Recensione a Harawi – di Santasangre
Harawi, l’incontro fra la ricerca performativa di Santasangre e la musica sperimentale di Olivier Messiaen, è tutto sui toni del grigio, su ombre sempre più presenti, sulle micro-variazioni della penombra, sullo spessore dell’intangibile e sulla presenza della soglia fra visibile e non. È un lavoro che porta in scena tutta la complessità di un’opera di teatro musicale o, meglio – visto che si tratta di un ciclo di Lieder, certo non pensato inizialmente per il teatro –, di una rappresentazione scenica che si avvale dell’esplorazione di diverse lingue e differenti linguaggi: dodici canti per pianoforte e soprano, scritti dal compositore francese nel ’45, e l’intreccio di performance e nuove tecnologie per cui il collettivo romano è noto da anni sulle scene italiane.
La creazione che la Sagra Malatestiana di Rimini ha commissionato nel 2012 a Santasangre torna per la prima volta in scena dal debutto dell’estate scorsa in occasione di Romaeuropa Festival – occasione che permette di apprezzare, ancora una volta, il lavoro della Fondazione romana, la cui programmazione è forse più celebre per le imperdibili aperture internazionali, ma merita particolare attenzione anche per l’attento lavoro svolto negli anni con e sulla scena italiana.
Al centro di Harawi, prima di tutto, il tessuto sonoro: un continuum quasi integrale che accompagna l’opera dall’inizio alla fine con il pianoforte di Lucio Perotti e la voce di Matelda Viola. Entrambi sono collocati a fondo scena, separati dal resto da un tulle che abbraccia tutto il proscenio. Restano, di fatto, come un sottofondo degli accadimenti, uno sfondo lontano, seppure sempre ben presente.
Nella parte più avanzata del palco, invece, si svolge l’azione performativa: un lui e una lei, abiti chiari e gesti maturi, ripercorrono una storia di amore e morte. Con gesti determinati, piccoli, ma di grande portato emotivo. In silenzio. Un prendersi per mano, un accasciarsi sul corpo dell’amato, un separarsi piano in cui il topos dell’amore di una vita è raccontato per piccoli emblemi gestuali. Sarebbero, nell’intenzione di Messiaen, Olivier (il nome stesso del compositore) e Piroutcha (nome femminile attinto dalla cultura quechua cui Harawi rimanda); si ispirano all’archetipo dell’amore assoluto, Tristano e Isotta (cui Messiaen dedica, assieme a questo, altri due pezzi di un’intera trilogia). Ma in scena sono semplicemente Maria Teresa (Bax) e Marcello (Sambati). Ce lo dice con piglio un po’ didascalico la proiezione delle scritte disegnate live con una tavoletta grafica, giusto sopra le teste dei due performer, a introdurne l’azione: scrive prima una coppia di nomi, poi la cancella e ne sceglie un’altra, poi un’altra ancora, come a evocare la sovrapposizione di intenzioni e di autorialità in gioco in questo Harawi. Il tema è quello di una storia di amore e morte per eccellenza, le sue versioni, sembra ci dicano le scritte, invece sono diverse: l’archetipo torna a incarnarsi nei successivi appuntamenti autoriali in cui è precipitato, da Wagner a Messiaen ai Santasangre.
L’azione dei due performer, in certi momenti di una certa bellezza per la sua precisione e la delicatezza, per tutta la durata dello spettacolo, è lontana sia dalla composizione musicale (con il tulle a metà palco), ma anche dalla platea, da cui è separata da un ulteriore velatino.
Su entrambi le superfici – che non è azzardato definire schermi, per la loro imponenza sia scenica che drammaturgica – di tanto in tanto incedono, non solo spunti informativi e deviazioni di senso a volte stimolanti ad opera della tavoletta grafica, ma soprattutto ampie proiezioni video. A volte sono frammenti estratti da una realtà metropolitana, con i suoi innesti tecnologici e uno skyline ben squadrato dalle cime di cemento dei grattacieli, decorata da graffiti e attraversata da miriadi di passi sconosciuti, ombre, profili di persone; altre volte, il video accoglie creazioni astratte, che sembrano più prossime alla forza degli elementi naturali. Spesso le proiezioni dei due schermi si sovrappongono, dando vita in qualche caso a interessanti giochi di rimandi o distorsioni, a volte addirittura capaci di approfondire un segno, un passaggio, un pezzetto di paesaggio.
Ognuno di questi piani – linguistici e drammaturgici – si sviluppa secondo linee proprie, beninteso osservando una reciproca concordanza almeno ritmica; ma la loro interazione è spesso negata, non solo dalla scelta dell’impostazione spaziale, così nettamente articolata, e nemmeno dal rischio di sovrapposizione, che invece rivela in qualche caso opportunità sceniche di spessore. Il punto, forse, è nel piglio insistentemente ostensivo che ritorna lungo tutto lo spettacolo, tanto nell’utilizzo dei diversi mezzi che nell’impostazione delle azioni: Harawi si inaugura con altri due performer sul filo del proscenio, lui (Antonello Compagnoni) in abiti sportivi si esibisce in una piccola acrobazia, lei (Monica Galli) accoglie sul braccio un falco, possibile rimando all’altra passione di Olivier Messiaen, l’ornitologia; potrebbe essere una pratica ostensiva giustamente legata a una funzione introduttiva rispetto allo spettacolo, come cornice o inquadramento, ma accade lo stesso quando entrambi ritornano, più tardi, in scena, con il ginnasta alle prese con un esercizio agli anelli e, in un altro momento, con la falconiera che esibisce il rapace sullo sfondo. Sono scene emblematiche, anche affascinanti, ma in tutto e per tutto chiuse in se stesse, a dimostrare, appunto, soprattutto la loro presenza. La stessa pratica espositiva torna in altri momenti, arricchendosi della possibilità di introdurre – sarebbe meglio dire prevedere – scene e azioni: la presenza di due anelli da atletica invoca il successivo esercizio del ginnasta e la morte dei due amanti è introdotta dal loro stesso disegno, a terra, delle sagome dei propri corpi, come nei film polizieschi. Ma non si tratta di un carattere episodico, legato a questa o quell’altra azione, quanto piuttosto di un’impostazione più diffusa volta a far affiorare in continuazione l’intenzione drammaturgica, a dichiararla con buon margine di anticipo: ogni passaggio della delicata quanto travolgente storia d’amore è cadenzato e ricalcato da scelte performative che fanno riferimento ai più noti archetipi e cliché gestuali di quel momento (un abbraccio, l’abbandono, la separazione…); lo stesso per i video, spesso a rischio di restare relegati in una funzione più decorativa (e meno drammaturgica) e infine così anche per le interazioni live di disegno digitale, il cui potenziale si esprime pienamente solo in alcuni momenti, mentre diffusamente si fa accessorio, marginale, quasi di sfondo. Questa continua tentazione all’ostensione, ricorrente a diverse altezze e in momenti differenti, non manifesta soltanto la possibilità di condizionare temporaneamente in secondo piano, a una dimensione puramente contestuale, gli altri elementi in scena: la concentrazione esclusiva che viene di volta in volta riservata all’uno o all’altro piano, propone anche il rischio di una deriva virtuosistica all’interno di uno stesso campo linguistico o semantico.
Spesso, la separatezza originaria fra i diversi linguaggi in scena obbliga in effetti a un primato dell’uno sull’altro mezzo, di una scena sull’altra: a volte l’imponenza (non solo visiva) del video nasconde le azioni dei performer, in altre ha il sopravvento anche sulla collocazione della musica; in altri casi, sono i due attori ad attrarre la scena verso di sé, rendendo laterali e didascalici il canto o gli inserti visivo-testuali e, infine, naturalmente, la presenza della cantante è spesso a rischio di dominare tanto il contesto visivo che quello drammaturgico. Sembrerebbe un inseguirsi vorticoso di stimoli, presenze, possibilità, ma l’esito è tutt’altro che avvincente: i rimandi fra l’una e l’altra opzione sono quasi inesistenti, come se ognuna di esse potesse svilupparsi in tutta autonomia lungo il proprio itinerario e, più che uno spettacolo unitario, si fosse coinvolti in un succedersi di frammenti autonomi, sia in senso linguistico che drammaturgico. È come essere di fronte a un’inconciliabilità sostanziale fra spazio, linguaggio, persona. Quello che torna, scena dopo scena, è il senso di un appuntamento rimandato, continuamente mancato, che è in effetti quello che accade per lungo tempo fra i due amanti, il cui rapporto – straordinariamente sviluppato dalla partitura e dall’interpretazione di Sambati e Bax – si riverbera più in termini di giustapposizione, prossimità e possibilità che di effettiva fusione.
La scelta di lavorare in parallelo su diversi linguaggi, evitando i rischi di banalizzazione e omogeneizzazione impliciti in opzioni di commistione, concentrandosi sulla specifica potenza di ognuno e valorizzandone quindi l’autonomia, emerge certo con grande coerenza da Harawi (certe volte anche con dichiarazioni eccessive, come la necessità del doppio velatino che separa esplicitamente scena e platea, le articolazioni interne dello spazio scenico, le “didascalie” proiettate). Peccato che i punti di maggiore interesse scenico di questo lavoro sembrino andare a collocarsi invece proprio laddove lo scarto irriducibile fra i diversi linguaggi in gioco pare dissolversi, suggerendo qualche cortocircuito inaspettato e aprendo la cornice della creazione a nuovi orizzonti. Ad esempio quando la piccola potenza performativa dei due attori interagisce con musica e disegno digitale dal vivo: c’è un passaggio in cui è il tratto luminoso della tavoletta grafica a farli emergere e sparire dalla scena, a evidenziarne le mani intrecciate in un momento di grande impatto emotivo; così, valorizza la maturità dei loro gesti, il loro spessore, la pregnanza del loro rapporto. Certo, come si è detto, spesso queste opportunità sono spezzate da una particolare scelta di frammentazione linguistica e drammaturgica; ma la loro presenza è in ogni caso indicativa, perché lascia trasparire il piano di una ricerca magmatica, tuttora ben attiva e, forse, anche intravedere una possibile strada di sviluppo del lavoro della compagnia romana: quella che potrebbe reintrodurre, in termini del tutto inediti, il tema dell’umano in scena, in un rapporto originale – non accessorio né mediato – rispetto all’utilizzo della tecnologia dal vivo. In quei casi in cui questa opzione sembra più vicina, va detto subito, l’esito scenico è di un certo impatto, riuscendo a riorganizzare la materialità del visivo con quella, altrettanto forte, del gesto umano; a superare le impasse della metafisica dell’assenza, con la sua tendenza alla rarefazione e a volte un certo rischio di deriva verso frontiere esclusivamente virtuosistiche, attraverso una potente rivendicazione della presenza, della poesia che scaturisce appunto dalle possibilità di trasformazione della sua materialità. Mimica o visiva, umana o tecnologica che sia.
Visto a Romaeuropa Festival
Roberta Ferraresi