Basta un espediente qualsiasi per dare avvio a una drammaturgia. Una scintilla qualunque può innescare una sequenza di azioni e di parole che, come cerchi concentrici, procedono, potenzialmente all’infinito.
Nel caso dello spettacolo Tamam Schud di Alex Cecchetti il garante della meccanica ondulatoria è lui stesso, l’espediente di partenza, il sasso, è la morte del personaggio che interpreta.
Tutti in piedi, muovendosi in tre diverse aule della Scuola di musica “Giuseppe Verdi”, durante il Festival Contemporanea di Prato, gli spettatori assistono alla cascata di parole, suoni e azioni orchestrati dal performer che, partendo, appunto, dalla scintilla iniziale del “Sono morto”, articola uno spettacolo lungo e complesso fatto di pezzi sciolti che ruotano tutti intorno al tema del decesso: tamam shud, infatti, in persiano, significa “Questa è la fine”.
Nel 1948, in Australia, venne ritrovato un cadavere sulla spiaggia di Somerton, con un pezzo di carta in tasca, strappato dal volume di poesie persiane Rubʿayyāt di ʿUmar Khayyām che recitava il breve motto. Inutili le indagini condotte per identificare il John Doe e per ricostruire la dinamica e le cause del suo omicidio, oltre che le connessioni tra lo stesso e lo stralcio del libro. Ma il legame con questa storia sembra non contare molto ai fini dell’evoluzione dello spettacolo, poiché l’unica cosa che conta è che il performer interpreta un morto e, quindi, può permettersi di tutto: raccontare traumi e rimossi, riflettere su quella che è stata la sua vita e su ciò che è la vita in generale, prendersi gioco dei suoi spettatori e coinvolgerli, con gentilezza, nel suo grottesco dramma, farli vittima di innocue immersioni performative volte alla dimostrazione di una tesi.
Si ha l’impressione vivida che il repertorio di Cecchetti in cui si articola l’avanzare dell’opera-onda sia vastissimo e composto da pezzi, formalmente fissi, che vanno ad articolare una drammaturgia che si crea in presenza, in ascolto del pubblico e della sua disponibilità alla reazione e alla partecipazione. La variabile pubblico, dunque, insieme all’umore del performer, modificano l’articolazione della drammaturgia, al punto che ogni pezzo è spesso presentato da un’espressione-ponte, detta dall’attore e non dal personaggio morto, come: “Adesso vi faccio il pezzo sulla coscienza che dura 7 minuti precisi”, o si conclude con un commento che fa riferimento ad un’altra replica, come: “Questa a Terni non l’hanno capita”. Eppure, ci sono delle pietre miliari, nel percorso disegnato durante la performance: in scena, infatti, non c’è solo Cecchetti, ma anche due cantanti lirici (i bravissimi e giovanissimi Elisabetta Vuocolo e Alessio Barni) che si aggirano tra gli spettatori e, al segnale dell’artista, intonano un’aria.
Performer, dunque, e anche ragionatore, personaggio epico, ma anti-didascalico, che si disinteressa della trama, per affondare nell’ermeneutica, nella critica del senso comune e degli usi e costumi del contemporaneo, frustrare, continuamente, le aspettative dello spettatore che lo vorrebbe mattatore e lo trova, invece, polemico e feroce, mentre l’onda avanza, con impeto, tra un calambour spinto, una freddura, il silenzio, anche, perché non c’è nulla di più scandaloso.
Lui stesso la chiama art of avoidance, arte dell’evitamento, dell’elusione, del rimando. E mai espressione fu più appropriata a definire il suo impianto, soprattutto data la presenza, all’interno del termine, della desinenza “dance” che a questa arte dell’elusione conferisce la forza della frenesia, una peculiarità di questo artista che non sta mai fermo, non sta quasi mai zitto, avvolge e respinge di continuo. “His work is focused in the construction of specific narratives that are experienced both mentally and physically by the audience”, si legge sul suo sito.
In questa esperienza condivisa dall’attore e dal suo pubblico, Cecchetti non può far a meno della parola: la usa, la rispetta, ci si appoggia, e poi, la critica, la bistratta, la confuta. Allora è davvero un’avoid-dance: una danza dello slalom, fisico e verbale, che l’artista compie, instancabile, irrefrenabile, in picchiata, lungo una discesa di senso che potrebbe potenzialmente non finire mai. Per queste ragioni, alla fine di Tamam Shud, si ha come un senso di irrisolto che interroga, la percezione che lo spettacolo potrebbe continuare all’infinito, che i finali sono multipli, che il rizoma ha preso possesso della drammaturgia, ne ha negato alcune regole fondamentali, per farla fiorire in un riuscito esercizio di stile.
di Nicoletta Lupia