Intervista a Valeria Raimondi di Babilonia Teatri, a cura di Camilla Toso
I vostri lavori iniziano a farsi spazio tra quelle che possiamo definire Nuove Drammaturgie, sono ricchi di materialei proveniente dai media contemporanei, usano un linguaggio diretto e sintetico. Qual’è il tipo di ricerca che fate quando iniziate a lavorare su un testo, come trovate ed assemblate i materiali, come nasce un copione?
Noi non arriviamo mai a provare con un copione scritto, arriviamo con tanto materiale, che può essere una canzone, una pubblicità, un testo da noi scritto, un’immagine, una suggestione, un assemblaggio. A volte fotocopiamo, prendiamo i risultati delle ricerche su google, ad esempio per la parola ITALIA, le sparpagliamo tutto su un tavolo e iniziamo ad assemblarle in una playlist. Una serie di pezzi, accostati con canzoni e telecronache registrate. E’ un lavoro di montaggio tutto fatto a tavolino, il che fa pensare al vecchio teatro a quando il regista si sedeva a tavolino con gli attori e discutevano sulle intenzioni; invece il nostro è un lavoro completamente diverso. Non c’è un lavoro di improvvisazione, su palcoscenico ma tutto il pre in cui accumuliamo parole accumuliamo immagini che è fondamentale. Il lavoro di scrittura procede di pari passo con tutto quello che succede nella scena, il tutto però deve essere provato e testato, perché usando la tecnica dell’unisono i testi devono essere detti, e quindi ciò che sulla carta può funzionare molto bene nel momento in cui la devi dire, nel modo in cui noi diciamo le battute, la devi tagliare o ricontrollare la metrica.
Come è nato PopStar?
Inizialmente era Terminus e ci era stato commissionato da Rodolfo di Gianmarco per la sua rassegna di Teatro anglosassone. Il lavoro è partito con la suggestione di un testo di uno scrittore irlandese che però abbiamo completamente abbandonato, perché era molto lontano dal nostro immaginario. Era ambientato in Irlanda a Dublino: un testo bellissimo ma che non parlava la nostra lingua, ed era troppo letterario. A noi interessava invece parlare di quello che ci preme addosso. Questo spunto iniziale ci ha messo a confronto con una storia. Abbiamo deciso di raccontare una storia, che non ha più nulla a che fare con l’Irlanda, abbiamo abbandonato molti riferimenti iconografici di O’Rowe che non appartengono al nostro mondo, per trasportare la trama nella nostra realtà. Quindi è diventata una storia di osterie venete, in cui raccontiamo tre solitudini tipicamente nostrane.
La vostra è una recitazione-non recitazione, che tipo di lavoro fate sull’attore?
Noi cerchiamo di non recitare, il tentativo è quello di essere veri, di trovare un modo per cui la gente ti stia ad ascoltare e creda alle cose che tu dici, ben sapendo di trovarsi a teatro. Secondo noi la recitazione tradizionale non riesce più ad arrivare a questo. Così abbiamo trovato questa possibilità del parlare all’unisono ed in un tono neutro. In PopStar questa modalità viene declinata in un modo completamente diverso, perché se negli altri spettacoli c’è questo tentativo di secchezza, in quest’ultimo lavoro, siamo riusciti veramente a creare dei personaggi. Per cui la tecnica attoriale c’è, ed è fatta di rigore e caos, precisione ed esplosione, in ogni nostro lavoro ci sono dei momenti di esplosione che cerchiamo di non codificare. Ad esempio in Made in Italy e Underwork, si lavora su blocchi di lavoro quadrati e precisi, alternati a momenti di pura follia e improvvisazione. C’è tanto allenamento e lavoro di gruppo, che è alla base dello stare in scena.