, colori sgargianti, piume che svolazzano e ambienti chiari; ma c’è un’artificialità di fondo, un eccesso che mette a disagio, rivela o nasconde, se si preferisce, risvolti agghiaccianti e malinconici. L’Ubu roi messo in scena da Roberto Latini è ricco di elementi, citazioni e rimandi; ma soprattutto è uno spettacolo fuorviante, a tratti ostile, dove nel complesso la sensazione è di malessere, di inadeguatezza in un luogo in cui l’ilarità sfocia in isterismo e una grande solitudine combatte contro un mondo fatto di crudele arrivismo e apatiche esistenze. Densa e impegnativa, ironica e grottesca, la regia di Latini abbraccia un percorso che inizia da lontano: non parte da Jarry, ma ancor prima da Shakespeare per poi penetrare il padre della patafisica e urtare contro Carmelo Bene e Leo De Berardinis, chiamandoli dentro un calderone dove i personaggi non sono che marionette, esserini rappresentativi di un mondo marcio da cui vorremmo prendere le distanze. Eccoli infatti i protagonisti: un Padre Ubu, interpretato da Savino Paparella, che provoca morte e sofferenza per sostituire la figura del re e un eccellente Ciro Masella nei panni di una donna isterica e feroce, una Madre Ubu priva di ogni morale, che spinge il suo uomo a compiere ogni aberrazione, proprio come fece Lady Macbeth intenta a guardare le sue mani sporche di un sangue che non la lasciava più.
Latini crea immagini sceniche che sembrano uscire da libri pop-up, cartoni animati dove i personaggi prendono vita da bizzarre vignette, coi loro volti pitturati e con parrucche increspate: sicuramente ben si presta il testo di Jarry alle soluzioni brillanti e fantasiose dove il re Venceslao, un inquietante Lorenzo Berti, non è che un pupazzo trascinato a fatica sopra una carriola, intento a ridere per nulla; la moglie Rosmunda, Sebastian Barbalan, un manichino scattoso completamente disinteressato al figlio, il principe Bugrelao dal volto colorato ma triste, un Simone Perinelli che trova il suo senso solo dietro una cornice – concreta e non metaforica – impostagli, senza alcuna possibilità di fuga. Non c’è spazio per le donne in questo mondo dove gli uomini – o meglio ominicchi, manichini, mezze figurine o addirittura strani incroci tra uomo e gallo (come il Capitano Bordure interpretato dall’irresistibile Marco Jackson Vergani) – ne prendono il posto da prime attrici; tanto meglio poi se l’unica presenza femminile di Fabiana Gabanini risulta sottotono, catena debole purtroppo di un gruppo di attori ben rodati.
Ubu roi non è solamente una frenesia di immagini e ritmati isterismi dati dal testo di Jarry. Con la regia di Latini tutto si svolge in un’atmosfera rarefatta e un po’ orientaleggiante, in uno spaesamento dove ad accoglierti sono omuncoli da vesti lunghe e bianche, con indosso maschere identiche tra loro e prive di alcun tipo di espressione. Sono esseri pacati, anonimi e silenziosi: vivono eseguendo ordini o se ne stanno astrattamente in attesa; ma non di qualcosa che debba avvenire, semplicemente vivono, privi di ogni impulso a essere.
Ecco che tra spaesamenti e isterismi si inseriscono le solitudini care a Latini, onnipresente in scena con indosso i panni di Pinocchio, figura giocosa e distaccata, triste ed emarginata. La musica di Gianluca Misiti scandisce i differenti momenti, dalle scene frenetiche e di rimandi collodiani a quelle di solitudine dove il regista-attore dà voce – e quasi sembra intonare stupendi canti-preghiera – a monologhi dove protagonista è «il destino che governa su questo mondo». Dove il fato è un drappo rosso che elegantemente esce di scena dopo aver inghiottito quel che poteva: in fondo «non c’è altro rimedio che il dolore del cuore in avvenire».
Ed è proprio questa presenza di Roberto Latini in scena a far percepire un distacco e ad attrarre allo stesso tempo, per il suo essere fuori posto e per la sua forza evocatrice: sembra combattere da solo contro il volume troppo alto che contraddistingue le nostre vite, contro i discorsi che gridano aberranti frasi di arrivismo politico e di egoismo. Latini vive in contrappunto, è quella figura che Don DeLillo definiva come «una sagoma in sbiadita lontananza»: qui i contorni sono ben definiti, c’è una vicinanza alla sofferenza e nonostante tutto il chiasso presente sul palco, la solitudine pervade ogni singola scena di questo Ubu roi.
Visto al Teatro Rasi, Ravenna
Carlotta Tringali