teatri delle mura 2009

Ballando con uno scheletro

Recensione de Il castello di Holstebro II– Julia Varley, Odin Teatret

Un flusso di coscienza, un labirinto di pensieri che si intrecciano casualmente portando riflessioni amare, sulla triste temporalità della vita: questo il tesoro nascosto del Castello di Holstebro II, spettacolo portato in scena da una storica attrice dell’Odin Teatret, compagnia danese fondata da Eugenio Barba. Julia Varley interpreta questa particolare messinscena, dove frammenti di un sogno prendono vita attraverso la sua voce. Holstebro è la città danese dove l’Odin opera, e il suo castello è tutto il bagaglio acquisito in più di quarant’anni di esperienza che ha portato questa compagnia a compiere viaggi specialmente in Sud America e in terre lontane dall’Europa.

Da questo percorso errante derivano tradizioni teatrali differenti, modi di usare il corpo in scena che si discostano da quelli che si è abituati a vedere tra le compagnie degli stabili italiani. La Varley, sola sul palco, balla in mondo infantile, reggendosi la gonna, o si nasconde il capo con una stoffa; le espressioni del suo viso sono tenere, rilassate mentre la sua voce pronuncia aspre verità. Il corpo non risponde alle sensazioni veicolate attraverso le parole: afferma sorridente che tutti i giovani moriranno presto o mentre racconta di una ragazza annegata, il suo volto trova la serenità.

Centrale in questo lavoro è il tema della morte: un teschio la accompagna per tutta la durata dello spettacolo, assistendo silenziosamente al suo flusso di riflessioni e costituendo una sorta di alter ego della donna. Inizialmente è lei stessa a muovere questa testa ossuta, posizionata sopra il suo capo a sua volta nascosto sotto l’abito: il frac indossato fa sembrare la strana figura un fantasma enorme, elegante e sproporzionato; tolti i pantaloni e indossata una gonna, essa acquista improvvisamente una caratteristica femminile: è un gioco di velamento e disvelamento. Ma il teschio non appartiene né all’universo femminile né a quello maschile: perché la morte non ha volto, colpisce chiunque. E l’attrice narra così di un bambino annegato, di una giovane che fece la stessa fine mentre raccoglieva dei fiori. Gioia e sofferenza proseguono a braccetto, proprio come vita e morte non possono esistere separatamente, perché “qualsiasi posto illuminato avrà sempre la sua ombra” e qualsiasi essere la sua fine.

Lo spettacolo scorre tra la bravura dell’attrice – che usa la sua voce passando da una tonalità bassa e roca a urla che si avvicinano a ultrasuoni – e pensieri confusi, labirintici: ma è un giardino silenzioso quello in cui ci si aggira, popolato da strane figure tutte prossime alla morte.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Carlotta Tringali

Un silenzio che (in)canta

Recensione a L’eco del Silenzio – dimostrazione di lavoro di e con Julia Varley

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

“Ho scelto il silenzio come tema di una dimostrazione sulla voce  perché vorrei che fosse il silenzio a cantare” spiega alla fine del suo Eco del Silenzio Julia Varley. In un compendio di tutta la sua esperienza e sapienza vocale, la celebre attrice dell’Odin Teatret ripercorre la sua carriera: dalle prime difficoltà incontrate per la sua voce tremolante e come bloccata in gola, agli escamotage trovati per poter cantare in scena, ai numerosi esercizi studiati per superare i propri limiti. O come poterli trasformare in punti di forza: per esempio,  il suo tremolio vocale è perfetto per i canti indiani, ed è proprio cantando uno di questo componimenti che, per la prima volta, dice di aver riconosciuto la sua voce.
In poco più di un ora, attraverso poesie, canzoni, sequenze fisiche ed estratti di suoi spettacoli, la Varley regala al pubblico una dimostrazione di virtuosismo vocale e padronanza assoluta del mezzo, mostrando diversi modi di recitare un testo in scena trovando il sotto-testo nelle azioni fisiche, o in una melodia, o, altre volte, nel testo stesso.

Difficile rendere giustizia, a parole, a L’eco del Silenzio. Descrivere degli esperimenti vocali, cercare di trasmettere la forza della voce, la poesia della trasformazione di cui questa grande attrice è capace.  Recita un testo seguendo l’intonazione che l’azione, la velocità del passo, il movimento le suggeriscono, ed è come se la sua voce “ballasse” con il corpo. Ruba ai versi degli animali sfumature, grane vocali e  tonalità per dar voce ai suoi personaggi. Inventa lingue rendendole immediatamente credibili e canta canzoni con un filo di voce. È un po’ come assistere ad uno spettacolo di un grande mago che svela, con generoso desiderio di condivisione, tutti i suoi trucchi – e, in effetti, di momenti magici la Varley ne regala molti.

Lo spettatore scopre, stupito, le infinite capacità della voce umana. Uno strumento musicale eccezionale, capace di aprire l’immaginazione, creare creature, personaggi e mondi. La Varley svela con semplicità tutto questo, spiegando che, come con tutti gli alri strumenti, occorra esercitarsi con la voce per farla “suonare” alla perfezione. Ed il risultato di decenni di studio si riassumono, alla fine, in un canto sommesso ma teso, energico ma quasi impercettibile, in cui sembra davvero di sentir cantare il silenzio.

visto al Teatro Studio – Padova

Silvia Gatto

Ricerca Centrifuga

Approfondimento a Electric Party– Mario Biagini

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

Si conclude ieri il ciclo di performance proposto dal Work Center Grotowski and Thomas Richards. Electric Party, è lo studio condotto  su materiali sonori di canti e poetiche sviluppatosi tra Nord e Sud America, una ricerca in corso da due anni, che porterà allo sviluppo di una drammaturgia e di un opera completa  per l’autunno prossimo. Nell’ambito del progetto di ricerca OPEN PROGRAM, condotto da Mario Biagini,  il gruppo d’attori  lavora  sullo sviluppo di una forte coesione sociale tra i singoli individui e tra essi ed il pubblico. I principi fondanti del Teatro Povero di Grotowski, la relazione tra attore e spettatore, l’idea che il teatro si possa fare semplicemente con il rapporto umano, sono alla base di questo centro di lavoro.
All’apice della sua carriera, Grotowski si ritira dalla scena: non gli basta più il concetto di Teatro dell’incontro, vuole più verità, non accetta più il principio di finzione che sta alla base di qualunque spettacolo. Inizia così un intensa fase di ricerca -diffusa attraverso conferenze e laboratori. Gli attori non si esibiscono più per un pubblico ma piuttosto sviluppano la spiritualità della scena, che diventa un vero e proprio spazio sacro atto ad ospitare più un rituale che uno spettacolo. Le rare rappresentazioni pubbliche degli ultimi anni sono isolate ed “aperte” ad un pubblico selezionato, che si trova ad essere testimone di una cerimonia e non più spettatore. Da questa forza centripeta, volta ad una ricerca richiusa su se stessa, al contempo esclusiva ed escludente, si sviluppa l’opera del Work Center Grotowski. Dopo anni di chiusura e studio il moto della ricerca si inverte, la forza diventa centrifuga, con l’OPEN PROGRAM i materiali iniziano ad essere mostrati pubblicamente. Si apre il dialogo a lavori ancora in corso, si cerca un confronto con il pubblico, un incontro.

foto di Claudia Fabris
foto di Claudia Fabris

Da qui nasce la festa/spettacolo Electric Party: gli attori sono carichi di un’energia mai vista, e diventa immediatamente lampante tutto il lavoro sulla vocalità, l’intonazione, l’uso del corpo in funzione della voce; tutto è presente e perfetto in questi giovani attori. Testi poetici e canti risuonano per più di due ore in uno spazio circolare, lo sguardo è rivolto al pubblico, che forse per problemi di lingua e comprensioni, non si sente pienamente coinvolto. Eppure la festa è lì, a portata di mano.

Camilla Toso

Videointervista a Vitaliano Trevisan &co.

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Vitaliano Trevisan, classe 1960, scrittore e drammaturgo. Noto al pubblico dal 2002 con I quindicimila passi, ha da poco pubblicato la raccolta Grotteschi e arabeschi. I suoi testi teatrali sono stati messi in scena da Valter Malosti e Toni Servillo; di recente pubblicazione per Einaudi I due monologhi, ossia Oscillazioni e Solo RH portato in scena nell’edizione del Festival delle Mura 2007 da Roberto Herlitzka. È il protagonista del film Primo Amore di Matteo Garrone di cui è anche co-sceneggiatore, e attore nel film Il riparo di Marco Simon Puccioni, miglior film al festival di Annecy nel 2007, oltre che nel film Dall’altra parte del mare di Veronica Perugini. Nel 2008 ha ricevuto a Parigi il Premio Campiello Europa.

Tiziano Scarpa, classe 1963, scrittore e drammaturgo. Autore di numerosi romanzi, tra cui Occhi sulla graticola del 1996, Kamikaze d’Occidente, del 2003 e il più recente Stabat Mater del 2008; ha scritto anche racconti, interventi critici, poesie, radiodrammi. Per il teatro ha pubblicato numerosi testi, da ultimo L’inseguitore nel 2008. Nel 2007 ha vinto il premio speciale Chi è di scena per il migliore adattamento contemporaneo di Goldoni per la drammaturgia de L’ultima casa, presentato in occasione del 39. Festival Internazionale del Teatro della Biennale, con la messa in scena di Pantakin. Intensa è anche la sua attività performativa, fra le sue principali letture sceniche: Pop corn; Groppi d’amore nella scuraglia; e i più recenti I versi delle bestie e Stabat Mater.
Carla Chiarelli, diplomata attrice alla Civica Scuola D’Arte Drammatica di Milano, ha lavorato nei maggiori teatri stabili italiani diretta da registi quali Martone, Castri, Lievi, Mezzadri, Solari, Shammah e al cinema con Soldini, Verdone, D’Ambrosi. Nel 1998 entra nella compagnia Quellicherestano. Da tempo rivolge la sua attenzione al mondo della scrittura contemporanea, diventando preziosa interprete e collaboratrice di autori quali, tra gli altri, Pagliarani, Matteucci, Scarpa, Jelinek, Parise, Ginzburg, Moresco.
Fabrizio Parenti, attore, regista,drammaturgo. Fondatore nel 1992 della compagnia Quellicherestano, arriva al teatro dopo esperienze nella scrittura e nella performance. Interprete protagonista di tutte le produzioni della compagnia, da alcuni anni si dedica prevalentemente alla regia e alla drammaturgia, sia nel campo teatrale che in quello degli eventi culturali.

(Dal Catalogo del Festival Teatri delle Mura)

Intervista al gruppo Motus

Intervista a Enrico Casagrande e Daniela Nicolò – Motus – a cura di Carlotta Tringali

Come si è sviluppato il percorso/progetto partito da X(ics). Racconti crudeli della giovinezza, arrivato fino a Crac? Rispetto alle tappe precedenti c’è una sostanziale differenza in questo lavoro che risulta molto concettuale, essenziale…

Enrico: Siamo arrivati a Crac dopo aver sviluppato quattro ‘movimenti’ intorno a X (nella periferia romagnola, francese, tedesca e napoletana). C’è una grande aderenza di tutto il progetto X alla città in cui stiamo e ci troviamo. C’è la volontà di vivere la città pienamente: vogliamo stare con la gente, con i ragazzi; vogliamo, in modo documentario, prendere l’umore della città in cui siamo e trasportarlo all’interno del teatro, sul palcoscenico. Ma forse la più grande sfida è poter ripresentare quello che è l’esterno, perché c’è sempre il rischio della finzione. Su questo abbiamo lavorato tanto, per cercare di decodificare questo fuori. Nel processo c’è stata un’inflazione dell’uso dell’immagine. Quello che si vede all’interno degli spettacoli di X è solo una parte delle 50/60 ore di girato fatto ogni volta sulle città, c’è una grande persistenza dell’immagine reale. All’interno di X c’è questa sintesi del girato e Crac deriva da quello, dal lavoro sulle immagine sintetiche. Con Crac ci siamo concentrati sul poter dare lo stesso un’idea di esterno, di città, però con un’immagine non più riconoscibile, non più palazzi o volti, ma semplicemente dei pixel, quello che è la materia base del video.  Per questo abbiamo utilizzato le linee geometriche che si compongono e scompongono, che però sono evocative di un ‘mondo’ attraverso un’azione, quella di Silvia Calderoni, che non interpreta nulla, ma vive un suo incedere, cadere, nascere, rinascere, crescere… La parte evocativa è qui più espressa rispetto a X.

Daniela: Abbiamo fatto un lavoro di sintesi, ma sempre mantenendo un rapporto con il fuori, con il reale. In Crac, in ogni città in cui ci spostiamo arrivano delle registrazioni relative all’ambiente politico-sociale, alle pressioni della città. Rimangono queste testimonianze, questi frammenti che sono anche registrazioni prese da youtube quando non abbiamo la possibilità di fare una residenza nella città e quindi poter registrare direttamente sulle strade. Youtube è un archivio disorganico, libero, pieno di frammenti che parlano di tensioni o di momenti collettivi. Ogni volta Enrico acquisisce dalla città delle voci provenienti da comizi, manifestazioni, soprattutto dei momenti di tensione politica, legati alla città. Qui a Padova c’erano delle registrazioni agghiaccianti di Forza Nuova, a Torino c’era una parte relativa alla Thyssen e al G8 degli studenti, a Bologna una serie di interviste, fatte in via del Pratello, agli studenti in relazione al coprifuoco della città e alla chiusura dei locali notturni. C’è una base sonora che è sempre quella, che è legata al traffico, al rumore della città, ma vogliamo mantenere una finestra aperta sul luogo che ci ospita, accogliendo dialetti, voci di strade con la loro sporcizia, con le parolacce. C’è questo lavorare con l’astrazione, ma non vogliamo fare un lavoro puramente formale. Desideriamo mantenere un discorso e questo è un equilibrio molto difficile da trovare, perché si viene trascinati e affascinati dalla forma, dalle tecnologie, dal compiacimento puramente tecnico rischiando così di perdere il senso del discorso. Crac utilizza questi mezzi formali, ma senza lasciare fuori la parte concettuale del discorso; guarda a quelle che sono le fratture e le tensioni piuttosto che ai momenti di conciliazione: ma vogliamo anche dare un piccolo segno di resistenza con questa piantina che nasce dallo sfacelo. C’è questo desiderio di rinnovamento. Operazione che ha anche senso presentata non autonomamente, ma insieme a X….

…penso infatti che la percezione del pubblico sia molto diversa e che cambi a seconda dell’aver visto o meno in precedenza lo spettacolo X (ics). Racconti crudeli della giovinezza. Vedendo solamente Crac – che ha una poeticità anche autonoma – possono arrivare degli input circa i temi affrontati con X ma è più difficile fare un percorso mentale completo; forse solo chi ha visto le tappe precedenti di X riesce a svilupparlo…

Daniela: In genere presentiamo insieme lo spettacolo X e poi Crac. A quel punto si capisce molto meglio il percorso fatto e sviluppato in precedenza. Crac a sé è una performance, non ha una velleità spettacolare, anche per la sua breve durata. Ma in molte situazioni, come qui a Padova, ha anche senso presentato autonomamente, inserendosi in un contesto o in un luogo particolare.

State sviluppando un nuovo progetto, sull’Antigone. Come mai ritornare a questo mito oggi?

Enrico: Il mito è solo un pretesto di partenza e si può vedere una certa continuità dopo X. Riprendere questo mito è appunto un pretesto per riflettere su suo elemento cardine: sulla ribellione di Antigone, sull’idea di dire no al potere di Creonte.

Daniela: Su questo punto stiamo sviluppando un processo di creazione che è molto diverso rispetto a tutto X. Siamo già partiti con questo progetto l’estate scorsa facendo un evento in Calabria, in un anfiteatro greco. C’è stata poi una residenza in Francia e lì abbiamo fatto un altro evento. Ora stiamo realizzando workshop – ne abbiamo già fatto uno a Torino – con tanti partecipanti, scrittori, musicisti, giovani attori…

Enrico: Uno dei punti di ispirazione è la povertà di Antigone, mito che parte dalla sua precedente storia, nel viaggio con Edipo, dal suo mendicare, fino alla rinuncia di far parte della famiglia reale: concetti che parlati con la voce del mito possono sembrare arcaici e ridondanti ma che riportati a un contemporaneo sono delle spinte molto forti per noi, per capire cosa ci interessa in questo momento. E la povertà del teatro, un’umiltà sempre più forte del processo creativo ci interessa molto. A Torino la settima scorsa abbiamo fatto questo studio nel nulla, senza video, senza musica, con due corpi e molto testo, ma lavorato a modo nostro; non quello di Sofocle, ma un testo di riflessione dell’attore stesso su quello che sta facendo, un entrare e uscire dal ‘perché’. L’attore stesso, proprio come noi, si domanda il perché fare certe cose sulla scena e perché Antigone oggi.

 

Ballata della semplicità perduta

Recensione di La madre dei gatti – Teatro Tascabile di Bergamo

foto di Andrea Cravotta

Un teatro semplice, fatto di pochi elementi: un siparietto mobile, strumenti musicali e una scena che si compone e scompone, seguendo il movimento dei tre attori. Uno spettacolo di canzoni e ballate popolari riportate in un dialetto, quello milanese, che parla di gente della strada, di malaffari, di un’umanità bassa, ma viva. Il Teatro Tascabile di Bergamo porta al festival di Padova La madre dei gatti, opera che si sviluppa tra le osterie dormienti milanesi, tra ubriachi e vecchie pazze, bordelli e cantastorie. Spazi e personaggi vengono rievocati tramite i testi di Giovanni Barrella, Ivan Della Mea, Dario Fo, Alda Merini e Carlo Porta, storici lombardi che si sono occupati del folclore popolare, ponendo la loro attenzione sugli istinti umani, sulla rabbia di chi ha perso tutto e cerca di sopravvivere, aggrappandosi a una bestemmia leggera, detta sottovoce.

I bravissimi Tiziana Barbiero, Luigia Calcaterra e Alessandro Rigoletti si alternano nel suonare fisarmonica, chitarra, tamburo, violino e tromba; cantano e ballano dando vita a piccoli quadretti di storie intrecciate tra loro, che iniziano con un brindisi a un Dio ingiusto e terminano con una circolarità ritrovata, nel bicchiere di vino bevuto e l’ultima goccia versata a terra. L’ambientazione evocata attraverso la poesia della Merini, “gli anfratti bui delle osterie”, è riprodotta attraverso l’uso di un semplice tavolo, un calice di vino e una donna lì seduta: riviene in mente il quadro di Degas, l’Absinthe, per lo sguardo assente dell’attrice, bevitrice solitaria. Una fioca illuminazione fa emergere dal buio una vecchia malinconica che canta il suo amore sciupato e ormai perduto, rompendo un silenzio tombale, mentre nella scena successiva tre cantori raccontano vivacemente di un miracolo, avvenuto in un bordello. Di una fanciullesca piacevolezza la scena proposta durante la canzone El me gatt, scritta da Della Mea e qui cantata da Rigoletti: piccole marionette di cartone mimano il crudo testo della canzone, riuscendo a ricreare una poetica visione della storia.

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

Perfetta la scelta di interpretare quasi tutto lo spettacolo in dialetto: solo tramite questo linguaggio, vivo e non fittizio, si possono scandagliare le testoriane ‘viscere dell’esistenza’, avvicinandosi al mondo proposto da questi personaggi. Anche chi non conosce il dialetto milanese riesce ad apprezzare il lavoro: gli attori sono infatti molto abili nel restituire un significato comprensibile a tutti, presentato attraverso la gestualità del corpo e l’intonazione vocale. Questo si può notare soprattutto nel monologo finale, dove la Barbiero interpreta il personaggio della mamma di gatt; la donna alterna momenti di dolcezza a stati di pura rabbia per narrare la sua storia: rinchiusa in un manicomio, dopo aver perso il suo bimbo appena dato alla luce, le viene concesso di essere solo madre dei gatti.

Dedicato a Ivan Della Mea, recentemente scomparso, La madre dei gatti alterna divertimento a momenti di estrema drammaticità: basta questa sua semplicità – oggi spesso abbandonata – di un teatro che si spoglia dei suoi ornamenti, per ritornare al luogo originario di incontro tra persone e storie straordinarie.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Carlotta Tringali

Green Valley

Recensione a North B-East – Carichi Sospesi

Marco Tizianel

Non risparmiano niente alla loro città i padovani Marco Tizianel e Silvio Barbiero – dei Carichi Sospesi – ideatori, autori ed interpreti di North B-East. I due artisti, infatti, scagliano un vero e proprio “j’accuse” contro il nord-est, svelandone, con ironia e consapevolezza, tutte lecontraddizioni, attraverso la costruzione di due personaggi decisamente antitetici: uno studente ampiamente fuoricorso, svogliato, incapace di vivere serenamente la propria omosessualità e di ammettere la propria inettitudine alimentata da canne, avventurette e delusioni; un rampante uomo in carriera, bancario, spregiudicato nel suo lavoro, ma saturo di pregiudizi verso tutti gli altri. Rappresentativi, da una parte, di una città universitaria senza fermento creativo ed impegno attivo, perché ormai annegata nello spritz – l’aperitivo sembra divenuto, ormai, l’unica attività ‘extrascolastica’. Ma anche di quel più conosciuto nord-est produttivo, xenofobo, fatto di “capannoni e campi di mais” senza fine e cinici parvenu.

Due stereotipi, quindi, ma sapientemente interpretati da Marco Tizianel (lo studente) e Silvio Barbiero (il funzionario) senza facili ed eccessivi cliché, che avrebbero appiattito i personaggi e ridotto la forza del lavoro. Una forza che sta, invece, proprio nell’assoluta credibilità dei due protagonisti, tristemente realistici, che, ognuno su un cubo in metallo, monologano e mai dialogano, se non per poche battute nel finale.

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Il testo scorre rapido, e nasce evidentemente da una necessità, una consapevolezza di abitare in una regione che sta pericolosamente andando alla deriva; una deriva sempre più tinta di un verde acceso, potente, che fa dell’ignoranza la sua forza, dell’odio la sua bandiera e della cittadinanza l’unico motivo di orgoglio e diritti. Ma la drammaturgia composta dai due debuttanti autori è molto lontana dall’essere un – noioso, seppur condivisibile – proclama politico. Alternando, al contrario, problemi più futili, e che fanno sorridere – come i difetti della mobilità pubblica – a verità più scomode – lo sfruttamento dei clandestini nelle fabbriche abusive, lo spaccio, il muro di via Anelli… – , ma soprattutto filtrando questi contenuti attraverso le vicende personali dei due protagonisti, North B-East diviene uno spettacolo quasi leggero.
Un limpido specchio di una società esausta, spompata dalla frenetica corsa verso la ricchezza, le macchine di lusso, l’agiatezza vuota; una corsa durante la quale qualcosa – forse semplicemente l’umanità delle persone – è andata persa.

Visto al Cinema Lux, Padova

Silvia Gatto

Intervista a Michele Sambin – TAM Teatromusica

Intervista a Michele Sambin – Tam Teatromusica – a cura di Agnese Bellato e Camilla Toso

Come si è formato il gruppo TAM Teatromusica, quali sono gli ambiti artistici dai quali provenite e qual è stato il vostro percorso di avvicinamento al teatro?

Negli anni ’70 ho svolto un’attività (ora molto riscoperta) legata alla performance e alla video arte. La mia idea di lavoro sul rapporto immagine-suono era un’idea molto giovanile, in quanto, essendo io pittore e musicista, non volevo rinunciare a nessuno dei due linguaggi. L’idea di coniugare immagini e suoni quindi mi appartiene fin dalle origini. Quando lavoravo nel campo delle Arti visive, i confini tra poesia, danza e performance erano aperti, privi di muri di separazione tra i differenti linguaggi. Quindi mi trovavo a mio agio in quest’ambito elastico.
Poi, alla fine degli anni ’70, con il movimento della Transavanguardia capitanata da Achille Bonito Oliva, c’è un momento di grande restaurazione nel mondo dell’arte, in cui ogni ambito si chiude nuovamente in se stesso a causa anche dei problemi in cui è immerso il mercato dell’arte: in particolare per l’assenza di opere realizzate con supporti concreti che possano essere venduti. Infatti, in ambito performativo, come vendere il corpo dell’artista? Questo momento di restaurazione è stato quindi necessario per smuovere il mercato dell’arte.
Io avevo fatto un lavoro sulle video-performance, non mi interessava il video inteso come supporto che immobilizza una situazione, ma come estensione delle possibilità del performer. Quindi il lavoro avveniva in tempo reale, il pubblico vedeva l’evoluzione dello spettacolo con l’ausilio del video.

Con la Transavangurdia non mi sono rinchiuso nel mio studio, era più importante il lavoro qui ed ora in relazione con lo spettatore. La mia non è stata un’entrata classica nel mondo teatrale, ma un trovare, soprattutto inizialmente, il necessario spazio per proseguire il mio percorso performativo.
Gradualmente il teatro mi ha chiesto di andare verso forme più teatrali, come ad esempio nell’esperienza di uno spettacolo nato, stranamente, a partire da un canovaccio di Goldoni (in co-produzione col Teatro delle Albe). In me c’è quindi una matrice da artista/performer, che si confronta poi con la dimensione letteraria del teatro.
In questi trent’anni il nostro lavoro (con il Tam) sembra molto anomalo, in confronto al resto del mondo teatrale: ci siamo ad esempio avvicinati al Teatro Ragazzi (per la mancanza di preconcetti che permettono di comunicare con i bambini), poi abbiamo attraversato una fase di teatro di letteratura (con Ruzzante), in quel caso, piuttosto che guardare al futuro, mi sono voltato indietro verso le mie origini di padovano. Poi ho ritrovato le radici della performance, circa dieci anni fa, quando ho cominciato a lavorare con le nuove generazioni, con le quali ci si sente impegnati in un gioco, un passaggio tra maestro e allievi, in cui ci si racconta ai giovani. Io  ora recupero la dimensione performativa assieme a questi giovani, alcuni dei quali lavorano tuttora in de_FORMA.

Ci sono degli artisti ai quali vi siete ispirati e con i quali vi rapportate tuttora?

Come punti di riferimento giovanili ci sono principalmente due personaggi: uno è  Mauricio Kagel,  maestro dell’avanguardia musicale in Germania, recentemente scomparso, la cui formazione musicale nella ricerca di un’arte totale, lo ha spinto a una presenza teatrale del musicista, che quindi non è più solo semplice esecutore di suoni, ma attore consapevole della propria fisicità scenica.
Altro punto di riferimento che sento vicino al mio percorso è Laurie Anderson, con la quale ho condiviso situazioni di performance negli anni ‘70, in particolare nei primi anni ’80, quando è stata invitata al festival di Sant’Arcangelo.
Tra loro sembrano mondi lontani: Kagel è un musicista di rigida formazione accademica che diviene poi di rottura; Anderson, invece, appartenente alle arti visive, che si colloca poi a sua volta nella dimensione musicale. Il nostro DNA multimediale si vede fiorire ora in molte situazioni, anche nei gruppi giovani, non ne cito, ma è strano e mi dispiace che questi gruppi spesso non conoscano ciò che già è stato fatto. Anche per questo ci stiamo dedicando ad un’opera di archiviazione dei nostri lavori degli ultimi trent’anni: è una raccolta digitale del nostro percorso teatrale (con documenti, appunti, recensioni e fotografie di circa settanta spettacoli), strumento per rendere pubblico il nostro lavoro.

Parlando di de_FORMA, ci sono dei precisi riferimenti a Beckett?

Il riferimento a Beckett in de_FORMA c’è in generale, ed il testo di chiusura dello spettacolo è suo. Durante l’elaborazione del lavoro abbiamo travato un tipo di clima  che ci avvicinava a lui, allora abbiamo voluto legarcene ancora di più. Ma in realtà la matrice di riferimento è tutto il ‘900, compreso lo stesso Kagel. Io mi sento debitore a tutta l’Avanguardia, poi naturalmente c’è il lavoro di sperimentazione che solo le nuove tecnologie possono supportare, come ad esempio l’uso della pittura digitale.

Videointervista a Michele Sambin – TAM Teatromusica

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Tam Teatromusica, diretta da Michele Sambin, è formazione artistica fondata nel 1980. Compagnia di produzione e progetto, si esprime nell’area della ricerca e sperimentazione sui linguaggi. Dalla data di fondazione attua con continuità una poetica che è incrocio e sinergia dei linguaggi visivi e musicali. In tempi recenti la ricerca Tam interagisce e dialoga con i luoghi nei quali si realizza, e il potenziale immaginifico che da essa scaturisce viene messo a servizio della rivitalizzazione dei luoghi stessi attraverso i segni dell’arte. È un’arte che intreccia diversi linguaggi espressivi, dalla musica alla performatività, dall’installazione al video, in un dialogo serrato e visionario con i luoghi che la ospitano.
www.tamteatromusica.it

(Dal Catalogo del Festival Teatri delle Mura)

Adolescenza sintetica

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

Recensione di Crac – Motus

La perfetta geometria di linee e piccoli quadrati proiettati su due superfici speculari, coppia di spazi circoscritti in due cerchi bianchi, si scontra con il movimento volutamente impreciso, insicuro e destabilizzante di Silvia Calderoni, unica interprete di Crac, performance ideata e diretta dai Motus.
Il lavoro processuale sviluppatosi tra le periferie di città europee a partire dai primi ‘movimenti’ di X (ics). Racconti crudeli della giovinezza, ha condotto i due artisti fondatori della compagnia riminese, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, a sintetizzare al massimo l’esperienza precedente. Con Crac si raggiunge una poesia fatta di immagini virtuali, di piccole linee, di elementi propri dei videogames che si allontanano dalla realtà documentaristica dei Racconti crudeli. Ma il mondo fittizio di pixel cui lo spettatore è posto davanti è imbevuto di quotidianità, restituita tramite un tappeto sonoro che riporta i rumori di una città insonne: urla, risate, sirene, fischi di treni. Il cerchio bianco, su cui vengono proiettate queste figurine geometriche, si frantuma, riproducendo piccole fessure che aprono verso un suono altro, verso voci straniere, musiche appartenenti a culture differenti. Se video e sonorità sintetiche rimandano al mondo esterno, in terra disteso sul palco l’esile corpo di Silvia rappresenta la sfera dell’interiorità, del proprio Io. Vestita di bianco, l’androgina figurina cerca di dormire, nello spazio sempre delimitato in un cerchio, mentre il sound design curato da Enrico Casagrande e Roberto Pozzi rimanda incessantemente a manifestazioni politiche, a una violenza verbale agghiacciante e attuale, perfettamente riconoscibile.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Silvia Calderoni si spoglia dei pattini in linea, presenti nelle diverse tappe di X, per indossare quelli classici, con cui viene eseguito solitamente il pattinaggio artistico. Ma la sua non è una danza, non ha niente di propriamente ‘artistico’: è un movimento estenuante, fatto di cadute e risalite; è la continua ricerca di una stabilità lontana, specchio di un mondo fratturato. Pixel, registrazioni sonore e corpo umano interagiscono in un vertiginoso crescendo dove il mondo dell’interiorità cerca di allargare la sua dimensione, di conquistare un proprio spazio dietro le sbarre che vengono riprodotte nel cerchio. Ma le linee si fanno serrate, il cerchio è spezzato; tutto sembra crollare, collassare e rompersi: lo stesso telo bianco viene aperto da Silvia, che si infila al suo interno. Ma rimane la speranza di una rinascita, di una possibile nuova congiuntura, tramite una piccola piantina che spunta dalla frattura.

Una performance fatta di emozioni digitali, che veicola la sua poeticità raggiunta con una perfetta interazione tra mondo virtuale e fisicità. Ma che forse riesce a parlare molto di più allo spettatore appassionato che abbia già seguito tappa per tappa il processo di ricerca sulla giovinezza, rispetto a chi vede Crac come una performance a sé stante, che rimane così all’oscuro dei tanti sottili rimandi all’adolescenza.

Visto al bastione Alicorno, Padova

Carlotta Tringali