Akakij Akakievich è uno dei numerosi impiegati di uno dei tanti dipartimenti di San Pietroburgo. È invisibile per i suoi colleghi di lavoro, per i suoi capi, per i suoi vicini e, anche, per la Compagnia Trepunti, che decide di narrarne la storia senza mai farlo comparire in scena. La disgraziata vicenda dell'insignificante scrivano de Il Cappotto viene, infatti, raccontata dalle persone che lo circondano, lo spiano, lo maltrattano, lo criticano o lo aiutano. A dare corpo e voce ai vari personaggi tre neodiplomati attori dell'Accademia Teatrale Veneta: Sara Bettella, Claudia Gafà e Demis Marin. Scene e costumi, ideati da Anna Storti e realizzati da scarti, recuperi ed assemblaggi grazie alla collaborazione con la Cooperativa Sociale Mani Tese di Padova, si fanno notare per un'estetica semplice ma d'impatto ed una totale funzionalità. Un grande tavolo si trasforma, a seconda delle necessità, in scrivania, porta, finestra o letto, offrendo al regista della pièce e autore dell'adattamento, Stefano Pagin, occasione per divertenti soluzioni sceniche e originali siparietti.Per i tre giovani attori lo spettacolo si rivela un'ottima palestra di prova, richiedendo loro continui cambiamenti di ruolo e toni ed una recitazione forzata ed antinaturalistica. Un debutto che li promuove a pieno titolo: in scena tengono attenzione e personaggio fino alla fine, con grande sicurezza e convinzione. Nonostante un testo eccessivamente prolisso: quello che sulla carta - scritta nel 1843 da Nicolaj V. Gogol - è un racconto leggero, breve e sarcastico, in scena perde molti di questi aspetti. L'adattamento di Pagin resta troppo fedele all'originale, non osando una vera trasposizione drammaturgica ma scegliendo, al contrario, di mantenere fortemente in evidenza la matrice narrativa del testo di riferimento. In pericolo l'attenzione del pubblico, che rischia a tratti di scemare, perdendosi in un fiume di parole non sempre facile da seguire.
A farne più le spese è il carattere grottesco del testo dello scrittore russo, eccessivamente smorzato in una messa in scena che, sebbene promettesse, nelle note di regia, «tre ‘clown’ maligni», nella pratica non accentua il carattere ‘clownesco’ dei personaggi né la forza sarcastica dell’operazione. Il risultato è uno spettacolo che manca di umorismo, che rende eccessivamente severo un racconto che, forse, vorrebbe essere preso un po’ meno ‘sul serio’. Perché, come dice Nabokov, è «l’assurdo la musa favorita di Gogol».